A voi LE BASI, la rubrica in cui stabiliamo e blocchiamo le fondamenta del Cinema da Combattimento in modo da essere tutti in pari. In questo primo, imprescindibile round fisso settimanale percorriamo la filmografia di una delle colonne portanti del nostro credo, il glorioso John Milius, attraverso le opere più importanti della sua carriera, sia come regista sia come sceneggiatore. Buona lezione.
L’uomo dai sette capestri è un titolo che ricorre ormai da un paio di settimane nel nostro specialone su John Milius. Parlando di Ispettore Callaghan il caso Scorpio è tuo si diceva che nel 1971,
«John Milius era impegnato con una sceneggiatura commissionatagli dalla 20th Century Fox per il nuovo film di John Huston, uno dei suoi eroi, un film che sarebbe diventato poi L’uomo dai sette capestri»
mentre discutendo di Corvo rosso non avrai il mio scalpo Darth ricordava che
«Dopo Il caso Scorpio è tuo, L’uomo dai sette capestri ma prima del secondo episodio di Callaghan, la Warner Bros chiede a John Milius di lavorare a un soggetto western»
A vederlo così, citato come virgola tra un capolavoro e l’altro, L’uomo dai sette capestri sembra un accidente, una casualità capitata a uno sceneggiatore a inizio carriera di cui si parla per ragioni d’archivio e poco altro. Milius era impegnato con script che avrebbero fatto la storia, il regista John Huston – con tutta la storia e la gloria che si porta dietro – era in giro da trent’anni e si era appena ripreso dopo una sfilza di mezzi flop con Città amara, uscito anch’esso nel 1972, il protagonista Paul Newman era all’apice del suo successo, tre anni dopo Butch Cassidy e un anno da La stangata. Un all star game di gente divertita, guidata da un ragazzino neanche trentenne a cui era piombata in mano la prima Offerta della Vita nel senso più hollywoodiano del termine: uno script su commissione (primo e unico della sua carriera), basato sulla biografia romanzata di un tizio di fine Ottocento che si era autoproclamato giudice di una cittadina in mezzo al nulla e aveva lì costruito un impero a forza di impiccagioni e giustizia sommaria.
O forse no.
Che la pagina Wiki dedicata al giudice sia più lunga della pagina Wiki dedicata a un film di John Huston con Paul Newman è significativo: Roy Bean, rapinatore di banche autoproclamatosi giudice in un gesto di maccartismo (inteso come Cormac) estremo, è una figura leggendaria del vecchio West, alla pari, per fare un esempio a caso, di Mangiafegati Johnson; a maggior ragione perché vissuto a cavallo tra Ottocento e Novecento, quando la ferrovia era ormai di casa negli States e la civiltà, il futuro e il progresso stavano mangiandosi la tradizione. Bean è una figura che poteva esistere solo vicino alla frontiera, nel deserto del Chihuahua, dove si deve attendere il volgere del secolo Ventesimo, non Decimonono, per vedere i primi pozzi di petrolio tartassare il suolo e tutti gli stronzi che il petrolio porta con sé accorrere in massa.
Brutalmente: Roy Bean era un relitto, una rarità, un pezzo da museo, un despota illuminato e isolazionista, che guidava una vera e propria polis con mano sicura – e verso un’inevitabile sconfitta, nel momento in cui questa si fosse aperta al resto d’America. È un uomo che, pienamente aderente al canone-Milius, si costruisce da solo la sua realtà, il suo mondo, la sua libertà. Proprio per questo, in un mondo in cui la civiltà stava sgomitando per arrivare ovunque, la sua è un’epopea da perdente, la parabola di un uomo con una forte fibra morale e una fiducia incrollabile nella giustizia come lui stesso la interpreta. Bean era testardo, prepotente, onesto e incorruttibile, la ricetta perfetta per venire spazzato via da un treno carico carico di furbizia, sotterfugi e – gasp! – progresso.
Non è difficile capire perché Milius accettò di scrivere il film su commissione, perché considerava Roy Bean un personaggio memorabile e perché considera il suo script originale per il film «il migliore che avessi mai scritto».
Più difficile, nel 2014, capire cosa ci sia in L’uomo dai sette capestri che Milius odia cordialmente, tanto da essere arrivato a dichiarare che «John Huston mi ha rovinato il film». La chiave della faccenda sta in una parola che difficilmente vi saresti aspettati di trovare in questo speciale: commedia.
