Torna “Le Basi”, la nostra guida agli autori imprescindibili del cinema da combattimento e torna con l’autore che più di ogni altro ha riportato l’action sofisticato e drammatico della New Hollywood fuori dagli anni settanta. Esteta, esistenzialista, perfezionista, sono alcuni degli aggettivi che definiscono questo autore che tenendosi fuori dalle mode ha ridefinito a modo suo, con meno di venti film, il cinema d’azione e non solo.
Nel 1977 una delle più grandi rock band della loro epoca, i Cheap Trick, pubblicò In Color, un disco che secondo il pubblico e secondo l’etichetta discografica è uno dei più importanti del rock; lo è anche secondo Rolling Stone che lo infila di diritto nel suo elenco dei 500 dischi fondamentali del genere. Secondo la band, però, dato il grande margine di manovra dato al produttore Tom Werman era un disco con bellissimi brani ma troppo leccato, troppo pop, che non rende i brani ruvidi come vennero concepiti. Nel 1998 decisero quindi di registrarlo di nuovo, con Steve Albini al mixer, per vedere di cavarne fuori il disco che avevano in mente a fine anni settanta. Il progetto si perse per strada e nelle nebbie del tempo quando un rough mix di quelle registrazioni emerse galeotto grazie a internet circa una decina di anni dopo. Il risultato, benché grezzo, lascia capire cosa intendevano i Cheap Trick, e l’entusiasmo dei fan per questa possibilità ha riaperto la questione – tuttora in sospeso – della pubblicazione di un In Color finalmente come sarebbe dovuto essere registrato nel 1977.
Questo per dire che a volte un’opera devi ripensarla più volte, rimetterci mano altrettante, possibilmente alle tue condizioni, affinché diventi quello che volevi da tutta la vita. Ed è quello che accadde con Heat per Michael Mann. Facciamo allora un passo indietro rispetto all’ultima parte della nostra rassegna al 1989, tre anni prima de L’ultimo dei Mohicani. Anzi: facciamone uno ulteriormente più indietro, di dieci anni ancora, cioè al 1979.
Mann tra il 1977 e il 1979 lavora a Vigilato Speciale e a La corsa di Jericho e come abbiamo già visto è uno che ama assumere dei consulenti molto speciali per garantire che le storie dei suoi progetti abbiano uno spessore di realismo ulteriore. Come Wambaugh, anche Chuck Adamson, un altro ex poliziotto pieno di know how, viene avvicinato da Mann a fine anni settanta come consulente per Strade Violente e diviene suo collaboratore in vari progetti da lì in poi.
“Non sapevo se arrestarlo, sparargli o invitarlo a prendere un caffè”
Chuck Adamson sul vero Neil McCauley e le basi per la scena più celebre di Heat
Ai primi tempi della loro amicizia, Adamson racconta al regista di un’indagine su un abilissimo rapinatore di nome Neil McCauley, col quale nel 1963 ingaggiò un astuto gioco di gatto col topo, che culminò l’anno successivo con l’uccisione del rapinatore in una sparatoria durante un colpo; questa storia ispira Mann a scrivere nel 1979 la prima bozza di un soggetto che rivisiterà più volte dopo Strade Violente e che poi lascerà riposare fino a quando, terminati Miami Vice e Crime Story, avrà bisogno di un nuovo soggetto per la televisione.
A metà degli anni ottanta Michael Mann si divide tra cinema e TV con risultati alterni: al cinema, dopo il folgorante esordio con Strade Violente, le cose sono andate meno bene, mentre in TV con Miami Vice e Crime Story di cui è showrunner vanno a gonfie vele; ed è su questo solco che decide di proseguire al momento.
Nel mio primo pezzo per questa rassegna accennavo a come nella carriera di Mann TV e cinema si siano mescolati senza particolare priorità né continuità, alternandosi costantemente dai suoi primi passi a oggi. Ed è infatti cercando una nuova idea per una serie TV nel 1989, che Mann rispolvera quel vecchio soggetto cinematografico ispiratogli da Adamson dieci anni prima, soggetto che ad un certo punto cercò anche di affidare senza successo a Walter Hill, finendo a girarlo come episodio pilota per una serie da proporre alla NBC. Il network però non era convinto dal pilota girato, non commissionò gli episodi ma decise di rielaborare il tutto come film per la TV, che uscirà l’anno stesso con il titolo di L.A. Takedown, da noi Sei solo, agente Vincent.
L.A Takedown: prove generali di un capolavoro.
Sei solo, agente Vincent racconta la storia di Adamson vs. McCauley in maniera più asciutta delle intenzioni originali e con decisamente meno mezzi, però ottiene dei discreti riscontri; di sicuro è un prodotto televisivo dell’epoca con tutti i limiti di budget e tecnici del caso ma la mano di Mann, la sua cura e la sua raffigurazione dei personaggi e dell’affresco generale sono comunque evidenti; questi elementi gli conferiscono un fascino e una moderata statura che saltano all’occhio nel panorama televisivo, così come saltano all’occhio le accortezze tecniche dell’autore nelle scene d’azione, su tutte la rapina che porterà i due protagonisti a inseguirsi: una sequenza studiata con dovizia militare e con una brutalità realistica decisamente insolite per la televisione di trent’anni fa.
Il film a livello di cassetta funziona bene, ha varie cose dignitose e altre buone (sempre comparate agli standard televisivi del tempo) ma in fondo non eccelle in nulla. Di routine la fotografia, buona la storia, interessante il tentativo di focalizzare un film d’azione su tanti personaggi, nelle cui motivazioni si cerca di scavare a fondo, molto azzeccata l’idea di ottimizzare il budget usando un cast poco conosciuto rendendo la storia più realistica in assenza di volti molto noti, e infine un taglio estetico decisamente sofisticato e lungimirante per il mercato televisivo degli anni ottanta: come il regista già aveva iniziato a fare con le sue serie TV precedenti, in esso si anticipa l’uso di archi narrativi molto ampi, rompendo parzialmente l’autoconclusività degli episodi con le vite dei personaggi, che si allungano molto più in là delle vicende raccontate in quel momento; se tutta questa carne al fuoco fosse diventata una serie TV ancora oggi staremmo a parlarne probabilmente. L.A. Takedown invece appare in TV e scompare con la stessa velocità, salvo sbucare qui e lì nelle TV private di tutto il mondo negli anni a seguire, per poi svanire dai radar per un po’ di anni fin quando sulla scia di Heat non venne fatto uscire per l’home video.
