Un uomo normale, con una vita normale. Un lavoro normale. Un normale appartamento in una città normale. Una donna normale che gli ha lasciato solo il bisogno di dimenticarla. Normale. Una salute normale. Qualche vizio, ma è normale. Il respiro è normale. Il battito del cuore è normale. Tutto. Straordinariamente. Normale.
Questo è il discorso che ogni mattina Antonio Matteo Peardi si ripete aprendo gli occhi al suono della sveglia. Lo fa da quando ha 18 anni. Lo fa perché la ripetizione del suono della parola “normale”, anche se pronunciata mentalmente, lo tranquillizza. Lo rasserena. Gli consente di affrontare meglio la giornata. Negli ultimi 15 anni, Antonio Matteo Peardi ha pronunciato la parola normale al suo risveglio 56940 volte. Il che si ottiene sommando
alle 43800 volte dei primi 12 anni le 13140 volte in cui ha deciso di fare riferimento alla sua situazione sentimentale che hanno elevato il numero di “normale” del piccolo monologo da 10 a 12.
Antonio Matteo Peardi si pronuncia questo mantra tutte le mattine, con gli occhi aperti fissando il soffitto mentre la sveglia ancora taglia in due il silenzio della notte. Poi allunga un braccio. La spegne. Si alza dal lato sinistro del letto e aspetta che il freddo del pavimento in piastrelle a contatto con i piedi nudi lo riporti del tutto alla realtà. Anche quella mattina è una mattina come tante altre.
È mattina normale. Di un mese normale. Di un anno normale. Di una vita normale.
Antonio Matteo Peardi si guarda allo specchio: barba di un giorno, forse due, da quando non si rade? Barba dura, canta mentre se la strofina con forza facendo le smorfie davanti allo specchio. Si lava la faccia. Si guarda allo specchio. Scosta con una mano la tenda del bagno per guardare fuori: il sole è alto, una vicina sta lavando i vetri in una posizione molto poco sicura. “Da grande farò la casalinga” si era promesso a 8 anni guardando dal bagno della sua scuola elementare le casalinghe andare al mercato. E invece cosa faccio? Cosa ho fatto? Chiude l’acqua. Esce dal bagno. Cammina verso la cucina. Si ferma a metà del corridoio. Torna in camera da letto. Si rimette a dormire.
È una mattina normale. Di un mese normale. Di un anno normale. Di una vita normale.
Un uomo normale, con una vita normale. Un lavoro normale. Un normale appartamento in una città normale. Una donna normale che gli ha lasciato solo il bisogno di dimenticarla. Normale. Una salute normale. Qualche vizio, ma è normale. Il respiro è normale. Il battito del cuore è normale. Tutto. Straordinariamente. Normale.
Questo è il discorso che ogni mattina Antonio Matteo Peardi si ripete aprendo gli occhi al suono della sveglia. Poi scende dal letto, mette i piedi nudi sul pavimento piastrellato. Va in bagno. Si guarda allo specchio. Barba lunga, lo invecchia. Da quanto non si rade? Si Si guarda gli occhi. Una macchia rossa, liquorosa e densa, si spande intorno alla pupilla ramificandosi verso l’esterno dell’occhio. Antonio tira fuori la lingua. La rimette dentro. Guarda fuori dalla finestra del bagno. L’alba si spande in un cielo filamentoso. Poi va in cucina ma a metà corridoio si ferma. Si volta. Torna in camera. Si rimette a dormire.
È una mattina normale. Di un mese normale. Di un anno normale. Di una vita normale.
Un uomo normale, con una vita normale. Un lavoro normale. Un normale appartamento in una città normale. Una donna normale che gli ha lasciato solo il bisogno di dimenticarla. Normale. Una salute normale. Qualche vizio, ma è normale. Il respiro è normale. Il battito del cuore è normale. Tutto. Straordinariamente. Normale.
Questo è il discorso che ogni mattina Antonio Matteo Peardi si ripete aprendo gli occhi al suono della sveglia. I piedi appoggiano sulle piastrelle. Fredde. Arriva in bagno. Si guarda. La barba è lunga già due dita. Ne afferra un ciuffo sul mento e lo tira in basso come a volersi strattonare. La sensazione di dolore arriva con qualche centesimo di secondo di ritardo. Si guarda gli occhi, si guarda la lingua, si strofina le mani l’una contro l’altra. Apre l’acqua calda. La richiude senza motivo. Di colpo la sensazione che qualcosa. O qualcuno. Sia entrato in casa. Esce dal bagno lentamente, come timoroso della possibilità di incontrare qualcuno. O qualcosa. Guarda fuori dalla finestra. È buio. Poi va in cucina. Arriva a metà del corridoio e si volta. Torna in camera. Si mette a dormire.
