“Miike facciamo così. Ti dò 3 indizi sul film della prossima settimana, se lo indovini ti sconto tutta la Curse. Se non lo indovini te la raddoppio e intensifico”
“È un po’ rischioso Nanni…”
“Dai che è facile”
“È facile?”
“Facile facile… e se vuoi puoi chiedere l’aiuto del pubblico…”
“Ok…”
“I tre indizi sono: ragazzina, poteri telecinetici, abusi famigliari. E ti regalo anche la data: 2013”
“È facilissimo…”
“Lo so, mi sento buono. Allora sei pronto con la risposta?”
“Certo!”
“Benissimo. Spara”.
SIGLA…
httpv://www.youtube.com/watch?v=o4w2ByQG3cA
C’è una cosa che non sono mai riuscito a capire. E questa cosa sono le cartoline. Perché dovrei comprare la rappresentazione fotografica di un luogo dove sono stato? Per quale ragione poi dovrei spedirla ad amici e parenti, magari allegando anche due righe scritte di mio pugno sforzandomi di essere originale? (battaglia che peraltro ho dichiarato persa da un paio d’anni. Ormai compilo indistintamente qualunque cartoncino con la scritta “Auguri”. Il che funziona in quasi tutte le circostanze, eccetto i funerali ma -ehi- chi lo vuole un amico che perde l’ironia solamente perché gli è morto un parente?). Nella classe “cartoline” c’è inoltre un sottogenere che capisco ancora meno. E queste sono le cartoline con i culi e le tette. Io personalmente non so se esistano ancora, ma sono pronto a giurare di averle viste in almeno tre-quattro bar in cui sono stato di recente. Il che mi fa pensare che c’è qualcuno che ancora le manda. Ecco quindi la domanda: perché dover spedire cartoline che rappresentano in maniera irrealistica il luogo dove sei stato -giacché, se va bene, quelle foto sono state scattate negli anni 70 senza la muffa di salsedine che mangia le pareti delle villette, i cipressini rosicchiati dallo smog, gli ombrelloni sbiaditi, le sdraio brune di untume umano e la sabbia ormai ridotta a una distesa indistinta di mozziconi, merde di cane frammiste a quelle di bambini e stecchi di magnum algida-, con immagini di donne nude probabilmente scattate in un’altra nazione, il tutto arricchito da un paio di disegnini scartati persino dai programmatori del primo Powerpoint per evidente carenza di artisticità?
La domanda, che mi ha assillato per un sacco di tempo, solamente nell’ultimo anno ha trovato risposta. E quella risposta è “Shyamalan”.
Shyamalan ci ha infatti insegnato che basta avere un messaggio per far un film. Anzi, basta e avanza solamente il messaggio. Chi se ne frega del film. In questo i film di Shyamalan sono la trasposizione cinematografica delle cartoline: non importa cosa ci metti sopra, l’importante è che si capisca chiaramente che tu ti stai divertendo un mondo a dispetto di quegli stronzi che sono rimasti a casa. E più il messaggio è urlato ed esplicito e più lo stronzo di cui sopra alla fin fine non si sente chiamato in ballo ma anzi ringrazia di cuore per il pensiero. E si appende la fotografia anni 70 sbiadita e accartocciata dalla troppa esposizione al sole nei dispenserini rotanti, sulla mensolina della cucina. Insomma, parafrasando un famoso detto, Shyamalan ci ha spiegato chiaramente che se è abbastanza grosso (il messaggio/la metafora) non importa saperlo usare per far godere qualcuno.
Una lezione questa applicabile (e applicata) a vari livelli (e a vario cinema) tanto che si parli di un horror in cui esplode la testa alla gente che non corre (The Human Race) tanto che, mutatis mutandis, si voglia vincere un Oscar nella categoria Miglior Film Straniero. Il concetto di metaforone che si mangia la trama, insomma, ci mette di fronte a un’ars cinematografica che, preso un concetto -che solitamente viene reso esplicito e chiaro nel finale dell’opera-, ne viene totalmente soggiogata. L’autore pertanto procede a ritroso nel tentativo di costruirci intorno un’architettura utile a sorreggere e esplicitare il più possibile il messaggio in questione. Siamo, insomma, di fronte a un cinema che potremmo chiamare “induttivo”. E ora, dopo questa affermazione, vi lascio un attimo di privacy.