“La televisione non può renderti il paesaggio di Los Angeles, semplicemente non può: lo schermo è troppo piccolo, troppo stretto, non può darti quell’immersività. Non può darti l’esperienza di trovarti in quel posto”
Micheal Mann in un’intervista del 1997
Quello che però ci interessa di Sei solo, agente Vincent è il bizzarro fatto di essere la bozza di un altro film dello stesso regista, fondamentalmente è la terza scrittura del soggetto abbozzato nel 1979 e riscritto nel 1984 ma fissata stavolta su pellicola con appunti visivi, dialoghi e personaggi che torneranno anni dopo identici ma rivisti, corretti, ampliati e interpretati da star mondiali. Fa un certo effetto vedere L.A. Takedown a posteriori, è praticamente impossibile non vederlo come una prova generale su cui Mann ha abbozzato gran parte dei personaggi e addirittura preparato le inquadrature, alcune delle quali, come interi stralci di dialogo, torneranno praticamente identiche sullo schermo nel 1995, nel film che ad oggi è ancora considerato il capolavoro del regista: Heat: la sfida.
Educazione di una canaglia: la preparazione del film e dei suoi attori
“Non lo chiamerei “stile”, lo stile fine a se stesso ti regala sette minuti di attenzione. Per me è la forma che diventa contenuto. L.A. Takedown era una porzione della sceneggiatura originale, è una prova costume molto superficiale. Venne girato tutto in diciannove giorni mentre per Heat, solo per la rapina iniziale, ne ho impiegati dodici.”
Michael Mann da “Cinema and Television: Interviews, 1980-2012″ Edinburgh University Press
Mann ha insomma un capolavoro in testa da quindici anni, una storia che riunisce tutte le sue istanze, amori e ossessioni ma non riesce a farla uscire come dovrebbe. È troppo costosa, troppo complessa, troppo impegnativa, troppo ambiziosa, a maggior ragione per uno che al cinema ha inanellato di seguito due film poco apprezzati come La Fortezza e Manhunter.
Veniamo quindi al 1993: dopo il successo gigantesco di L’Ultimo dei Mohicani, il nostro torna ad avere un grosso (anzi, finora per lui inedito) potere d’acquisto a Hollywood e capisce che è “ora o mai più” per il suo parto: molla un progetto di biopic su James Dean su cui stava lavorando e decide di giocarsi tutto per fare il film che ha in testa da sempre, con gli attori più grossi possibile, settando tutto al massimo. Nel 1994 Michael Mann va quindi in all-in, Heat entra in produzione e nel 1995 il film esce in sala. Oggi nessuno oserebbe dare ad un regista pieni poteri e un budget altissimo per girare quello che sulla carta è fondamentalmente un remake di un suo precedente, dignitoso ma modesto, film TV; eppure nel 1994 c’era ancora un briciolo di speranza degli autori verso gli studios e degli studios verso il pubblico.
“È tutto basato sull’osservazione; è basato sulle persone che ho incontrato, sui tizi che ho conosciuto, gente con cui mi sono seduto e chiacchierato: ladri, sbirri, assassini, criminali. Non è basato su altro cinema, è basato sulla mia ricerca”
Micheal Mann sul suo metodo da “The Cinema of Michael Mann: Vice and Vindication” di Jonathan Rayner, Wallflower Press 2013
Come sempre Mann inizia dalla attenta preparazione, che per lui è già normalmente un processo maniacale e lungo, ma che con Heat raggiunge il suo apice muscolare, un po’ come per tutti gli aspetti del film.
Mentre sguinzaglia la location manager di L’ultimo dei Mohicani, Janice Polley, a cercare dei luoghi di Los Angeles fuori dai landmark turistici e che rendano bene la fredda e affilata città che ha in mente, conosce criminali; soprattutto gira in pattuglia con l’agente Tom Elfmont il quale ad un certo punto gli affida in scioltezza una pistola, data l’initimità e la pericolosità delle situazioni in cui si ritrovano ormai sempre più come partner veri e propri.
“Diceva alla troupe “Spingetevi più in là possibile, parlate con le persone più estreme che riuscite ad avvicinare e raccogliete più informazioni possibili da loro”.
Ami Canaan Mann sulle consulenze criminali per Heat, da “De Niro: A Life” di Shawn Levy, Crown Publishing 2014
Richiama quindi il vecchio amico, scrittore ed ex criminale, Edward Bunker che conobbe ai tempi di Vigilato Speciale, già suo consulente per La Corsa di Jericho, e obbligherà tutto il cast a leggere il suo Come una Bestia Feroce per cominciare ad entrare nella testa di un criminale. Come se non bastasse Nate, il personaggio di Jon Voight in Heat, viene modellato su Bunker stesso.
L’ex SAS Andy McNab venne assoldato per allenare il cast all’uso delle armi per alcune settimane, Tom Sizemore venne mandato a parlare con rapinatori di banche detenuti e Ashley Judd con le loro mogli. Come compito in classe gli attori, travestiti di tutto punto, vennero mandati a fare sopralluoghi in una banca senza farsi scoprire, prendendo appunti e segnando orari come se dovessero realmente progettare una rapina lì. Siamo all’apice del mannismo: la preparazione di Heat durò sei mesi, le riprese quasi cinque.
È facile capire che uno dei fattori cruciali nel successo, certamente di pubblico ma principalmente come opera, di Heat risieda in questo approccio tra il realistico e il giornalistico ad un tema troppo facilmente liquidabile come “di genere”.
“Heat per me non è tanto un film di genere, è un dramma umano”
Michael Mann da “Cinema and Television: Interviews, 1980-2012″ Edinburgh University Press
Heat: di come il crime movie cambiò per sempre.
Un selling point pazzesco all’epoca fu chiaramente quello di essere “il primo film con De Niro e Pacino che recitano assieme” e con questa premessa lo avrebbero visto anche i sassi; ma per Mann, nonostante quella dei nomi sul cartellone fosse indubbiamente una buona carta da giocare, i due sono principalmente i migliori attori americani della loro generazione al culmine delle loro carriere, e così li usa: come dei grandi attori, senza approfittare meramente del nome e tirando fuori a ognuno il meglio del caso.
La trama di Heat è minima: una squadra di ladri capitanata da uno scrupoloso e intelligentissimo ladro di nome Neil McCauley ingaggia una lotta senza quartiere con il dipartimento di polizia di Los Angeles guidato dal tenente Vincent Hanna. E basta, circa. Sì ci sta una terza parte in gioco, un criminale che rivuole delle azioni rubate all’insaputa della banda durante la rapina e le fazioni in gioco divnteranno tre, ma non è cruciale. Perché non è la trama a fare Heat, è il grande affresco di personaggi e vicende che la popolano, così tanti e così dettagliati che è impossibile definirli di contorno o secondari, perché sono loro la vera anima del film; è questo spostamento dalla vicenda in quanto tale, dalla sua azione, ai suoi molti protagonisti che sposta piano piano ma radicalmente l’etichetta, come dice Mann, da “genere” a “dramma umano”.
