Stavo scrivendo una recensione per I 400 Calci sul film The Graveyard e rileggendola ho trovato questa frase: “…quasi un omaggio al re del b-movie per antonomasia, si sarebbe tentati di dire Roger Corman, ma viene più spontaneo citare John Carpenter – in quanto se Carpenter con il suo cinema si pone al confine tra il passato e il futuro, Roger Corman è fuori dal tempo”. Non ho mica capito cosa volevo dire.
Però è vero: se penso a Corman, e al disagio che spesso provo guardando i “suoi” film, mi viene in mente proprio questo: fuori dal tempo. L’ultimo film che ha diretto non a caso è Frankestein oltre le frontiere del tempo. Ho controllato: era tratto da un romanzo di Brian Aldiss. Basterebbe forse questo titolo per riassumere Corman.
Ho detto dei “suoi” film, con il pronome possessivo fra virgolette, perché Corman non è un regista né uno sceneggiatore né un produttore: Corman è un brand. Non si tratta del superamento del concetto di autore, concetto peraltro sconosciuto al cinema fin dalla sua nascita e inventato da qualche sagace critico per fondare una professione e metter le mani sui succulenti budget dei festival.
Mi viene in mente a questo proposito un racconto di Brian Aldiss. Ci sono i più grandi scienziati del mondo che si riuniscono per risolvere la questione fondamentale: Dio esiste? Allora decidono di collegare tutti i più grandi calcolatori del mondo a un unico gigantesco calcolatore, il calcolatore dei calcolatori. Lo accendono e digitano sul monitor: “Dio esiste?” Il supermegacalcolatore ci pensa un po’ poi risponde: “Adesso sì”.
L’autore esiste perché esistono i critici. Mi pare, questo, fuor di dubbio. Anche se il racconto era prima di Internet.
A meno che per autore non si intenda un genere con la sua grammatica, allora le cose cambiano.
Volete la ricetta per fare un film d’autore? Eccola:
1. Prediligere i piani sequenza in campo medio, soprattutto per le scene di sesso.
2. Almeno 5 scopate a film. 3 sofferte, 2 gioiose, o viceversa. Tutte comunque in lacrime.
3. Primi piani delle attrici mentre piangono mentre trombano. Lasciare incerto il fatto che godano o no.
4. Ellissi incomprensibili con dissolvenze in nero.
5. Rumori in presa diretta e riduzione al minimo della colonna sonora.
6. Fotografia finto sporca.
7. Almeno una scena che richiami un dipinto classico.
8. Finale aperto.
Ma non si tratta neppure di una contrapposizione tra cinema d’autore e cinema di genere, perché Corman è oltre le frontiere dei generi.
Allora sempre per capire quest’impressione di estraneità al tempo di Corman – di questo brand che identifica tutti i generi e imbarazza il cinema perché è indifferente alla sua mitografia – ho riguardato un film per me assurdo, Rock All Night, prodotto e diretto da Corman nel 1957.
Che cos’è questo film? Un musicarello con i Platters, una versione lisergica di Gioventù bruciata, il progenitore di Strade di fuoco? L’unico aggancio razionale che mi viene è con Russ Meyer, un altro scocomerato fuori dal tempo.
Rock All Night non è un film senza un registro coerente, uno stile preciso, è proprio un film senza grammatica.
Mi pare allora sia questo il segno distintivo, il marchio di fabbrica del brand-Corman: un cinema senza grammatica.
Un tale mi aveva illuminato in questo senso durante la presentazione di un libro su Mario Bava. Era andato lì come gli scienziati di Aldiss solo per chiedere la cosa che lo ossessionava di più al mondo: “Ma perché,” disse con voce tremante, segno di un disagio interiore che aveva troppo a lungo soffocato, “quando vedo un film di Mario Bava non mi ricordo mai il titolo ma mi piace mentre quando vedo un film di Roger Corman non mi ricordo mai il titolo ma mi fa schifo?”
