Questo contenuto bonus lo avrei voluto iniziare con una storiella buffa – tipo che a Reggio Emilia c’è una frazione che si chiama Sesso ohohoh e magari c’è anche un largo che si chiama Pene? ohohoh, matte risate – giusto per metterci dell’umore giusto e convincerci tutti insieme ad alzare le nostre stanche carcasse e andare, fra il 14 e il 27 giugno, ai cinema (all’Eden Puianello, al Rosebud e all’Olimpia) per vedere un sacco di ottimi film, molti dei quali assai calcianti, che vengono dall’oriente. Credevo anche di dover cacciare l’asso di briscola in prima mano e ricordare ai gentili lettori che il premio dell’EstAsia di Reggio Emilia si chiama KAIJU D’ORO, e probabilmente non c’è altro da aggiungere. Poi però ho proprio pensato che, perbacco, siamo rimasti chiusi in casa il tempo necessario a Takashi Miike per scrivere, girare e montare 16 film e adesso abbiamo finalmente una sorta di prudente liberi tutti. L’idea di spatasciarsi al cinema con l’aria condizionata – e le distanze di sicurezza – dopo così tanto tempo si motiva da sola, dai. Non c’è nemmeno bisogno di ricordare tutte le cose belle che ci sono tanto mancate: il buio in sala, la poltrona comoda, il cesto di rotelline di liquirizia, quello a fianco che parla a voce troppo alta, quello davanti che controlla il risultato di Macedonia del Nord-Ucraina con la luminosità dello schermo del cellulare al massimo, e quello dietro che è Riccardo Cervi, centro di Scafati nativo di Reggio Emilia, alto 214 centimetri, di cui almeno 56 adagiati sulla tua schiena nonostante il distanziamento sociale di cui sopra. Insomma, gente che è in zona, c’è l’EstAsia, di cui siamo orgogliosi partner, che 1) vi dà una buona possibilità di tornare a fare quello che ci piace tanto 2) porta in Italia tutta una serie di film fatti a est di Otranto (dalla Bulgaria fino al Giappone) molti dei quali, anche con la manopola dello streaming a palla, difficilmente li trovi o ne senti parlare e soprattutto 3) fa un ottimo regalo alla comunità cinefila (400)calciofila organizzando la proiezione (il 19 giugno alle 21 al cinema Olimpia) di quel gran pezzo di film che è JALLIKATTU.
L’EstAsia funziona che, oltre a far vedere JALLIKATTU in un cinema vero su uno schermo grande vero, organizza anche le proiezioni di tanti altri film che partecipano a un concorso il quale si conclude con l’assegnazione di un KAIJU D’ORO. C’è anche un fuori concorso con in programma figate come Made in Hong Kong e Joint Security Area, ma quella è un’altra storia. Ora, io i film del concorso li ho visti tutti per motivi religiosi e per ragioni mediche. Con grande onestà vado a segnalarvi i titoli che tirano più calci di tutti, sorvolando sugli altri che comunque sono buoni film e se vi capita andateci eh. Tipo c’è il bulgaro Aga che mostra alcuni dei vantaggi di vivere in una iurta – compreso il fatto che acquisti il diritto di dire quante volte vuoi una parola magnifica come iurta. Oppure c’è John Denver Trending, che è un film filippino sul bullismo social, ed è fatto con intelligenza rara nonostante sia costato i soldi che son serviti a Tornatore per accettare di sentire quanto gli veniva proposto per dirigere Il mago di Esselunga. Detto questo, io vi consiglierei:
Siblings of the Cape che è di Shinzo Katayama e viene dal Giappone. Per farvi capire: ieri ho sognato che mi rubavano lo scooter, e nel sogno reagivo accovacciandomi per assumere una posizione fetale ma senza sporcare i vestiti sul marciapiede, e accovacciandomi per assumere una posizione fetale ma senza sporcare i vestiti sul marciapiede mi si rompevano entrambe le ginocchia. Anche se la parte più disperante del sogno era chiamare l’ambulanza e descrivere l’incidente: “No niente, salve, mi sono scoppiate le ginocchia accovacciandomi per assumere una posizione fetale ma senza sporcare i vestiti sul marciapiede in reazione al furto del mio scooter e, per l’appunto, non ho più uno scooter per venire in ospedale. Vi aspetto”. Ecco, Siblings of the Cape è la stessa sensazione, trasformata in film e moltiplicata per centomila. Un uomo zoppo e licenziato dal lavoro, che si prende cura di una sorella con disturbi mentali. Zero budget, messa in scena senza sconti, sporcizia fotografica (e non) ovunque, zero retorica e zero compiacimento. Cattivo con senso. Numero di calci (tenendo in conto che il massimo di 400 se lo aggiudica Jallikattu): 112.