Tutti i personaggi hanno una loro storia, un approfondimento, uno stile, un codice, ogni azione di ciascuno ha delle ripercussioni sulla vicenda generale ed è tanto avvincente vederli giocare il proprio ruolo “nel genere” e “di genere” quanto vedere cosa c’è fuori: chi sono dopo la sparatoria, chi c’è dietro l’assassino, cosa succede a casa del rapinatore e del poliziotto, chi sono le loro mogli. Tutti gli archetipi del genere sono presenti, sia da parte dei poliziotti che da parte dei criminali, ma sebbene non snaturati vengono rivisitati: nelle tre ore che il regista si prende, il crime cinema entra in una nuova fase, una nuova era. E’ lì che emergono i tratti del tipico eroe Manniano, il “professionista esistenzialista/Sisifo camusiano” che abbiamo già descritto per La corsa di Jericho, ma viene anche mostrata la solitudine di queste figure e più in generale la disfatta della struttura sociale, puramente maschile, a cui appartengono e con la quale affondano assieme, distruggendosi per perseguire i loro obiettivi.
Il Neil McCauley di De Niro recita praticamente solo con gli occhi e pochi gesti ponderati, anche quando perde le staffe: è l’insieme delle parti migliori del suo Jimmy Conway (altro rapinatore irlandese) di Goodfellas, rifinite aggiungendoci una enorme malinconia e un senso di solitudine che rivaleggiano con quelle del Jef Costello di Le Samourai. A fargli da contraltare è un esagitato, nervoso, a volte arrogante ma umanissimo tenente Vincent Hanna, interpretato da Al Pacino in una caratterizzazione talmente azzeccata che contraddistinguerà, riproponendola con le variazioni del caso, la parte successiva della sua carriera, quella di City Hall, Ogni Maledetta Domenica, Rischio a Due e 88 Minuti.
Balza immediatamente all’occhio come, anche grazie alle interpretazioni dei protagonisti, al di là della natura di fondo delle due realtà non esiste una reale differenza tra “i criminali” e “le forze dell’ordine”; il discorso del professionista già affrontato in Strade Violente qui arriva ad un livello superiore tale che ad un certo punto è irrilevante chi è cosa: conta solo chi fa cosa e quando la fa. Ognuno degli attori è calato nel personaggio con estremo realismo, con devozione e grande sobrietà, senza gigioneggiare, ed è con questa ponderatezza che Mann gioca anche i momenti d’azione, accontentando l’appassionato del genere, senza assecondarlo fino in fondo eppure senza deluderlo. La rapina magistrale, la rapina che ha riscritto il cinema di rapina ed è entrata nell’immaginario collettivo al punto da fungere da ispirazione non solo per tantissimi film ma anche per una delle più grandi rapine/sparatorie della storia recente americana, insomma LA RAPINA è giocata non come culmine ma quasi come interludio nella prima parte del film; con un materiale su cui chiunque avrebbe basato l’apice del film (e la sparatoria in strada sarabbe stata il gran finale per chiunque), Mann decide di farla avvenire un po’ prima della fine, perché il climax di Heat non è nell’azione ma nei personaggi, e ognuno di essi a quel punto ha delle cose più importanti della rapina con cui chiudere i conti; perché Heat non punta ad essere semplicemente un bel film, un colpo facile con un grande cast, punta invece a stabilire un nuovo punto fermo per il cinema sul crimine, è una prova d’autore vera e propria. Prende la crime story hard boiled e la infonde tanto di situazioni e figure tipiche del genere quanto di storie parallele, momenti intimistici, digressioni personali prettamente da film drammatico; Mann vede e rilancia il polar e il noir francesi (il già citato Melville di Le Samourai ma soprattutto di Tutte le Ore Feriscono, l’Ultima Uccide), li mischia con il crime thriller più muscolare, con il poliziesco procedurale americano e rifinisce tutto con il suo tocco personale, con quel suo esistenzialismo irredimibile, la sua maniacale coerenza stilistica, con l’amore per il fotogramma e crea il poliziesco definitivo per gli anni venturi.
Bright lights, big city: l’estetica di Heat, della città, del morirci o fuggire da essa.
La città è una delle figure a cui Mann tiene, più di alcuni protagonisti la fa recitare e tanto quanto loro la prefigura nei dettagli, la abbiglia, per veicolare un messaggio preciso per chi volesse guardare da vicino. Come la Chicago-labirinto al neon di Strade Violente, come la Los Angeles notturna e desolata del venturo Collateral, così la Los Angeles di Heat è pervasiva e comunicativa. Una cosa che mi ha sempre impressionato è come Mann reinventi, non senza alcuni illustri esempi precedenti in altri film, la Los Angeles del noir classico rendendola nella testa dello spettatore con una tale precisione che in pochi minuti è già familiare.
Un centro gentrificato e impersonale dominato da banche e diner su cui svettano grattacieli di vetro a specchio e tetti da dove tutti possono dominare la città senza essere visti come in un enorme peep show contrasta con una periferia che via via diventa un motivo ripetitivo e anonimo di magazzini, casette color pastello, alley con i bidoni della spazzatura, uno sprawl abbandonato a se stesso. Di notte diventa la desolata distesa di luci e neon che Mann ama fotografare ma se hai abbastanza soldi, a differenza del Frank di Strade Violente, puoi vederla dall’alto, dalle hills dove vivono i ricchi, come un oceano minaccioso da cui puoi tirarti fuori; e se riesci a farne veramente tanti, di soldi, puoi anche sognare di andartene per sempre, davanti all’oceano vero o magari in Nuova Zelanda.
Dietro questa visione c’è a monte una scrupolosa ricerca delle location ma principalmente la sinergia tra la visione di Mann e la fotografia di Dante Spinotti.
“Il colore è cruciale per creare la sensazione, l’atmosfera. In Miami Vice tutto era pastello per rendere l’idea di calore, quando le cose sbiadiscono per il calore. Non sceglievamo i colori pastello perché erano belli da vedere, i pastello sono vibranti, con il bianco bruciano un po’. Lo ho scoperto studiando un pittore del 1800 quando studiavo cinema a Londra, sono cose che ti tieni in testa fin quando non hai una buona occasione per utilizzarle”
Michael Mann da “Cinema and Television: Interviews, 1980-2012″ Edinburgh University Press
La poetica di Mann è un equilibrio tra genere e autorialità, tra azione e riflessione e soprattutto -per me- tra realismo e astrazione: tutto nel suo cinema è tremendamente ricercato e scrupolosamente messo in scena eppure mantiene una dimensione astratta che a tratti prende il sopravvento e diventa quasi onirica, e a volte anche sfacciatamente romantica e sopra le righe. Nel cinema di Mann c’è tanta roba diversa, c’è roba popolare e roba colta da ogni ambito: dal cinema, certo, ma anche dalla letteratura e pure da tanta pittura, di cui è grande appassionato.