Un’altra cosa che Milius racconta dell’esperienza Roy Bean è che Huston e Newman lo sfottevano sempre. Lo prendevano in giro. Lo torturavano. Secondo il regista, «io e John avevamo un rapporto bellissimo sul set, continuavamo a rimbalzarci idee e il film in pratica è stato scritto mentre lo giravamo». Secondo Milius, «Huston aveva un’assistente, una zitella di nome Miss Hill, e quando non gli piaceva qualcosa che avevo scritto mi minacciava che avrebbe fatto riscrivere la parte a Miss Hill». Indipendentemente da quale delle due versioni sia quella corretta (per solidarietà sto con Milius, non è strano pensare a due giganti del cinema che bulleggiano il nuovo arrivato), la diatriba è indicativa del contrasto di tono tra quel che sta su carta e quel che si vede su schermo: Milius voleva fare un’elegia di un personaggio brutale, violento e a modo suo integerrimo, il residuato di un’America scomparsa – anche al cinema: ovviamente il film fu bollato di revisionismo e conservatorismo quando uscì – e portavoce di valori ormai fuori moda, ma a cui lo sceneggiatore non vuole rinunciare. Huston e Newman, invece, volevano divertirsi, stemperare il tono crudele e definitivo di una storia destinata al fallimento. Intrattenere.
Credo che sia questa incomprensione di fondo a rendere L’uomo dai sette capestri il filmone che è.
Basta la prima scena a spiegarlo. Bean, reduce da una rapina in banca andata a buon fine, entra in un bordello in mezzo al nulla per bere e scopare: la colazione dei campioni, almeno finché papponi e puttane non vedono il luccichìo dell’argento in tasca al giudice, lo riempiono di botte, lo legano a un cavallo e lo spediscono a morire nel deserto. Bean viene salvato da quella che lui definisce «un angelo» (Victoria Principal, di una bellezza difficilmente spiegabile), che gli dona una pistola e la possibilità di riscattarsi. Il giudice lo fa a modo suo: entra nel bordello urlando come un ossesso e massacra tutti. Nel corso della sparatoria vediamo tra le altre cose gente che vola fuori dalla finestra del locale e un tizio che, nel tentativo di estrarre la pistola, si spara sul cazzo. Tutti ridono.
Quella che poteva essere l’apertura crudele e spietata della storia di un uomo che aveva trasfigurato la sua doppietta in giustizia divina diventa una scena ritmata, travolgente e francamente divertente, nella quale i proiettili volano in tutte le direzioni tranne che verso il corpo di Bean e nella quale lo stesso Bean dà mostra di riflessi sovrumani e totale assenza di pietà o senso del limite. Sono dieci minuti che bastano per definire il protagonista del film come un supereroe – e il termine “antieroe” lo lasciamo a chi deve necessariamente applicare i propri standard morali odierni a una storia ambientata a fine Ottocento. Non supereroe in senso fumettistico forse, ma L’uomo dai sette capestri è una power fantasy, il sogno americano della frontiera e del self made man fatto film, il racconto di come un uomo armato di fucile, cappio e codice penale del Texas sia riuscito a costruire un impero pacifico dove le puttane vivono con i pistoleri e dove la birra costa 1$ se stai perdendo a poker, 25$ se stai vincendo. Una persona capace di ammaestrare orsi e di uccidere pazzi albini, di conquistare il cuore della bella messicana e contemporaneamente di adorare con slancio dantesco un’attrice di teatro, Lily Langtry, il cui volto tappezza le pareti del Jersey Lily come fosse una Madonna nel mese di maggio.
Da un lato, dunque, c’è l’epica letteraria del pistolero, esasperata e parossistica come accade sempre alla fine di un impero*. Dall’altro, l’epica cinematografica dell’eroe che non sbaglia mai, la cui parola è legge e che, per funzionare, deve necessariamente vivere in un mondo in cui tutto è esagerato, caricaturale, comico. Sarà che sono passati 42 anni da quando L’uomo dai sette capestri è arrivato al cinema, ma a rivederlo oggi è difficile prendersela con Huston per questo: impermeabile a quarte pareti o ammiccamenti vari che a noi del 2014 hanno un po’ rovinato la commedia (in particolare se applicata al genere), il regista del Mistero del falco ha l’intelligenza di rendere l’elemento comico – o comunque divertente – parte integrante del mondo raccontato; gli uomini sono tonti e sdentati, le donne vipere furbissime, gli avvocati e la gente di città affettata al limite del lezioso. Sono contrasti che nascono naturali in un ambiente che stava rapidamente cambiando, e i momenti più divertenti sono quelli in cui la filosofia di Bean e quella di Gass (il vero antagonista del film, l’uomo che con il potere dei pezzi di carta sottrae al giudice la sua città) si, diciamo così, confrontano.