httpv://www.youtube.com/watch?v=OdzmLppQsxo
Ecco, Dark Touch rientra perfettamente in questa categoria. C’è una bambina dotata di poteri telecinetici che emergono a seguito di violenze domestiche. Questo concetto, chiaro più o meno dal minuto 10 del film, viene ripetuto a intermittenza per tutta la durata della pellicola fino all’epilogo finale che aggiunge poco a quanto già spiegato in sede di prologo. Siamo insomma di fronte a 90 minuti di discettazione sociale intorno al tema della violenza e degli abusi a cui fa da contorno una struttura horror che però nulla aggiunge a quanto già detto. Il che ci fa domandare una cosa: per trattare un tema grande c’è per forza bisogno di un pennarello grande? O è meglio un grande pennarello?
httpv://www.youtube.com/watch?v=2kjjQiRo5oA
Sì perché Dark Touch si limita a scrivere con il pennarellone a punta grossa messaggi sociali di tre-parole-tre. Nel tentativo di far emergere in maniera più lampante, chiara e inequivocabile possibile il tema del “se picchi tuo figlio è male”, la regista Marina de Van fa deragliare il film più volte, esponendosi a MACCOSA a raffica e mandando a vuoto anche alcune buone intuizioni. A questo si deve inoltre aggiungere un finale che ci fa chiedere in tutta onestà se il tema, al contrario di quanto fino a quel punto annunciato, non sia stato trattato al contrario fin troppo semplicisticamente dato che alcune dinamiche messe in scena attengono più alle caserme della Folgore piuttosto che a quello che all’infanzia violata (poi magari no, eh? Se ci sono psicologi all’ascolto sono pronto a esser smentito).
Il film insomma manca di sostanza. E lo stesso paragone con Carrie (che vorrebbe essere davvero lampante sia per soggetto protagonista che per finale) alla fine risulta del tutto fuori luogo. Dark Touch infatti sembra infatti più un film d’impostazione orientale (penso a Rancore), in cui, solitamente, il movente dell’ingerenza del paranormale sul “reale” è sostanzialmente uno e legato a un caso specifico e non da una condizione (o breakthrough) esteso -quando non globale-. Se l’orrore scatenato da Carrie infatti nasce da un preciso momento storico-sociale (pensate all’incontro tra la madre di Carrie. ultracattolica e integralista, e la madre di una compagna di classe, casalinga nullafacente in odore di alcolismo e teledipendente,: due modelli entrambi negativi ed entrambi disfunzionali), quello creato dalla piccola Niahm, la protagonista, nasce esclusivamente dall’abuso da lei subito (che coinvolge tanto lei, quanto bambini di un ceto sociale inferiore a dimostrazione che il problema è solo quello dell’abuso e non del perché esso si verifichi). Lo stesso confronto tra l’espressività esagerata di Sissy Spacek e l’impassibilità di Missy Keating, figlia di Ronan (lo linko per i pischelli all’ascolto), depone a favore della totale lontananza dei due film -e della derivazione di stampo orientale di Dark Touch-.
Ciò detto non è difficile capire perché questo sia stato accolto con parecchio entusiasmo anche da un pubblico come quello del Frighfest: le idee visive, condensate all’inizio della pellicola, ci sono e funzionano. Nel complesso la De Van riesce a studiare in maniera spesso interessante l’inquadratura prediligendo la composizione dell’immagine ai movimenti di macchina (se vi ricordate l’agilità di De Palma in Carrie capirete ulteriormente quanto siamo distanti) e infarcendo il tutto con l’ormai onnipresente fotografia blu che farà sborrare dal naso tutti gli amanti del cinemino indie. Insomma, Dark Touch è un film sociale che si gioca la carta dell’horror come autogiustificazione per il mancato approfondimento del tema che vuole trattare. Consigliato solo se siete amanti sfegatati delle ragazzine inespressive e tutte matte, degli oggetti che volano via per la casa senza un apparente motivo o anche solo volete convincervi che avete fatto bene a non fare il militare.
