«Niente male le tette della figlia maggiore.
Niente male il pezzo di Slash sui titoli di coda»
(dal diario di Nanni Cobretti, data astrale Dopo aver visto Nothing Left to Fear, comunicazione privata autografa con Stanlio Kubrick, collezione privata)
«A ripensarci non sono convinto neanche del pezzo di Slash»
(annotazione privata a margine di Stanlio Kubrick)
Se ne deduce che: Nothing Left to Fear è un film sulle tette della figlia maggiore? È anche “il film horror prodotto da Slash”, formula educata per indicare un prodotto a voler essere generosi da direct-to-video che si guadagna uno straccio di visibilità grazie al coinvolgimento pecuniario e chissà quanto creativo di una ex-gloria del rock americano diventata parodia di se stesso in seguito ad alcune discutibili scelte d’immagine e musicali.
Ma è soprattutto un film sulle tette della figlia maggiore. Cascante a fagiuolo, la SIGLA!
http://www.youtube.com/watch?v=8w339knqY44
Nothing Left to Fear è Troll 2. Cioè, non esattamente Troll 2 visto che non ci sono troll (uhm) né goblin vegetariani né nonni fantasma, ma lo scheletro narrativo è quello: una famiglia si trasferisce dalla città alla campagna, gli abitanti, all’apparenza normali, nascondono un terribile segreto – segnatevela questa che ve la spiegano a Marketing Cinematografico 101 –, la famiglia deve difendersi dal Terribile Segreto. A questo proposito si veda anche, in calce al pezzo, il paragrafo intitolato RIFLESSIONI POST-VISIONE.
Dove però in Troll 2 e in milioni di altri horror simili – Troll 2 mi serve come analogia solo per via dell’ambientazione rurale, e comunque la sto per abbandonare – era una normale famiglia a trasferirsi a Lontanopoli, qui date il vostro benvenuto sulla scena alla famiglia protestante più fastidiosa dai tempi di Settimo cielo! Essi sono:
• padre tonto e prete. Si distingue all’interno della storia perché vuole bene a Gesù ed è inutile;
• madre isterica sotto ketamine. Sorride sempre con sguardo stralunato, risponde agli insulti delle figlie con un risolino, secondo i titoli di coda è Anne Heche. Anne Heche è quel genere di attrice che sai che esiste ma non riesci a collocare, e arrivi a considerare «quella brava che però fa pochi film» finché qualcuno, tossicchiando, non ti allunga un post-it con su scritta la sua filmografia. A me è successo così con il Capo, solo che invece del post-it metteteci una gomitata sul naso. Fa strano vedere recitare Anne Heche in questo film: ha perennemente stampata in volto l’espressione che hanno le buffe vecchiette quando finiscono in contesti non familiari ma divertenti; tipo quelli che portano la nonna in discoteca e lei impazzisce. Solo che Anne Heche non ha manco cinquant’anni;
• figlio. Il figlio invece è un crasto, c’ha la casetta dove alleva le formiche, sembra il fratellino minore di Malcolm in the Trailer Cooking Meth e in genere non fa troppe cazzate;
• figlia uno, quella carina non troppo figa ma con l’atteggiamento annoiato e la lingua lunga da sassy bitch che ti fa venire voglia di vederla ospite in uno speciale di Girls Gone Wild ambientato in Botswana;
• figlia due, quella delle tette. Cagna di rarissima statura. Compare in scena in canotta grigia con questi meloni sodissimi strizzati sul petto e tu pensi che è già il tuo film preferito. Chi ne sa chiama questo fenomeno “effetto HATES“.
Presi singolarmente, i cinque sono un branco di pessimi attori. Presi insieme, l’alchimia familiare, fatta di sorrisini e battutine dolci e strizzatine d’occhio e colpetti di gomito anche quando le figlie dicono cose tremende tipo «odio mia mamma e mio papà voglio fuggirmene da questo luogo di merda», contribuisce a dipingere l’affresco di uno dei nuclei abitativi più insostenibili dai tempi della coppia Sallusti/Santanché.