A favorire la vena comica del film anche la sua struttura narrativa: una serie di vignette (i life and times del titolo originale) tra il bizzarro e il surreale che tratteggiano l’ascesa di Bean e gli ostacoli che ha dovuto superare, da «quella volta che incontrò un tizio con un grizzly e decise di adottare l’orso» a «quella volta che un tizio pazzo albino volle ucciderlo». Restiamo su questi due esempi. Nel primo, il tizio con il grizzly (John Huston in persona) si ferma dalle parti della città governata da Bean per seppellire una delle ruote del suo carro, e con essa se stesso: «Ho vissuto tutta la vita tra le montagne, al freddo, ora voglio morire al caldo». Nella seconda, la soluzione della minaccia verrà poi ripresa pari pari nove anni dopo da Steven Spielberg. Entrambi gli episodi fanno ridere. Nessuno dei due scalfisce in alcun modo l’aura mitologica di Bean, anzi ne rafforza lo status. Neppure quando il giudice e la sua bella vanno a fare un picnic al fiume insieme all’orso e giocano con lui sulle altalene (… davvero) si riesce a ridere di Roy Bean – al massimo con lui, perché più che essere un’apologia acritica del vecchio West L’uomo dai sette capestri è uno sguardo nostalgico e rassegnato a qualcosa che non esiste più. E la nostalgia è più dolce se si può anche sorriderne.
Lo stesso Huston, peraltro, doveva essersi reso conto di che razza di materiale aveva per le mani, tanto che il lato scanzonato del film va scemando man mano che ci si avvicina al (doppio) finale, quello che per i disattenti cementava il film come “opera di revisionismo storico” e che in realtà è più vicino all’elegia in stile Il grinta che alla catarsi djanghesca. [Da qui SPOILER, ovviamente] Se prima Bean viene ripudiato dai suoi stessi marescialli, traviati dalle loro donne e dal neoeletto sindaco Gass, e poi torna armato di vendetta per radere al suolo l’intera città con l’aiuto degli stessi pozzi di petrolio che l’avevano trasformata in una piccola metropoli, è dopo la sua scomparsa che L’uomo dai sette capestri si svela davvero per quello che è: Lily Langtry, l’intangibile figura divina che guida ogni passo e ogni scelta del giudice, arriva finalmente sulla soglia del Jersey Lily, per visitare il museo dedicato alla vita del giudice Bean. Quasi ottant’anni di vita trascorsi tra impiccagioni, sparatorie, puttane e alcool, ridotte a un museo, una raccolta di curiosità, di «ci pensate che appena vent’anni fa la vita qui era così… così selvaggia?». A morire non è solo Roy, è tutto il West, soppiantato da fumi e industrie, da leggi leggine commi e cavilli, da pezzi di carta che valgono più della vita di un uomo.
«Poi, le donne ottennero il diritto di voto, e tutto andò a puttane» si dice nei titoli di coda, e leggere in questa frase un semplice «si stava meglio quando si stava peggio» sarebbe un errore concettuale. Il punto è che, neanche troppo implicitamente, Milius e Huston ammettono la superiorità del new world order, del progresso, dell’industria. Non morale, non ideologica, non filosofica: superiorità fisica, brutale, schiacciante. Chi ha costruito un impero sulla violenza non può che aspettarsi di venire scaraventato giù dal trono con altrettanta violenza, e questa volta da qualcuno che non ha intenzione di giocare alle sue regole – quelle della morale, dell’onore, dell’usucapione di territori, dell’impiccagione per merenda. Roy Bean in un certo senso è destinato a perdere, e se non trovate che sia una riflessione amara questa vi meritate l’impiccagione. Senza neanche farlo pesare, L’uomo dai sette capestri celebra la morte del sogno della frontiera vent’anni prima di Gli spietati, con il valore aggiunto che qui Newman non si ritira a vita privata come faceva Eastwood prima di venire riesumato, ma abbraccia la sua visione del mondo fino all’ultimo suo respiro e fino all’ultima, spettacolare scena di morte e distruzione che, pur non riconsegnando l’America nelle mani dei suoi legittimi proprietari, riconsegna almeno al deserto l’opera di Bean, troppo pura per poter essere perpetrata anche nel nuovo secolo.