È una mattina normale. Di un mese normale. Di un anno normale. Di una vita normale.
Un uomo normale, con una vita normale. Un lavoro normale. Un normale appartamento in una città normale. Una donna normale che gli ha lasciato solo il bisogno di dimenticarla. Normale. Una salute normale. Qualche vizio, ma è normale. Il respiro è normale. Il battito del cuore è normale. Tutto. Straordinariamente. Normale.
Questo è il discorso che ogni mattina Antonio Matteo Peardi si ripete aprendo gli occhi al suono della sveglia. Si alza. Piastrelle. Freddo. Bagno. Specchio. La barba. Lunga. Colazione, forse. Cucina. Arriva a metà del corridoio. Si ferma. Allunga un braccio e afferra il cappotto. Lo indossa velocemente sopra al pigiama con un crescente senso di impellenza. Intorno a lui la casa lentamente si stringe di un’oscurità che sembra uscire da sotto le porte. Il buio si mangia i muri e i pavimenti, si insinua nelle fughe delle piastrelle, riempie come inchiostro versato i tappeti, le porte. Intorno a lui un buio gommoso e avvolgente avanza tentacolare, cercando di afferrarlo, sinuoso, alla nuca, per le braccia, nelle caviglie. Antonio Matteo Peardi sente il cuore rallentare e farsi impellente nel suo battito. Un sibilo, sottile e crescente, gli riempie le orecchie. Un passo dopo l’altro percorre il corridoio del suo appartamento sempre più stretto, afferra prima che scompaia la maniglia della porta. Percorre le scale, un gradino alla volta, poi due. Apre il portone e corre. Nel buio della città dove solo i lampioni possono assistere alla paura di chi vi vive. Corre convinto nel lasciarsi alle spalle il letto, la sveglia, il pavimento, il bagno, il lavandino, la barba, la mattina, il mese, l’anno. Antonio Matteo Peardi corre perché sa cosa cerca e cosa vuole. Non sa il nome della malattia, ma sa quello della cura. Non sa dove sia il male, ma sa qual è il tempio in cui cercare di esorcizzarlo. Lo sa. E lo vede.
MA PRIMA DEL FINALE DI QUESTA STORIA, UNA BREVE DISAMINA DI CIO’ CHE AVETE LETTO
Quello a cui assistiamo è una ripetizione che ossessiva nella sua brevità ci presenta sempre la stessa situazione che avanza ciclicamente. Questo evoca immediatamente alla mente tre cose:
a) Una struttura musicale del loop così come utilizzato nella musica minimale
b) una vite senza fine
c) La fidanzata che ti chiede “hai finito?” ogni qual volta fai qualcosa che lei ritiene inutile e non la degni delle dovute attenzioni.
Il loop però evoca anche l’immagine dell’anello, inteso come struttura circolare che può, unito con suoi simili, creare a sua volta una nuova struttura: la catena. Ed è proprio il tema della catena che in questo racconto si sente maggiormente: il personaggio, Antonio Matteo Peardi, è incatenato in una routine circolare (ad anelli) che lo costringe, nella sua normalità, a vivere la stessa frazione di giornata.
Ma come mai Antonio va non riesce a portare a termine il suo giorno? Cosa lo porta a riaddormentarsi? Probabilmente la causa e l’effetto coincidono: il suo incatenarsi alla normalità, alla ripetizione, lo ha ormai del tutto bloccato in una condizione strettissima dove l’imprevisto non è contemplato. Lo stesso doloroso episodio sentimentale con la ex fidanzata è stato normalizzato, reinserito in un numero, conteggiato, masticato e digerito. Antonio Matteo Peardi vive una costante e crescente stanchezza derivante proprio dalla sua costante e crescente apatia. Una stanchezza che non sembra in grado di sconfiggersi se non nel momento in cui il male (quella che nelle ultime battute viene chiamata appunto malattia) inizia a divenire troppo impellente. È davvero reale la diffusione dell’oscurità all’interno dell’appartamento di Antonio o, al contrario, quella che si spande ovunque non è altro che la presa di coscienza di ciò che è diventato. Il sibilo cosa rappresenta? Forse la voce della coscienza. E il guizzo, il coraggio di uscire, pur rimanendo ancorati al sé, simboleggiato dal pigiama, da cosa nasce? Qual è il moto interiore che porta a questa rivoluzione?