E poi c’è Clancy Brown, fuoriclasse annoiato che si ruba il film senza manco sudare. Il Kurgan è padre Wintherthorpegateston o qualche altro stupido nome da Bible belt, il vecchio pastore del villaggio che lascia il posto al signor Padre. Ovviamente anch’egli non è quel che sembra, e anzi!, proprio lui è il fulcro del mistero e dell’orrore e delle cose brutte che succedono nel film, lui insieme ovviamente al recalcitrante Figlio Adottivo, il nipote di Gregory Peck (serio), un tizio con vocione bassissimo che si gioca ovviamente il personaggio di “ragazzo locale infatuato delle tette della figlia maggiore ma anch’egli con un lato oscuro tutto da scoprire” puntando sull’understatement confinante con l’autismo e portandosi a casa uno dei pochi ruoli salvabili del film. Ovviamente, ovviamente, ovviamente: è tutto così dannatamente ovvio in Nothing Left to Fear, dalla topografia della casa dove i tizi si trasferiscono fino agli incubi cui è soggetta Tette, culminando con il momento in cui tutto comincia per davvero: quando Sassy Bitch trova un dente di Satana nella torta preparata dalla signora Finkersnatz, 95 anni di adorabile vecchietta (ah sì Clancy Brown si chiama Kingsman).
È da qui, dal momento in cui questo film dell’orrore prova teoricamente a ingranare, che tutto l’edificio distrattamente e mediocremente costruito finora crolla sotto il peso di due o tre considerazioni. La prima, che è insieme la più soggettiva e la più grave, è che partendo da uno spunto da teorico da torture porn (microspoiler, ma la prima cosa veramente brutta che succede alla famiglia è che Sassy viene rapita legata a un palo e circondata da paesani arrapati) non si può, nel 2013, prendere il via per trasformare il film in L’esorcista meets j-horror – Ora con meno sangue e meno violenza!. Non si può sacrificare lo shock factor sull’altare dello sputtanatissimo fantasma con i capelli grigi e degli spaventerelli da dietro il muro. Non si può puntare sull’atmosfera malsana del paesino di provincia se poi il mistero viene risolto al primo ostacolo che i protagonisti incontrano, costringendo il film a languire in un abisso di inseguimenti per strade desolate e simbolicamente svuotate di ogni impatto. Non si può, soprattutto, e qui c’è la seconda considerazione, girare un horror come lo gira Anthony Leonardi III.
Sarebbe antistorico dire che ALIII ha imparato la lezione di You’re Next, ma basta un po’ di reverse engineering per capire il concetto: nel disperato sforzo di apparire autoriale e d’atmosfera, sforzo peraltro smontato con infantile dedizione dalla cagnezza diffusa nel cast, ALIII gioca a montare la tensione per un’ora per poi farla esplodere sul finale, e prova a montarla girando con un approccio naturalista verista realista e mumblecore, con dialoghi in presa diretta semi-improvvisati da gente con la fantasia di Marcel Desailly, camera a mano ballerina da filmino della cresima, sequenze oniriche con luce smarmellata che vorrebbero essere simboliche ma risultano solo noiosissimi momenti di merda, montaggi di Tette e Nipote di Gregory Peck che fanno amicizia.
Tempo che arriva il mostro e ti sei già rotto i coglioni e rimpiangi quei mestieranti del cazzo che in mancanza di talento puntano tutto sullo schifo o sulla violenza o su qualcosa di almeno vagamente interessante da vedere.
Seriamente: i primi sessanta minuti di Nothing Left to Fear, per come li gira Anthony Leonardi III Artista e Cretino, sono un’ordalia, una maratona, un’avanzata nella giungla a testa bassa e machete in mano in cerca di un raggio di sole che illumini LA NOIA e la renda quantomeno sopportabile.