Poi ci sarebbero gli aspetti tecnici di cui parlare, ma paradossalmente sono quelli meno interessanti. Girato con un budget niente male (4 milioni di dollari, con set costruiti apposta nel mezzo del deserto dell’Arizona) e girato con mano salda (ma secondo Milius «con il pilota automatico») da Huston, L’uomo dai sette capestri si regge anche, soprattutto, sulla figura di Paul Newman, tanto che il fatto che intorno a lui passino Jacqueline Bisset, Ned Beatty, Anthony Perkins e Stacy Keach è trascurabile. Fin troppo bello per il ruolo, con una barba finta che a tratti rivela in maniera quasi comica la sua natura posticcia, Newman ci mette il cuore ma ha sempre l’aria di uno che si sta divertendo troppo; il carisma è innegabile, lo schermo è sempre pieno di lui, ma mi mangio il cappello se scopro che per Milius il casting non è parte del problema del film. Il suo costante gigioneggiare non sempre funziona – anche se quando lo fa, soprattutto in qualche dialogo brillante e assai moderno, la sindrome di Stendhal è dietro l’angolo.
Dove con “brillante” intendo questa tirata di Bean contro le mogli dei suoi sceriffi, ex-prostitute diventate rispettabili signore del West:
«I understand you have taken exception to my calling you whores. I’m sorry. I apologize. I ask you to note that I did not call you callous-ass strumpets, fornicatresses, or low-born gutter sluts. But I did say “whores.” No escaping that. And for that slip of the tongue, I apologize».
E con “moderno” intendo scambi di questo tipo:
«You call that justice?»
«Justice is the handmaiden of law».
«You said law was the handmaiden of justice».
«Works both ways».
In definitiva: non voglio fare del revisionismo a tutti i costi, L’uomo dai sette capestri ha la sua bella dose di problemi (oltre a Newman, un calo di ritmo clamoroso nella seconda metà del secondo atto) e circondato com’è da giganti verrà sempre ricordato, nella carriera di Milius, come un episodio minore, un passaggio obbligato della sua formazione, nonché (per parecchi anni, ora non più) lo script più costoso della storia del cinema, 300.000$ per un’opera che l’autore ripudierà con gusto subito dopo averla vista messa in scena. Qualcosa di cui vale la pena parlare per il suo valore aneddotico, quindi, ma anche un esempio sublime di come un’incomprensione (volontaria o meno che sia), uno scarto di tono, l’interazione tra uno sceneggiatore che aveva una storia in testa e un regista che ha deciso di raccontarla a modo suo, possono creare qualcosa di grande. L’uomo dai sette capestri grande lo è – e se uscisse oggi, nella stessa forma in cui è stato girato, verrebbe salutato come un capolavoro.
DVD-quote suggerita:
«Who are you?!»
«Justice, sons of bitches!»
(Judge Roy Bean)
*non a caso Bean improvvisa anche un micro-monologo dove spiega come mai l’impero romano, dopo aver raggiunto il suo apice, sia crollato miseramente sotto il peso di sé stesso.
Gran film. Il giudice Bean mi sta simpatico sin da quando lessi di lui sulle pagine di un Lucky Luke…
Ma la Contea di Val Verde, Texas (dove Roy Bean era Giudice di Pace) è gemellata con Val Verde, penisola che ogni anno ospita i Sylvester?
grande recensione, migliore del film, che comunque e’ molto divertente.
Il film non l’ho visto, ma tra toni da commedia, struttura episodica e revisionismo sembra ricordare Piccolo grande uomo(che io non adoro). E’ così?
Sempre ottimo pezzo, comunque.
Altro ennesimo pezzo da incorniciare…la prima vera scottatura del nostro con il mondo di Hollywood…purtroppo la prima di molte…
dio bono che recensione, vale la pena di vederlo anche solo per vedere con i propri occhi quello che hai scritto. Complimenti Stanlio!