È abbastanza evidente quanto certa pittura americana del novecento sia cara a Mann, le decadenti ville di David Hockney, le città crepuscolari popolate da individui solitari di Edward Hopper, o l’iper-realistica e straniante città di Richard Estes, insomma quella pittura moderna che analizza l’uomo nuovo nel suo agognato habitat borghese/post-industriale e la contemporanea desolazione che lo abita; tutti autori accomunati da una ricerca della luce, del nitore, del racconto volto a comunicare uno stato d’animo dietro l’immagine. Il feedback di Mann con la pittura è talmente forte e in Heat talmente preponderante che una delle scene più famose del film è tratta proprio da un quadro: “Pacific” di Alex Colville, del 1967.
C’è una storia di urgenza, di tensione, di “quiete prima della tempesta” nel quadro di Colville che diventa lampante in Heat, come se la storia da raccontare fosse sottintesa, necessitando solo di qualcuno che la raccontasse. Spinotti segue Mann alla perfezione, nei campi lunghi dominati da linee orizzontali e fughe prospettiche infinite, nelle riprese nitide all’alba e al tramonto che quasi hanno la stessa luce, nelle panoramiche prospettiche dei palazzi che ricordano la la periferia post-industriale metafisica nei quadri e nelle foto di Ed Ruscha, col mare all’alba o di notte che è solo una riga che separa due gradienti di azzurro. E tutto ciò senza dare mai allo spettatore l’impressione di stare a vedere una sega egotica, ma anzi convogliando la sensazione del film di intrattenimento – e qui torniamo da dove siamo partiti, da quell’intuizione che Mann ebbe guardando Kubrick al cinema a vent’anni, cioè che si può fare grande cinema di intrattenimento rimanendo grandi Autori.
Heat venne accolto abbastanza bene dalla critica ma non acclamato come capolavoro: era un buon film, sì, ma non gli vennero riconosciute qualità eccezionali; si parlò molto dell’evento Pacino/DeNiro, delle loro prove d’attore, si lodava ovviamente la resa visiva ma il film non fece epoca e non venne nominato neppure ad un Oscar. Delle varie recensioni del tempo credo sia interessante quella di Stephen Hunter, critico del Washington Post e premio Pulitzer per la critica nel 2003, autore di romanzi thriller tra i quali il libro adattato da Fuqua in Shooter nel 2007. Dice:
“Questo è cinema viscerale, non intellettuale, ma è al suo apice di espressività tecnica. Mann è un grande stilista, con idee semplici ma potenti. Può far sembrare una città – anche lo sciatto e banale ammasso che è Los Angeles – una scultura di Picasso dopo un weekend di bevute di assenzio della migliore qualità. I suoi colori balzano fuori come proiettili traccianti e riesce a cucire le immagini in sequenze d’azione d’impatto che ti riducono in poltiglia.
Allo stesso tempo però il nostro è un idiota: ama e sovradimensiona il senso di cameratismo che lui immagina intercorrere tra i migliori poliziotti e i migliori rapinatori e basa il suo lungo e violento film di rapine sulla presunzione di mutuo rispetto e persino affezione tra questi diventando eccessivamente sentimentale. Una buona idea ma, nonostante i vetri in frantumi e i caricatori consumati, convincente quanto una cura per il cancro a base di Oreo.”
Stephen Hunter dalla sua recensione di Heat apparsa sul Baltimore Sun nel 1995.
Trovo interessante questo stralcio perché è rappresentativo di come Heat fu accolto, di come la sua parte colta sia giocata con sobrietà tale da farlo passare per un film d’azione canonico, di come la lunghezza non comune per un film poliziesco e i registri molto atipici spiazzarono anche chi lo aveva gradito, e di come spiazzò anche la già citata alternanza tra il romanticismo ingenuo di alcuni aspetti con l’ estrema veridicità di altri elementi, di come risultò ostica la cifra tra realistico e astratto, cosa che per me è una forza di Mann (quando riesce a bilanciare le cose) ma che non trovò il pubblico preparato. Heat è un film la cui importanza e reputazione, come per altri film del regista, sono cresciute nel tempo; il suo status di capolavoro, nel genere e fuori, è stato in divenire un po’ come la sua gestazione dalla fine degli anni settanta fino alla sua uscita. La prova di come sia stato rivalutato è che l’anno scorso il ventennale del film è stato celebrato da tutti i maggiori siti di cinema e non: da Variety ad Esquire, passando per Rolling Stone e mille altri.
Dopo Heat: la sfida.
Quando il film uscì lo andai a vedere due volte di fila, e mi fu chiaro da subito che il banco era saltato e le regole erano cambiate: il noir, che già era neo-noir da un po’, era entrato in una ulteriore nuova fase di “neo”, un’era in cui per me c’è un pre-Heat e un post-Heat, un’era in cui il poliziesco sa essere sofisticato e mostrare i muscoli allo stesso tempo.
La maturità del trattamento dei personaggi, l’accuratezza delle dinamiche, la perizia tecnica, la perfezione dell’estetica, la solidità delle interpetazioni settavano palesemente un nuovo standard per il genere, pur rimanendo fuori dal genere in senso stretto.
Heat ridefinisce il noir losangelino come Chinatown, La Fiamma del Peccato, Il Grande Sonno o Il Lungo Addio fecero per le generazioni precedenti, o come Ellroy e Wambaugh fecero nei libri dopo Chandler e Hammett. Dante Spinotti continuerà a lavorare con Mann e nel 1997 verrà chiamato a fotografare, reinventandola, la Los Angeles del noir classico nel bellissimo L.A. Confidential.
Le componenti tecniche di Heat diventeranno uno standard per l’action moderno da subito; Mann si piazza di diritto assieme a Peckinpah, Hawks, Ford e Scorsese tra i cantori dell’epica virile al cinema. A lui guarderà tre anni dopo persino il decano Frankenheimer nel dirigere il suo Ronin sempre con De Niro. L’eco di Heat arriva fino ad oggi, fino alla saga di Bourne, a Dark Knight Returns, Killer Elite o Sicario, la sua influenza è palpabile in serie TV come True Detective e Bosch e rimane un colosso imbattuto da tutti, anche dallo stesso regista che pur con episodi eccellenti non si ripeterà più a questi livelli.
