A me piace tanto Philip K. Dick. Sento già le risatine maliziose di qualcuno di voi, “A George Rohmer gli piace il Dick”. Eh vabbè, che ci posso fare, è così. Eppure una delle più grosse delusioni della mia vita post-adolescenzial-pre-adulta fu leggere Ma gli androidi sognano pecore elettriche? (allora circolava col titolo Blade Runner e la foto di Harrison Ford appeso al cornicione). Bello, eh? Però non ci volevo credere che alla fine non c’era il famoso monologo. Cioè prendete Blade Runner e togliete il monologo di Roy Batty. Sempre bello, eh? Ma non sarebbe la stessa cosa. Quel monologo È la fantascienza. Ora, non vorrei usare un termine abusato come “evocativo”, ma è calzante: con poche parole e senza nemmeno sapere che cazzo stava dicendo (more on that later), Roy Batty evoca un’intera saga di avventure cosmiche che da sole basterebbero a riempire una trilogia.
Quel monologo lo ha scritto – non da solo, ma insomma lo ha modificato nella forma attuale – Rutger Hauer. E noi lo abbiamo intervistato al Festival di Locarno (dove è arrivato in moto da Praga). Ed è un grosso che non ne avete idea. A voi.
Rutger – posso chiamarti Rutger vero? – tu sei un dio del cinema e hai anche avuto una vita pienissima, hai fatto cose che noi umani eccetera. Ad esempio quando da ragazzo sei scappato di casa per lavorare come mozzo su una nave. Che cazzo avevi in testa?
Stavo scappando dalla scuola e correndo verso il mio futuro. Quel viaggio di un anno per mare mi aprì gli occhi e mi fece capire cosa volevo fare. Io non sono come le rock star, loro sanno sempre dove sono e dove atterrano, la loro agenda è programmata con un anno di anticipo. Io metà delle volte neanche so dove sto andando. Il mondo è un posto strano e devi essere flessibile se vuoi evitare che ti fotta. Per me non esiste un giorno normale, ogni volta che arrivo in una stanza d’albergo devo riorganizzarmi per capire cosa sto facendo e come lo farò. E sono piuttosto veloce a farlo.
Geeesù, certo che già qui ci hai dato una lezione di virilità mica da ridere. Girare il mondo deve anche averti aperto le porte dell’immaginazione, no?
È vero, ma quando giri il mondo come attore spesso finisci per vedere solo uffici. Allora devi noleggiare una moto e vedere cosa c’è intorno a te, invece che startene seduto nei ristoranti. Non voglio essere uno di quegli attori che non sa mai dove diavolo sia: quando c’è da lavorare lavoro, ma appena posso scappo via.
Veniamo a Blade Runner. Il monologo di Roy Batty te lo sei scritto da solo? Era in sceneggiatura? Ognuno ha la sua opinione a riguardo, ma vorrei sentire la tua…
Il monologo era in sceneggiatura, io ho tagliato circa 300 parole, ho tenuto due battute e ne ho aggiunta una: “Tutti quei momenti andranno perduti nel tempo come lacrime nella pioggia”. L’idea era che la batteria si stava esaurendo in fretta e dovevamo trovare un monologo conciso, non c’era tempo per una scena di morte lunga. Il bello è che Roy parla di avventure nello spazio e non dice mai niente di esplicito sul suo amore per la vita, eppure si capisce lo stesso. Sono felice che abbia funzionato.
E la battuta sulle “porte di Tannhauser” era nello script?
Sì, quella è una delle due battute che ho tenuto, insieme alle “navi da combattimento in fiamme al largo dei bastioni di Orione”.
Allora, scusa se te lo chiedo, perché in realtà in vita mia non ho mai ascoltato niente che non contemplasse chitarre urlanti e mullet a buttare, ma Tannhauser non è per caso una citazione di Wagner?
Non ne ho idea! E per me non ce l’aveva neanche Roy. Anche se il concetto era che fosse più umano degli umani, per me rispondeva comunque a un programma, e per giunta una versione obsoleta.
Dopo i gloriosi anni ’80 sei passato, negli anni ’90, a fare un sacco di roba per l’home video o cinema di serie B comunque cazzuto. Cosa ricordi di quel periodo?
Il 1987 è stato uno dei miei anni migliori, ma prima e dopo quello ho difficoltà a ricordare bene cosa ho fatto e mi tocca cercarlo su Google. Diciamo che ho fatto tanti film diversi e come vengono fuori poi non dipende da me. Mi piace lavorare, mi prendo tanti rischi, faccio tutto quello che posso per regalarvi più varietà possibile.
Grazie, sei davvero un grosso. Eppure c’è gente che guarda il tuo lato action con la puzza sotto il naso. Glielo vuoi dire che sei felice di aver fatto tanti ruoli d’azione quanti “d’autore”?
Sì, anche se arriva un momento in cui smetti di essere credibile come eroe d’azione. Io amo molto il movimento, il lato fisico del cinema, ma ho dovuto smettere di fare gli stunt perché mi facevano male le ginocchia e avevo cicatrici dappertutto. Nella mia carriera ho abbattuto molte barriere tra i generi, senza mai accorgermene. Niente di tutto questo era pianificato, io non ho mai avuto piani. Mai. Solo piani di riserva quando qualcosa andava storto.