Dopodiché arriva il mostro e il film perde definitivamente qualsiasi forma di interesse.
Nothing Left to Fear diventa così un esercizio di frustrazione e pornografia, nella vana e puntualmente disattesa speranza che Tette metta in mostra quei due centimetri di carne pettorale in più che le facciano portare a casa il film. Invece: canottierina, canottierina più corta, maglietta aderente, e quei seni non si manifestano mai del tutto. Questo, più del resto, io lo chiamo “sbagliare un film”.
RIFLESSIONI POST-VISIONE CON SPOILER
Il dato più curioso o interessante di Nothing Left to Fear è che è strutturato come un classico horror “a cicli” – il Male primordiale compie un rituale sempre uguale a sé stesso finché l’arrivo degli eroi rompe il cerchio e sconfigge il Male –, con la differenza che si dimentica di risolvere la tensione e spezzare la ciclicità dell’orrore. La situazione finale è identica a quella iniziale, l’unica differenza sta nella presa di coscienza dell’orrore della protagonista, il che rende Nothing Left to Fear un film molto più lovecraftiano di altri. Interessante è anche rilevare come questo scarto dalla regola non fa assolutamente nulla per impedire a Nothing Left to Fear di essere un film del cazzo.
Approfondisco: Lovecraft ha scritto parecchi finali negativi o a sorpresa, da La maschera di Innsmouth a I ratti nei muri a Il colore venuto dallo spazio a Colui che sussurrava nelle tenebre, tutta roba che funziona perché non solo sovverte solo il racconto dell’orrore, con cicli e rotture di cicli, ma la fiaba classica stessa, anche fuori dal genere. Giocava con materiale ancestrale e lo piegava a una cosmogonia in cui il male è troppo potente per essere sconfitto, nonostante le apparenti e temporanee vittorie degli eroi. Nothing Left to Fear vorrebbe sfruttare lo stesso trucco ma non ha neanche la decenza di dare ai protagonisti una chance, per cui non c’è nulla da sovvertire o di cui sorprendersi: di fatto è come guardare, stirata fino a diventare un film, la scena che di solito sta prima dei titoli di testa di un horror qualunque. Sì, è un film del cazzo.
DVD-quote suggerite
«Madonna che film del cazzo»
(Stanlio Kubrick, i400calci.com)«È come assistere a quello che in un horror di mostri è di solito “la scena prima dei titoli di testa”!»
(Stronzio Fogliani, ideecretine.com)
Marcel Desailly…quarto gol…atene 94… quanti ricordi…
Ultimamente capita spesso che i concept/creature/FX designer decidono di mettersi alla regia ma il più delle volte partoriscono dei film abissali…
Ma quindi un altro horror con apparizioni-femminili-capelli-lunghi-no-occhi-bocca-allungata-come-la-maschera-di-Scream? Se ne sentiva il bisogno come di una colica renale. La bionda è gnocca ma se non mostra nada non vale manco la pena buttarsi sul torrent. E cmq Shari Moon tutta la vita.
OMFG
Clancy Bwwwown fto sbavando
cioè cioè ma ve lo ricordate nei panni di Padre Justin in Carnivale?? *__*
Rispondo solo alla domanda posta sotto la prima immagine.
Sì, decisamente sigla! Un gran bel pezzo di sigla!
Per il resto penso che MEH! sia l’unico commento da fare…
Naaa…Se non le tira fuori ste ette manco gli dò una chance a sto film. A meno che il livello canotta non sia livello Bereavement, è questo il caso o no?
@bellazio: sì, è una canotta di marca Bereavement. Io almeno ai primi 10 minuti per vederla in azione una chance la darei.
La canzone è mediocre, però Slash suona veramente male.
ma andando oltre le tette mai uscite (ammesso sia possibile) ‘sta cosa del Lovecraft e del cinema, un matrimonio mai fatto. O fatto solo in passati remoti. Possibile che nessuno ci si applichi? Comprendo la difficoltà, ma insomma…