Ancora oggi, per chiunque si cimenti in un poliziesco, un noir o in un film d’azione, Heat sta lì a ricordare come si reinventa la ruota e di come il cinema “di genere” possa diventare rispettabile anche per il più stronzo dei palati snob.
DVD-Quote:
“Il più importante film noir della sua generazione. Con tanto di Henry Rollins.”
Darth Von Trier, i400calci.com
Clap Clap Clap Clap Clap Clap…ad libitum!
Sono in piedi in ufficio ad applaudirti Darth!
Grazie Mann per questo capolavoro di film e grazie a te Darth per questo capolavoro di recensione!
pezzo incredibile, complimenti! non volevo finire di leggere
quando uscì ricordo diverse discussioni con parenti e amici, tutti a dire sì, sì, bello, ma solo per De Niro e Pacino… no, cazzo, ma vi rendete conto cosa ha fatto sto tipo? (Mann)
Mi ricordo alle superiori quando il film fu passato in tv, qualcuno che l’aveva visto a dire che era un bel film con Al Pacino (osannato per il sopravvalutato Scarface) e De Niro, penso che in classe solo io che era un cinefilo avevo capito la grandezza della regia, della mano che stava dietro, del resto la maggior parte del pubblico si ferma agli attori, al limite ti possono conoscere un Tarantino e questo dimostra come sia un sopravvalutato spinto dalla pubblicità, perché solo gli appassionati o cinefili possono cogliere la regista, la fotografia, ma anche la trama e altre chicche, un po’ come guardare un quadro di un maestro rinascimentale, i profani capiscono la grandezza ma non riescono a coglierla e solo il critico d’arte ti spiega che cosa c’è di profondo e grande, un po’ come quando guardi un quadro di Caravaggio e non capisci che quello che lo fa grande è l’uso della luce.
Concordo sulla reale figura e funzione del critico. Da noi nella top-ten degli incassi annuale! Grande il pubblico italiano! XD Anche se non poco lo fece la coppia Pacino – De Niro.
Bravissimo Darth, si vede che ci tieni a questo film in particolare!
Non mi sono mai soffermato su Sei solo Agente Vincent, anche perchè le critiche che lessi erano sempre del tipo “come Heat ma più brutto” e credo di aver sbagliato perchè forse avrei colto ancora di più il valore di quest’Opera con la O maiuscola.
Mi basta dire che è l’unico film di circa 3 ore che mi guardo tipo una volta all’anno senza sbadigliare e senza interruzioni. De Niro e Pacino, all’epoca all’altezza dei loro nomi, erano spettacolo puro, ma pure il resto del cast ne usciva alla grandissima (ciao Val Kilmer).
Non aggiungo altro sulle rapine, sulle preparazioni, sulle reazioni rabbiose di tutti i personaggi, sulle immagini, sul confronto finale per me tra i più emozionanti. Quando tutto funziona così bene si arriva al capolavoro, punto e basta.
Flashback..estate ’98,servizio civile agli sgoccioli(una delle piu’ belle esperienze della mia vita).Una sera,in libera uscita,vado al baretto del paesello dove il proprietario ha installato il maxischermo con dolby sourround per i mondiali.Niente partita,quella sera:quindi,mette THE HEAT.
Arriva LA RAPINA.ED’E’ UNA ROBA PAZZESCA.Sembrava di stare in guerra.Io e la mia birra,al tavolino,con i proiettili che ti fischiavano intorno.LA FINE DEL MONDO.
Ho sempre trovato incredibile come di un capolavoro del genere le critiche ridimensionassero tanto il conflitto umano interiore, quello dell’uomo con le proprie scelte. La stessa scena chiave del caffè contiene il nucleo definitivo del dramma dei personaggi, quello che poi avrà la resa dei conti alla fine: quello che definisce un uomo è cosa fai nel momento decisivo, la scelta che prendi quando si accende “il calore” appunto. Due personaggi monumentali e ormai classici.
Il pezzo che aspettavo di più di questa rassegna, insieme a Collateral.
Film incredibile, che trovai perfino impegnativo da guardare la prima volta per la sua densità. Attori in stato di grazia e scena del caffè leggendaria.
E poi è uno di quei film che come giustamente dici, Darth, più hanno contribuito a creare una Los Angeles dell’immaginario. È molto tempo che non lo rivedo ma ne ricordo la gran parte (Natalie Portman adolescente e la moglie di Pacino, per quanto secondarie, mi sono rimaste in testa anche loro). Il miglior Val Kilmer fino a Kiss Kiss Bang Bang.
Non ricordo nulla della musica, è strano. Tante immagini e dialoghi ma è come se non avesse l’OST.
a me si è tatuato in testa il pezzo della rapina in banca. dopo diverse visioni non vedevo l’ora che arrivasse la rapina anche per riascoltare quel pezzo
Ah! Invece per me, Heat sarà sempre legato a questa:
https://www.youtube.com/watch?v=zH58xearYzw
(prima, manco sapevo chi era Moby… non crocifiggetemi! xD!)
Mai sentita una band chiamata Joy Division?
Sì… ma solo dopo aver saputo chi era Moby… XD! (‘gnuranZa portami via!)
Leggo solo ora questa recensione. Ci sono arrivato dopo aver rivisto “Heat” stasera. Cercavo di capire perché non avesse ottenuto almeno un Oscar. Stupefacente lettura della pellicola, per riferimenti, cultura cinematografica, profondità di analisi di ogni singolo aspetto. Una vivisezione maniacale di ogni singolo fotogramma, resa con uno stile narrativo avvolgente. Un’intrigante documentazione su ciò che cova dietro la macchina da presa, sulle intenzioni e la tecnica di Mann. Bella, bellissima recensione. Quasi al pari del film.
Lo vidi in VHS quando uscì in edicola. Visto una volta con mio padre in un tv color 4:3. Per carità era un bel film però boh. Tutto questo entusiasmo verso sto film non me lo spiegavo. Da allora quello che mi era rimasto in testa era il dialogo fra Pacino e De Niro nella tavola calda e il litigio fra Pacino e la moglie (wouldbang) dopo che lei lo ha tradito. Tutto il resto perso nella memoria.
Poi con tecnologie moderne (HD + home theatre) ho potuto rivederlo qualche giorno fa. Non nascondo che l’ho voluto rivedere proprio perché sapevo che era un film centrale di Mann. Forse la pietra d’angolo di tutto il suo cinema di cui qui si sarebbe parlato con una certa proprietà di linguaggio. Non sospettavo certo una rece pazzesca come questa, ma qualcosa di simile si.