DVD-Quote Suggerita
Una metafora scritta con il pennarellone grosso
Bongiorno Miike, i400calci.com
Appunto per il futuro: mi ci gioco 20 euro che fra un paio d’anni ci troveremo a guardare le foto di Missy Keating con la stessa libidine mista a senso di colpa con cui guardiamo oggi le foto di Christina Ricci. (ma non quelle di Abigal Breslin)
Non è possibile… appena lo sento nominare non posso farne a meno, cristo, è come il morso della tarantola:
SHAMMALYà! SMASHALLLALLA’! SHMALAYAYAMALAMAN!!!
SMAMBRILLOLLASHAMMAYA’!
WISHH WOSSH! SHAMMALLAAAAAAAAAAAAAA’! AAAAAAAAAARGH!!!!
SHAMAMAMMAMMORIAMMAZZATO!
SIUSCIA’!
Ora posso leggere la recensione fino in fondo.
Il metaforone grosso serve perchè non tutti si masticano un film a sera o passano il tempo su internet a discuterne. Se vuoi mandare il messaggione meglio essere espliciti, esagerati, didascalici al punto di avvitarsi verso il maccosa: la riflessione sull’ineluttabilità del male diventa un’esortazione a scartare gli handicappati; il manifesto di un paese diventa un pensierino tra l’ossessione per la fregna e il ricordo delle tette e così via; l’onestà è merce rara.
Più ti avvicini alla mezz’età più passa il senso di colpa. Chloe Moretz avrà visto più uccelli di una voliera al bioparco, perchè dovrei sentirmi in colpa a immaginare di sdraiarmela?! in Italia, tra l’altro, sarebbe legale (ignoro le norme sull’età del consenso negli States).
@miike
carissimo, stavolta il mio dissenso è netto. Il metaforone c’è, ma il racconto funziona eccome, riesumando la telecinesi, i bambini maledetti, i fenomeni paranormail incontrollabili con ottime idee visive, come tu stesso hai rilevato.
Trattandosi della De Van, colei che con Dans Ma Peau ha realizzato il migliore manifesto anarchico autolesionista del nostro tempo, io sono disposto a perdonarle alcune incertezze di regia.
Ad ogni modo, la mia opinione è scritta qui: http://dikotomiko.wordpress.com/2013/11/13/rece-dark-touch/
Saluti e complimentoni a tutti voi
A me invece i fratelli De Van fin dai tempi di Sitcom sono sembrati due bluff giganteschi, gonfiati ad arte dalla critica francese come le oche per il fois gras. Sullo stesso tema di Dans Ma Peau, anni prima Simona Vinci aveva scritto un bellissimo racconto (non mi ricordo il titolo, sorry).
Abigal Breslin…..ma che diavolo le è successo??? O.o
@diko: guarda la questione è che mi sembra che sia stato usato un po’ troppo il pennarellone nello scrivere la parola MOLESTIE. Insomma un film facilone condito con alcune buone idee che avrebbero potuto essere decisamente più disturbanti se ci fosse stato una maggiore finezza narrativa e approfondimento. Invece così siamo sul superficialone.
Per un attimo ho avuto paura che l’avesse prodotto/scritto la mia nemesi Shyabadà.
Invece era solo un esempio, per fortuna.
Comunque, mi sembra evitabilissimo lo stesso, quindi salterollo!
Complimenti davvero per la similitudine “cartoline coi culi/Shyamalan”, maledetto allui. C’è da dire che Shyamalan almeno aspettava la fine per spararti in faccia il MESSAGGIONE, per altro quasi sempre banalissimo, che comunque impacchettava bene (fino a Lady in da wota più o meno) perché nella costruzione della tensione ci sapeva fare.
@cicciolina
non amo la Vinci, e uno dei motivi è l’aver letto quel racconto di cui parli, effimero more solito, mentre per la De Van l’intento anarcoide, travestito da sofferenza personale, è esplosivo.
@miike è vero, Dark Touch scivola un pò, ma si muove su alcune traiettorie che fanno ben sperare
Per un attivo avevo sperato nell’equivalente filmico di Elfen Lied. Peccato.
Matteo Pascal: siamo distantissimi. Elfen aveva maggiore spessore
Vabbè, Miike, vorrà dire che comincerò a illudermi con questo: http://www.imdb.com/title/tt2872732/ (film potenzialmente calciabile…)