La contrapposizione tra Bava e Corman mi sembra perfetta: entrambi lavorano sui “generi”, entrambi dispongono di bassi budget, entrambi sono considerati come “maestri” del b-movie. Ma mentre Bava è rigoroso formalista, e lo spazio dei suoi film è un perfetto incastro di pianificate geometrie, mentre Bava insomma segue ossessivamente, febbrilmente, la grammatica, Corman… già, Corman?
Eppure Corman ha diretto anche capolavori. Uno di sicuro: Il Barone Rosso lo metto se non tra i primi dieci senz’altro tra i primi quindici miei film preferiti. Deve cambiare il giudizio allora, lo sgrammaticato che macina immagini diventa l’autore da retrospettiva? Non so. Però qui (miracoli della negoziazione tra testo e spettatore) la sua approssimazione diventa astrazione e la sua rozzezza stilizzazione capace di spingere la narrazione fino alla brutale semplicità dell’animale umano. Fino a oltrepassare, per dir così, le mediazioni della civilizzazione.
Intendo dire che Corman è un selvaggio, un barbaro. Al contrario di quanto pretendano i critici – ossessionati dal bisogno di marchiare d’autorialità le chiappe di qualunque mandriano – non si è mai sentito sottovalutato né bisognoso d’essere riscoperto. E il fatto che venga santificato con un Oscar è quanto di peggio, immagino, gli possa capitare.
Ps 1: A proposito di Oscar: ho visto quello che aveva vinto Franco Cristaldi per Nuovo Cinema Paradiso. Era esposto nella libreria dello studio della Cristaldi Film, insieme a tutti i Leoni D’Oro e i David Di Donatello. Ora lui è morto e le statuette sono dei soprammobili. Intendo dire: solo gli eroi greci resteranno per sempre.
Ps 2: Ma poi perché cavolo avrò scritto che il cinema di John Carpenter si pone al confine tra il passato e il futuro? Roba da matti. Alla mia età continuo a scrivere delle stronzate. Solo che non mi ricordo più perché.
a questo punto…
David di Donatello alla memoria a Mario Bava?
Questo pezzo gronda una complessità di fondo che mi attira (perché la riflessione è interessantissima, specie la chiusa finale), e mi spaventa (perché tale riflessione richiederebbe un impegno notevole per essere sviscerata seriamente).
Quindi ho deciso che ci penso da solo, tra me e me, nella mia cameretta.
Se volete sapere le mie conclusioni, citofonatemi.
Bel pezzo, poi mi piacciono un sacco sia Corman che Carpenter, in maniera inversamente proporzionale al cynema d’avtore. Un piccolo appunto: il racconto che citi è di Fredric Brown, e non di Brian Aldiss. :)
Hai ragione RRobe, richiederebbe anche più lavoro, prendiamola come una serie di spunti.
Per Niccolò: ci credi se ti dico che l’ho fatto apposta? Ho letto quel racconto tipo venticinque anni fa e non mi ricordavo né il titolo né l’autore. Quando mi sembra adatto lo cito modificando l’autore a seconda dei contesti. Una volta stavo presentando per esempio Ai confini della realtà, con molti episodi scritti da Richard Matheson e ho fato la paternità del racconto come di Matheson. Grazie per avermi ricordato chi era! Ti ricordi anche il titolo del racconto?
ho dato la paternità, non fato
per Rrobe: con chiusa finale intendi naturalmente il fatto che scrivo stronzate ma per la demenza incipiente non me ne ricordo il motivo :-)
Il raccontino si chiama “Answer”: http://www.roma1.infn.it/~anzel/answer.html
Il racconto citato è di Brown, ma molto simile è anche L’ultima domanda di Isaac Asimov:
http://it.wikipedia.org/wiki/L%27ultima_domanda
Un mito! Peccato che dagli anni 70 abbia iniziato la sua politica filmica fatta di sesso, nudità, storie perverse violenza! Mah!