E niente, rivederlo è stato stupendo. L’andamento del ritmo è perfetto fatto ci continue e accelerazioni e di momenti di quiete che comunque sono non solo sono tesissimi, ma il preludio per l’azione successiva. Le immagini di Mann sono sempre state straordinarie, qui si raggiunge un livello che (almeno in quello che ho visto io) rasenta la perfezione. Siamo davanti a qualcuno con una fortissima idea di che cosa vuole vedere che però mette al servizio della storia.
Spessissimo, anche qui, mi sono lamentato del fatto che non basta avere una forte concezione visuale per fare un bel film. Non è solo un problema di narrazione, di trama. E’ che se hai povertà nei personaggi e nella storia delle immagini ricche e studiate risulteranno stridere come un vestito d’alta moda su una vecchia puttana di paese. Bello eh, ma sprecato e alla fin fine inutile.
Mann invece è capace di prendere ciascuna immagine, che di per se è studiata e completa come una fotografia, e inserirla a perfezione nel flusso della storia. L’una è al servizio dell’altro e viceversa si fondono in un unicum che, appunto, si chiama cinema.
Ripensandoci non mi sorprende che vedendo il film in VHS e in 4:3 quelle che quelle rimaste nella memoria fossero scene tutto sommato di dialogo. Tesissime, ma comunque di dialogo.
E poi gli attori. Certo, ci sono De Niro e Pacino. Ma a chiunque mi dica che bastano loro due a fare un gran film rispondo “Suca, guardati Sfida senza regole e poi dimmi che è un bel film”. Sono perfetti ma bilanciatissimi, non solo fra di loro ma anche quando sono in scena con altri attori inferiori per carisma o talento. Non si mangiano il film, lo aiutano a sollevarsi ancora rispetto a tutti gli altri. Per me vederlo nel 2016 è stato come scoprire un tesoro perso nel tempo. Il valore emerge nettissimo, sicuramente uno dei film più importanti degli anni ’90. Probabilmente uno dei più importanti di sempre.
Fa specie che sia stato snobbato da tutti. Ma probabilmente è quello che succede quando arrivi per primo in posti che la gente manco sa che esistono.
P.S. Gran bel pezzo quello di Darth. Non è affatto semplice rendere l’importanza fondamentale di un film argomentandola con tale precisione senza risultare pedante. Il servizio migliore che si potesse fare a un simile capolavoro.
Pezzo da seghe a tre mani questa mattina ; )
Mi metto nella fascia dei grezzi che non hanno capito subito la grandezza di Heat all’inizio (mi avevano colpito molto di più Manhunter e tutto il lavoro su Miami Vice). Forse è stato proprio partendo da Ronin e andando in ritroso che ho ricostruito la grandezza del film di Mann.
L’unica cosa davvero fastidiosa di queste basi è che mi ha messo una fotta pazzesca di leggere “Cinema and Television Interviews”, che non è facilissimo reperire a prezzi umani…
Film monumentale. Persino troppo denso, e nonostante le tre ore resto sempre con l’impressione che un’altra mezz’ora gli avrebbe giovato.
Innanzitutto complimenti per il pezzo stratosferico che hai scritto…
Io all’epoca (forse strafatto di film di tarantino e attratto solo dalle presenza di de Niro e Pacino) non l’avevo capito e mi era risultato noioso.. Anni dopo lo riguardai e scoprii un capolavoro che ancora oggi riguardo regolarmente
Heat è un capolavoro, senza se e senza ma. Scorre così bene che fai fatica a credere che dura 3 ore. E grandissima anche la recensione di Darth che possiede, oltre a una grande sensibilità cinematografica, anche una cultura vastissima (letteratura, pittura…). Grazie Darth e grazie (ancora una volta) a Mann!
Madonna questo film.
Io l’ho visto molto, molto tardi, avevo già passato la seconda metà dei venti e fu una folgorazione: niente, davvero niente, poteva essere paragonato a tutti i film dello stesso genere che avevo visto fino ad allora, Mann con Collateral incluso.
Questo film è potenza allo stato puro. Ti prende dalle spalle e ti spinge fortissimo per più di venti minuti, poi rallenta, ma solo per darti modo di riprendere fiato e riprendere a spingere. Mozza il fiato ad ogni scena, ti lascia qualcosa dentro, anche a distanza di tempo; qualcosa di profondo, di viscerale, di oscuro e brutale.
Davvero, che fottuto capolavoro.
Ho letto solo fino a metà perchè, non so come, non l’avevo mai visto e adesso me lo recupero.
Cioè… Heat lo potrei rivedere in loop, ancora e ancora…
Per me è il NUMERO UNO da sempre, uno di quei pochi film dove (almeno per me ) il doppiaggio italiano ha addirittura migliorato qualcosa che sembrava impossibile migliorare…
Grazie, grazie, grazie!!!
“uno di quei film dove il doppiaggio italiano ha addirittura migliorato qualcosa che sembrava impossibile migliorare…” Quoto e stra quoto con il sangue
vaccaboia, i i Cheap Trick??? Ma che cavolo? https://www.youtube.com/watch?v=hIw7oeZKpZc e che Cisneros vi abbia in gloria.
come sempre hai spaccato tutto Darth, e a me Heat manco piace! Sono uno di quelli che lo ha sempre trovato si` un buon film, ma un po’ piatto e incolore (e aggiungiamoci pure qualche sbadiglio a livello di trama).
Cmq oggi se lo ribecco in streaming mi sa che parte la seconda visione, cosi` magari vedo che mi succede con 20 anni di saggezza in piu` sul groppone
Ricordo che nel 95, quando uscì, andai con gli amici in bicicletta (avevo 15 anni) al cinema del paese più vicino. Sbam, folgorato. Da allora MM per me di diritto nell’Olimpo degli Autori. Credo di averlo rivisto molte meno volte di quanto meriti, forse anche un po’ per colpa dell’ impresentabile versione home video di Cecchi Gori….
Peraltro uno scandalo che non sia ancora uscita una versione italiana in bluraggio
In loop da sempre la celebre: “Perché ha un cuuulo da schianto”
https://www.youtube.com/watch?v=Z9w4UjJvLsA
Bellissimo tutto e nulla da dire, ma l’ho visto al cinema un paio di settimane fa e in ogni scena in cui Pacino va over the top il pubblico moriva dal ridere.L’applauso alla fine e scattato comunque.
Il le basi definitivo.
“E tutto ciò senza dare mai allo spettatore l’impressione di stare a vedere una sega egotica,”
Concordo con AnnaM. La rubrica Le Basi ha sempre regalato grosse soddisfazioni ma su MM state dando il meglio.