E come fa a non venirti la curiosità?
Ottimo Stanlio
Che bella questa rece! Quanto il film, davvero..
Secondo me l’abbinamento tra script drammatico e regia leggera é un punto di forza, é davvero un western surreale. La versione italiana uscuta in edicola qualche anno fa o che passa raramente di notte in tv é assai sforbiciata. Io sono in possesso di un ottimo mux del dvd americano, in lingua italiana e con le scene sforbiciate in lingua originale che dura una mezz’oretta in piú. Non lo vedo da una decina di anni, ma le ricordo come scene parecchio importanti, per lo piú narrazioni fuori campo che approfondiscono le fasi che la cittadina attraversa.
Cosa curiosa: il dvd da edicola riporta la durata del film integrale, ma l’informazione stampata in retrocopertina é falsa
Sceriffo della contea di Val Verde!!
vidi questo film un’era fa e tra l’altro credo proprio di aver visto solo la criminale edizione italiana, mi e` tornata voglia di vederlo, stavolta senza tagli e in originale…
Sara` anche merito di Milius, ma questa monografia e` da sturbo, grandi ragazzi
“Milius e Huston ammettono la superiorità del new world order, del progresso, dell’industria. Non morale, non ideologica, non filosofica: superiorità fisica, brutale, schiacciante. ”
ecco, son considerazione come questa che distinguono i veri reazionari con qualcosa da dire dagli abbruttiti al bar (tipo il frank miller post demenza senile).
il lavoro del reazionario da De Maistre in giù è indicare le contraddizioni interne del mondo che rifiutano, anche se poi non gli interessa trovare soluzioni perchè vorrebbe dire venire a patti con quel mondo.
cmq la comicità era inevitabile: ricordiamo Roy Bean è anche protagonista di una storia di Lucky Luke
Inutile dire che mi aspettavo un film completamente differente. All’inizio mi ha spiazzato, ma poi, quando il tizio si spara sul pisello, mi sono convinto a guardarlo abbandonando il pregiudizio derivante dal binomio western/Milius.
E poi c’è Victoria Principal una che ti fa venire voglia di vedere Dallas oggi solo per poterla ammirare ancora un po’. Non fa mai vedere tette o culo ma con quel viso potrebbe muovere la montagna e Maometto come burattini. E infatti riesce a muovere anche il giudice Bean che poprio uno facile non è.
A proposito della differenza fra edizioni io consiglio vivamente quella Usa e non quella italiana sforbiciata in maniera grezza e avvilente. Fra l’altro proprio le “scuse” alle troie mi sembra che siano solo in quella originale.
Vero è pure che a un certo punto il film sembra non girare più come dovrebbe.
SPOILER
SPOILER
Per me la cosa coincide con la morte di Maria Elena e del suo sguardo (come in Jeremiah Johnson l’eroe va via da casa e perde tutto), ma credo che la cosa sia oggettiva.
Poi ci sarebbe da fare anche un discorso sulla legge. Sia il giudice che l’avvocato la piegano in maniera assolutamente arbitraria ai loro valori e scopi.
E allora la legge, anche quella scritta che è nata per dare certezza al diritto, non ha questo gran valore. Conta solo l’individuo che la usa, se ha un animo nobile, nobile sarà la sua applicazione diversamente sarà il caos e degrado.
E purtroppo è proprio così
Solo con il maccartismo avete vinto
Niente da aggiungere o commentare rispetto alla perfetta recensione, posto solo perché mi pare un peccato vedere così pochi commenti per questa favolosa rubrica.
Bella la recensione e bello il film che ho visto da piccolo per la prima volta e da un po’ più grande la seconda, tutte e due le volte in tv. Ovviamente la scena che preferisco è quella con Bad Bob l’albino!!!
complimenti Stanlio: questo film non l’ho mai visto, ma la tua potente recensione (bravo bravo) mi ha convinto a recuperarlo il più presto possibile
d’altronde qui si parla delLE BASI
La recensione è davvero notevole, come anche il film del resto… ma il grado di reazionarietà di questa monografia è superiore a quella de il giornale+il foglio+fate voi cos’altro messi insieme…
grande recensione ennesimo film che devo assolutamente reperire…
L’ho visto diversi anni fa al Festival del cinema di Torino e non lo ricordavo quasi. Grazie per la recensione, molto interessante