Insomma, cosa vede Antonio Matteo Peardi? Qual è l’elemento, il grimaldello che aprirà il cerchio e spezzerà la catena? Forse potremmo avere un’indicazione proprio dal nome del protagonista che l’autore ha scelto volutamente strano.
Antonio Matteo Peardi = (Ant)on(i)o Mat(te)o Pea(rdi). ONOMATOPEA. Ora siamo pronti per il finale.
IL FINALE TANTO ATTESO
Antonio Matteo Peardi corre nella città ancora silenziosa. In lontananza, nella sua casa abbandonata ad un destino ancora una volta uguale a se stesso, la teiera continua a fischiare. Sul tavolo una bustina, la solita bustina, della tisana depurativa alla liquirizia. Lei l’aveva costretto a lasciare se stesso, le sue abitudini, la sua umanità simboleggiata dai piccoli rituali pagani di ogni giorno sostituiti dal monoteismo integralista “di una vita sana”. Antonio Matteo Peardi entra in un caffè. Splash.
FRASE SU FASCETTA SUGGERITA
Uno spaccato inquietante sulla vita di tutti i giorni con un finale classico ma sempre d’impatto.
Bongiorno Miike, i400calci.com
Nota finale con SPOILERONE (ovvero della recensione di 7500 il film di Takashi Shimizu che mi son dovuto beccare ‘sta settimana)
Se pensate che un indecente numero di battute sia troppo per commentare una barzelletta contenuta probabilmente nella Stele di Rosetta, allora ragionate su come mi devo essere sentito a sorbirmi i 78 minuti di 7500, un mediocre ghost movie ambientato su un aereo, dove non ci sono omicidi, non c’è sangue e soprattutto dove alla fine scoprono “che erano tutti morti e non sapevano di esserlo”. 3 ambientazioni (compreso il bagno del veivolo), una trama che butta a caso dentro un po’ di esoterismo, nessun momento di tensione vera, 30 secondi di violenza a metà film e una sola scena (una sola) di 3 minuti che valga la pena di essere vista -e che probabilmente gli è costata 3/4 del budget-. Se pensate che tale scena sia qualcosa che c’entra con la paura, però, vi sbagliate: è il solito momento spettacolare dell’aereo che precipita. Da cui poi deriva la morte di tutti e il finto bodycount. Sono tutti morti eh, ma la morte se li ghermisce comunque uno alla volta per la seconda volta. Ah ah ah. Che simpatica che è la morte. Quasi quanto gli antichi Egizi.
L’orrore, l’unico orrore, è quello di scoprire arrivati ai titoli di coda che sto pasticcio pseudo amatoriale è firmato da Takashi Shimizu il quale, per far sobbalzare sei attori e una decina di comparse è costretto a usare una CGI oggettivamente imbarazzante per avere due riprese esterne del 7500, sigla dell’aereo su cui volano appunto i protagonisti. Il tutto condito con buchi di sceneggiatura letali come il triangolo delle bermuda e dialoghi indecenti, didascalici e spesso totalmente ridicoli appiccicati su personaggi da commedia dell’arte (la gotica affascinata dalla morte, la precisina fissata con l’igiene, la coppia in crisi e via così). Forse la porcheria peggiore che vedrò nel 2015. E siamo solo a febbraio.
Oh, cari 400, comunque i vostri articoli dovrebbero uscire un po’ prima, ogni mattina faccio tardi al lavoro perché non posso uscire senza leggervi, e voi sempre dopo le 8… e oggi poi c’è Miike! cmq de curse of mi manca.
Io non c ho capito un cazzo, ma tipo neanche il titolo del film o se è una rece di un film.
Troppo avant guarde per me
Caro Miike,
pensavo che la tua recensione di American Scream King fosse il non plus ultra dell’aggressivita’ frustrata che tu potessi raggiungere per sostenere sulle spalle il difficile ruolo che hai su questo sito, ma mi sbagliavo.
Ho sofferto molto a leggere l’articolo. Con la speranza di sentirti prima o poi recensire un film che tu abbia gradito (gradito, non che non ti abbia fatto eccessivamente cagare) e che non abbia piu’ di 10 anni suonati, mi complimento nel frattempo per il tuo durissimo e dolorosissimo lavoro.