Heat è uno dei film che recuperai all inizio della mia formazione cinematografica e confesso non lo apprezzai a dovere. Non dico che non mi piacque ma certo non avevo inquadrato la portata di tale capolavoro. Lo riscoprii proprio dopo aver beccato per caso LA Takedown in una tv privata a notte fonda. L.A. certo è un prodotto infinitamente più modesto di Heat ma anche di qualsiasi altro film di Mann, per tutti i motivi elencati ma mi stupì perché proprio in una confezione così povera traspariva una regia che andava ben oltre il televisivo e una attenzione all azione e al lato melò sbalorditiva. Da qui ho riscoperto Heat dopodiché ho recuperato tutto Mann che è in vetta tra i miei registi favoriti in assoluto.
Recensione all altezza di tale capolavoro, nulla da dire.
Accidenti che storia appassionante. Il momento più cool è stato quando ho letto “una attenzione all azione e al lato melò sbalorditiva”. Davvero sbalorditivo, specie se poi ci spiegherai cosa volevi dire. Anche se è stato l’inizio a folgorarmi: “Heat è uno dei film che recuperai all inizio della mia formazione cinematografica”. A parte la strage di apostrofi, ben tre(3) (a conferma della dura vita nel monastero, non ai fini dello studio sui sacri testi ma della sacra raccolta di saponette) è sbalorditivo sentir raccontare la formazione cinematografica di Axelina la pazza. Una formazione che, per usare le parole usate a suo tempo dal buon Darth proprio per Mann, definirei importante e impressionante. Non pensavo che al monastero facessero il cineforum.
Oh mio povero piccolo merdaiolo vieni qui. Fatti accarezzare il tuo grosso muso ritardato rigato dalle lacrime, forza. Mi spiace che l’aver rivelato la tua genesi incestuosa ti abbia portato a questo atteggiamento. Devo aver fatto tanta bibi al tuo piccolo cuoricino ritardato, povero piccolo.
eh la Madonna Chanturia che recensione! Sembra una di quelle scritte da più autori
Segnale che un Netflix che vale sempre di più la spesa lo ha a catalogo.
Mi correggo:Heat(senza The).Mannagg..comunque ribadisco:film monumentale,senza se e senza ma.
Madre diddio che pezzo Darth, vieni qui che ti faccio una sega! Film imprescindibile, davvero un capolavoro, mi avete -come sempre- messo una voglia assurda di riverderlo, cosa che farò prontamente nel werk end. Leggo che molti non lo apprezzarono al momento dell’uscita, come diavolo è possibile?
Noto con piacere che non esiste il bluray italiano, difatti ho solo quelle merde di dvd della cecchi gori
film nella TOP 3 di sempre.
cosette sparse:
– Il pezzo dei joy division rifatto da Moby è una delle cover più belle di sempre.
– L’amore sincero tra Val kilmer e la moglie, nonostante i loro modi di essere, modello dei miei rapporti sentimentali.
– l’intercambiabilità tra poliziotto e criminale incredibile
– Voight criminale tranquillo maestro di vita
– la città rappresentata è quella dove vorrei vivere
– l’appartamento strepitoso ma vuoto di Neil, l’uomo che può permettersi tutto ma ancora non è appagato perché deve compiere ancora una rapina
“Cose che non capisco” 0 Oscar per Heat, per certo la più grande svista nella storia dell”Academy.
L’idea di immaginarmi Mann, Robert De Niro, Val Kilmer, e Tom Sizemore con armi scariche in una banca a prendere appunti e segnare orari per una rapina che non faranno mai, mi fa venire i brividi.
Provo un misto di ammirazione ed esaltazione, è il mio anedotto preferito da quando esistono aneddoti sui film.
Viva il Mannismo.
Di recente ho vistoparlare Sollima e quando l’itervistatore gli ha chiesto (giuro) da quale film di Tarantino si fosse ispirato di piu’ per girare Gomorra ho notato con piacere il fastidio sulla faccia del regista italiano che subito detto di non essersi mai ispirato a tarantino liquidando la faccenda per parlare di western e del cinema di Mann.Quando ha parlato di Heat e all’improvviso mi sono sentito solo, mi è parso di essere l’unico in sala a conoscenza anche di qualcosa di banale come Miami Vice.
Non ho capito come mai ci fosse cosi tanta gente che alla parola Tarantino ha fatto andare la testa-a-molla in segno di approvazione e alla parola Mann non ha avuto nessuna reazione.
Ma insomma cosa cazzo ci facevano li!
Con questo non voglio aprire pseudo parallelismi Mann-Sollima, ma fa piacere sapere che chi sta riportando il cinema di menare in Italia lo fa guardando nella direzione giusta.
Interessante il tuo aneddoto. Forse perché in generale il cinema di Trantino è esagerato, quello di Mann no. Boh!
“Sì, sì, Darth, tu mi piaci, vieni a casa che ti faccio scopare mia sorella”
(semicit.)
Grande recensione. Ho rivisto il film ieri sera in versione originale, e devo dire che va giù come l’acqua ed è un piacere per gli occhi e la mente.
Ora aspetto con ansia il LeBasi per Collateral *_*
Eppure, mai visto un De Niro così… charmant, così elegante (in tutto, anche nel portamento, anche quando scappa col fucile in mano dopo la rapina, per dire), così… TOP come in Heat!
E poi, qui pronuncia una frase che per certo frangenti sento molto mia:
“Il vecchio Jimmy McCann mi ricordo che diceva: se vuoi fare il lavoro del rapinatore non devi avere affetti o fare entrare nella tua vita niente da cui non possa sganciarti in 30 secondi netti se senti puzza di sbirri dietro l’angolo”…
Effettivamente il buon vecchio Bob mai cool come quì! XD
Recensione bella e giusta per un film immenso. Visto non so quante volte… uno di quelli che, quando prendevo gia’ iniziato in TV, guardavo sempre e comunque fino alla conclusione.
Mi viene in mente un paragone con Fury Road: due film apparentemente semplici e lineari, tutti giocati sui rapporti tra i personaggi e nel sottotesto.
Capolavoro di Mann e della cinematografia tutta.
Film preferito di Sempre
lo vidi al Cinema con mio padre, penso sia l’ultima volta che siamo andati al cinema insieme, e la rapina mi si stampò in fronte come una elle cose più grosse mai viste su uno schermo. E lì è rimasta da 20 anni.
Pezzo della madonna: dovrebbero darvi una cattedra, dovrebbero.
Scusate. Scusate se mi intrometto, ma volevo somministrarvi una dose di saudade.
Nel 1994 esce Pulp Fiction. Prima botta. Poi, nel 1995, in rapida successione: Heat, Seven, Casino e I soliti sospetti! Una raffica di capolavori tuttora inarrivati. Che anno ragazzi! Visti tutti al cinema in prima visione, ogni volta mi alzavo dalla poltrona barcollando.