La doppietta del kazako: A Dark, Dark Man e Atbai’s Fight, entrambi realizzati (nello stesso anno!) dal solido Adilkhan Yerzhanov, a cui piacciono molto i film lunghi (o 130 minuti o niente) e i protagonisti maschili sgradevoli che sono residui sensibili del patriarcato sovietico. Il primo film è un noir anti-spettacolare, per certi versi assurdo, e con un occhietto furbo e tenero rivolto verso Memories of Murder. In pratica c’è un detective kazako che dovrebbe investigare sull’assassinio, il quarto del genere nel giro di altrettanti anni, di un ragazzino in un villaggio sperduto; solo che, svogliato e corrotto com’è, accetta di buon grado di far arrestare il primo innocente con la faccia losca di passaggio. Poi arriva una giornalista che riapre il caso, e lì son brutte storie buffe. Atbai’s Fight ha lo stesso attore protagonista, Daniar Alshinov e la sua bella fazza triste e inkazaka, nei panni di un personaggio spiacevole tanto quanto il detective di A Dark, Dark Man; e ha un simile sguardo sghembo nel raccontare la storia di un teppistello con un grosso problema di rabbia (mai) repressa, che decide di partecipare a un torneo di MMA il cui vincitore sarebbe già stato deciso a tavolino. Solo che il nostro non ha mica ricevuto l’appunto. Numero di calci: rispettivamente 293 e 266. Il noir del villaggio ha qualche calcio allegorico in più perché, oggettivamente, è un film migliore.
Chiudiamo con altri quattro films. C’è Chola di Sanal Kumar Sasidharan, un thriller pissicologico che viene dal Kerala e parla malayalam proprio come Jallikattu, solo che dura un po’ di più – neanche tanto per lo standard indiano, due ore giuste giuste – per il semplice fatto che ci sono degli umani da far vedere e da far parlare. Che noia questi umani. In Chola, uno di questi sacchi di carne è la versione cattiva e del sud-ovest indiano di Bud Spencer, un tizio con una faccia che non promette niente di buono e infatti finisce con il rapire la fidanzata di un suo dipendente senza spina dorsale. Numero di calci: 222.
C’è Heavy Craving di Pei-Ju Hsieh, un film che viene da Taiwan e che sarebbe una commedia senza nessuna esplosione. È la storia di una donna che ha 30 anni e si porta appresso 105 chili, con un misto di stigma sociale e vergogna che le viene dal di dentro a impedirle di avere il minimo sindacale di vita sociale. “Cosa c’è di calcista in questa cosa qua?” Grazie Fabrizio. Io dico che se riesci a fare una commedia che riesce a giocarsela così bene tra grasse risate (ohohoh) e momenti molto più tragici, che riesce a essere sguaiata il giusto e cinematograficamente competente, allora hai fatto una roba che mica in tanti riescono a fare, e per questo sei dei nostri. Numero di calci: un 200 tondo tondo.
E infine c’è un’ultima doppietta, stavolta dedicata a quei nichilisti scavezzacollo dei giapponesi. Prima c’è The Gun, dell’autodidatta tutto matto Masaharu Take – che già aveva fatto quella cosa mica male di 100 Yen Love, ovvero Commesse che menano le mani. The Gun è la storia di uno studente universitario odioso che capita per caso sul luogo di un delitto, trova per terra una pistola di Čechov e decide di tenersela appresso per sentirsi più potente. So che lo studio di un personaggio, per di più fatto in bianco e nero quasi a titillare il fantasma di Oshima, sulla carta potrebbe non sconfinferare. Ma fidatevi che sono giapponesi e sono tutti matti. Numero di calci: 184. Poi c’è anche Taro the Fool di Tatsushi Ōmori, il classico film che ami o che odi perché è fatto in una maniera respingente e incazzata. Io l’ho amato, e dico che dentro ci sono almeno 250 calci metaforici. Il film racconta di Taro – ragazzino completamente lasciato a sé stesso, che non è mai stato a scuola e non sa nemmeno quanti anni ha – e lo fa con una grana grossa, una cazzimma e una voglia di spaccare tutto che ricordano un po’ i primi Sion Sono e Takashi Miike, quelli a budget meno di zero. Anche qui come in The Gun, poi, c’è di mezzo una pistola che non aiuta di certo a stabilizzare dei personaggi già di per sé fuori dai gangheri. Il che ci porta alla morale finale di questa presentazione di EstAsia 2021: le armi da fuoco sono il male, ed è sempre colpa degli Stati Uniti d’America. Ciao amici! Ricordate di idratarvi, di controllare il sito ufficiale della manifestazione per orari, prezzi, indicazioni, programmi, varie ed eventuali, e di fare sempre pulito.
Sono dalle parti di Reggio nell’Emilia, e mi sa che ci andrò!
Quella molto probabile propaganda pro-Cina di “500 eroi” che pubblicizzano su Instagram non lo proiettano/non l’avete visto?