Una tale merda che non merita neanche i link IMDB ed il trailer. Bella la prima parte, si vede che sei uno scrittore! (O almeno credo sia tu…)
Complimenti per entrambi le parte di questa bellissima recensione.
Miike T.v.b.
Devo dire che è stata una settimana davvero difficile su iCalci
Grazie a tutti. 7500 è davvero. DAVVERO.- DAVVERO difficile da reggere. Un film così moscio che c’è bisogno di uccidere tutti 2 volte per tenere un po’ il ritmo.
@Steven: IN CHE SENSO?
Ma il film tratto da questa recensione quando esce?
@miike: nel senso “per me lettore”.
Ma immagino anche per voi redazione alle prese con filmetti sciapi
Non so se congratularmi per la recensione o offrirti le condoglianze. Anche perché se da una parte c’è la possibilità che un giorno Miike sbrocchi, uccida qualcuno e scriva sui muri col sangue una roba tipo “eccoti il filtro lomo” o “ABIGAIL BRESLIN TI TROVERÒ”, d’altra parte a volte la curse produce risultati tali che non sento più la mancanza di Dolores
…..
Condoglianze Miike.
E congratulazioni perché insomma, se rimani nonostante QUESTO… Beh, wow.
(Il film non so se è mai uscito in Italia, ma si trova, volendo. Però boh. Io ho spento dopo 10 minuti.)
Prima parte della rece galattica.
Il film invece pare uno schifo, al solito. Non vale il tempo di non dico scrivere, ma manco leggere le ultime 20 righe di recensione.
P.S.: è previsto un film sulla prima parte della rece di questo schifo di film?
7500 fa effettivamente parte della categoria “film brutti!”. L’ho visto per caso e non so neanche io perché sono arrivato fino in fondo. Ci sono state un paio di occasioni in cui volevo mollare ma chi lo stava vedendo con me “a questo punto voglio vedere come finisce sta cagata”. Solo ai titoli di coda mi sono accorto del regista e mi sono detto “Ma perché?”. Frase che ho ripetuto svariate volta durante il film a causa di scene senza nessun senso. “Ma perché?”. Non che il suo film precedente fosse bello ma in questo si tocca decisamente quello che viene chiamato amichevolmente “fondo”.
P.S.: Dopo questo (o prima, o durante) ha girato in patria il live action di Kiki’s Delivery Service.
leggendo il nome del regista avevo pensato fosse quello di midnight meat train, che era proprio un bel filmetto tutto sommato. invece no, same country, different person. a sto punto sto shimzu può andarsene a cagare.
@vespertime ma Shimizu cosa ha fatto di figo a parte Ju-On? Non e’ una domanda retorica, io ho visto solo quello, le sue appendici tra sequel e remake e Marebito (che mi ha fatto abbastanza cacare).
@Confucio Fulci nulla, appunto. A me Marebito era comunque piaciuto. Poi dopo i Ju-On ha fatto quei pasticci in america, come tutti, andando a rifare i suoi film e ok, mi dicevo, aspettiamo qualcosa di nuovo. Poi The Shock Labyrinth: Extreme 3D altra cagata e ora questo ancora peggio. Da uno partito benissimo ti aspetti dei passi falsi e delle riprese ma qui mi pare solo una parabola discendente.
il racconto iniziale è bellissimo. [mi associo a chi reclama un film (secondo me un corto è più efficace)] il resto della recensione un pò meno [ma perchè il film fa cagare se non erro]. mi sfugge la cosa che li collega. sarà un MACCOSA.
Finale d’impatto, non me l’aspettavo.
L’annegamento di Antonio Matteo Peardi, intendo, nel caffè poi, dev’essere stata una fine agitata.
Bel racconto, ma perché lo spiegone prima del finale? Non ce n’era bisogno!
visto un annetto fa. fa schifo. senza se e senza ma.
Entro certi limiti (comopresi quelli della mia memoria) ho trovato 7500 un buon film. Ritmo e tensione ben gestiti, sicuramente non noioso. Però vabbè.
Non so perché, ma all’inizio ero convinto che fosse la recensione di 50 sfumature di grigio.
@ Harrison Frodo
Anche io…e mi ero gasato.
Antonio Matteo Peardi un mito!!!