Il tuo primo ruolo in America fu in I falchi della notte, insieme a Stallone. Visto che hai fatto un sacco di ruoli action nello stesso periodo suo e di Schwarzenegger, mi stupisce che non ti abbia mai chiesto di fare un Expendables…
L’ho incontrato per strada non tanto tempo fa e mi ha chiesto, “Come va?” (a questo punto Hauer fa l’imitazione perfetta di Stallone). Alla fine ci siamo salutati e gli ho detto, “Magari chiamami”. Non l’ha mai fatto. Onestamente non so se fosse per Expendables, ma ho la sensazione che se me lo avesse chiesto avrei risposto “Grazie tante, ma non mi interessa”. Mi puzzava. Quando fecero The Hitcher 2, il mio agente mi chiamò per chiedermi se mi interessava. “È un piccolo ruolo – mi fa – tre giorni di riprese e ti pagano bene”. Gli dissi subito che in quel caso non mi interessava. C’era solo un ruolo che avrei voluto fare. Il mio sogno proibito sarebbe stato fare un Hitcher ogni dieci anni, penso che sarebbe stato divertente.
A proposito di film mai fatti, è vero che Paul Verhoeven ti voleva per Robocop?
È vero, ma gli dissi che non ero interessato. Già mi bastava un androide nella filmografia, ma a parte quello avevo appena scoperto la mia faccia. Pensavo che fosse troppo buona per coprirla a metà con un visore. Credo che Peter Weller abbia fatto un lavoro enorme, molto meglio di quello che avrei fatto io.
Passiamo a qualche ricordo sparso su film che per fortuna hai fatto. Che mi dici di Ladyhawke? So che c’è una storia d’amore in mezzo, ma cazzo, ci sei anche tu che ti trasformi in un lupo!
Quella fu la prima volta che viaggiai in Italia. Arrivai con il mio camper vecchio di 35 anni, un 18 Wheeler, come lo chiamano romanticamente in America. Ricordo che sul set gli italiani non smettevano mai di parlare, perché non erano abituati a fare i film con il sonoro in presa diretta. Richard Donner perdeva sempre le staffe e gridava “State zitti, per dio!”. Ma nessuno lo ascoltava, perché non capivano l’inglese. Allora chiedeva aiuto a Vittorio Storaro (il direttore della fotografia) e lui li zittiva subito. E poi ricordo quanto era difficile lavorare con gli animali. Avevo il falco sul braccio, il cavallo sotto il sedere e allo stesso tempo dovevo recitare. In quei casi devi conoscere il linguaggio del corpo degli animali, sapere cosa vuol dire se il cavallo rizza le orecchie o il falco volta la testa a 180° all’improvviso. Ogni volta che il cavallo impennava me la facevo sotto e mi dicevo “Resta impassibile, non darlo a vedere!”. Sono anche fiero di aver fatto da solo quasi tutti i combattimenti con le spade. Avevamo un ottimo maestro d’armi e io facevo scherma da quando avevo 15 anni. I duelli di spada sono difficili da realizzare perché le coreografie sono ritmate e progettate nei dettagli, ma devi far sembrare tutto spontaneo e imprevedibile.
A proposito di spade, tu hai fatto anche Furia cieca e lì non solo dovevi imparare le coreografie, ma dovevi far finta di essere cieco…
Quello è stato più difficile, infatti, perché se non puoi mettere a fuoco farai meglio a sapere dove sono posizionati gli altri attori. Per quel film ho lavorato con un cieco per un mese (Lynn Manning). Il primo giorno di riprese arriviamo sul set. Lui non aveva mai “visto” la neve, loro parlano così, ed era elettrizzato perché il set ne era ricoperto. Ricordo che abbiamo subito iniziato a tirarci palle di neve; a un certo punto sento una voce che mi chiama, “Rutger!”, mi volto e paf! Mi aveva colpito con una palla di neve dall’altra parte del set. Che cazzo di mira doveva avere? La prima cosa che mi disse prima di girare fu: “I ciechi non sono stupidi. Non farci sembrare stupidi”.
E per finire, Il seme dell’odio. Quel film ti ha permesso di lavorare con gente come Michael Caine e Sidney Poitier. Cosa ricordi di loro?
Ricordo che rimasi due mesi in Kenya, imparai a pilotare aerei e scalai il monte Kenya. Loro erano dei colleghi fantastici, attori di gran classe. Caine e Poitier, ma anche gente come Richard Harris, Richard Burton, tutti quei fottutissimi tough guys di un tempo sono i miei idoli. Da loro ho imparato che non devi mai lasciarti mettere i piedi in testa. Se qualcuno tenta di fermarmi gli dico “Non puoi farcela”. Mi hanno dato l’ispirazione, che è la cazzo di fonte di energia più pulita che ci sia e può alimentarti per tantissimo tempo.
57 Commenti
@ziofrank: mi dispiace di base per la mancata fiducia ma sì, non sono così ottuso da non capire che l’equivoco è comprensibile.
Eccomi, scusate se non sono intervenuto prima. Il mio nome è Matt Murdock, non sono Devil!
Scherzi a parte, le interviste si toccano solo in due punti mi pare. Leggerle tutte e due non fa altro che integrarle.
Ora vi sparaflasho così dimenticate tutto.
nessun problema nanni. mi scuso anche io per aver pensato male subito.
quest’uomo ha anche allenato il real madrid
bravo triolocaust
Salutiamolo anche qui, fancalcisti.
Personaggi minacciosi solo dallo sguardo, senza dire ne’ fare nulla… rip.
E vinceva pure la champions , grazie al goal del produttore.