Poi, già che ci sono, spenderei due parole sul film.
Ciò che lo rende grande, secondo me, e l’articolo tocca questo aspetto, è il fatalismo dei personaggi. Nel dopo rapina (che effettivamente è la chiave del film), diventa evidente che nessuna delle persone coinvolte nei fatti aveva e, di più ora, ha la minima voglia di fare le cose che fa, di avere la vita che ha. Procedono tutti sulla loro strada, agendo come è stato insegnato loro e come il buon senso del momento suggerisce loro, ma tutti vorrebbero essere altrove, essere qualcun altro. Si sentono prigionieri di uno schema comportamentale che li opprime, al quale tuttavia non vedono (non esistono?) alternative. Guardano sé stessi, con pietà ma anche lucido distacco, marciare verso la propria rovina. Lo dicono anche nella famosa scena del caffè, dicono “nella vita si fa quel che si deve fare” o qualcosa di simile. Che film. Si ferma a pochi centimetri dalla religione. Mann scandaglia l’animo umano e ne viene fuori con una sintesi così essenziale che non pare vero. Mann nei libri scuola, altro che Kant!
“Nel 1994 esce Pulp Fiction. Prima botta. Poi, nel 1995, in rapida successione: Heat, Seven, Casino e I soliti sospetti!”
“Casino” ancora mi manca! Però mamma mia! Poi uno fa il nostalgico del cinema anni 90! XD Cioè, in un anno Heat, Seven e “I soliti sospetti”! °_O ^^
Sono passati quasi 3 mesi dall’uscita di questo pezzo.
Ogni tanto passo e lo rileggo.
E lo rileggo.
E lo rileggo.
Come faccio a farti i complimenti sinceri, Darth, se normalmente quelli DAVVERO bravi io li vorrei picchiare?
Brutta cosa l’invidia.
Vedo Heat per la prima volta, capisco un sacco di cose. Capolavoro vero, di quelli rari. Meritava un corrispettivo in questa splendida recensione.
Oh, non ci posso far niente: ogni qual volta rivedo, o ripenso a “Heat”, faccio un salto qui e mi rileggo questa splendida recensione, come a trovare qualcosa che magari mi è sfuggito… che so? Anche una qualche sfumatura!
Complimenti ancora, Darth: quello che hai scritto è un capolavoro alla pari del film xD!
Scoperto pure SSAV sul Mereghetti! XD Praticamente un pò come successo con Hitchcock con “L’ uomo che sapeva troppo”, anche se meno distante perché entrambi nati per le sale. Invece lo stacco tra cinema e TV a livello visivo e di regia fino intorno al decennio scorso in generale era piuttosto marcato. Anche se David Lynch aveva già fatto vedere alla TV come si doveva fare. XD Ed in un certo senso anche Michael Mann in qualche punto con l’ estetica di MV come detto sopra. Mi tocca citare Federico Frusciante. XD Effettivamente ha fatto notare come per 30 anni De Niro, anche nei suoi ruoli più commerciali come “Fuoco assassino” e “Prima di mezzanotte”, non scadesse mai e fosse sempre al top! Insomma, ai tempi di “Heat” alzi la mano chi avrebbe detto che sarebbe finito a fare cose come il film su “Rocky e Bullwinkle” e “Nonno scatenato”. Un pò, per rimanere in tema manniano, James Caan che ti fa “Elf”! XD
Sempre interessanti gli aneddoti!
“eppure nel 1994 c’era ancora un briciolo di speranza degli autori verso gli studios e degli studios verso il pubblico.”
Già!
“La poetica di Mann è un equilibrio tra genere e autorialità, tra azione e riflessione e soprattutto -per me- tra realismo e astrazione: tutto nel suo cinema è tremendamente ricercato e scrupolosamente messo in scena eppure mantiene una dimensione astratta che a tratti prende il sopravvento e diventa quasi onirica, e a volte anche sfacciatamente romantica e sopra le righe. Nel cinema di Mann c’è tanta roba diversa, c’è roba popolare e roba colta da ogni ambito: dal cinema, certo, ma anche dalla letteratura e pure da tanta pittura, di cui è grande appassionato.”
Non posso che quotare!
” il suo status di capolavoro, nel genere e fuori, è stato in divenire un po’ come la sua gestazione dalla fine degli anni settanta fino alla sua uscita. La prova di come sia stato rivalutato è che l’anno scorso il ventennale del film è stato celebrato da tutti i maggiori siti di cinema e non: da Variety ad Esquire, passando per Rolling Stone e mille altri.”
Chissà a quanti film di questo decennio capiterà! XD L’ unico che tiene botta per ora è “Inception”, senza strafare.
Mann comunque è una continua sorpresa! Ho scoperto che ha prodotto una miniserie TV sul traffico di droga, “Agente speciale Kiki Camarena sfida ai narcos”, con un emergente Benicio Del Toro. Curiosamente è quasi contemporaneo di SSAV, ma la qualità visiva sembra decisamente più elevata! °_O
Cioè, scopro che ha prodotto anche “The aviator” ed… “Hancock”!?! °_O Ma quest’ ultimo non poteva dirigerlo lui? Se la prima parte è gradevole, la seconda è balotta. Almeno poi faceva anche un film supereroistico già che c’ era! XD
A Mann non bastavano le gigantesche interpretazioni dei personaggi principali,
tutti caratterizzati in modo magistrale. Ci sono “piccole” storie che si affacciano in questo film e che riescono a suggerire tragiche esistenze attraverso un paio di dialoghi e una manciata di controcampi.
La storia di Don Breedan, ad esempio, è di fatto un cortometraggio di rara amarezza metropolitana.
Mann riesce a raccontare tutto con un commovente e minimale dialogo tra lui e la compagna che cerca di incoraggiarlo nel percorso di inserimento lavorativo post carcere: “Sono orgogliosa di te” – “E cosa hai da essere orgogliosa?”.
E’ chiaro; finirà tutto in merda ovviamente. Ma quale recupero? Il destino, con la spietata offerta del nostro De Niro, era da tempo scritto nelle stelle, eppure ci fa male. Grado di consolazione -10.
Dio bono che film.
“Ho visto Heat… bello eh, però non so, forse è troppo…”
“Fermati qui ragazzo. Ti voglio bene uguale, ma tu non capisci un cazzo di cinema”
– Il sottoscritto con chiunque avanzi dei dubbi su Heat –
Pure qui come in collateral finale cannato.
Rivisto ieri e piombato qui per rileggere la recensione. Applausi a scena aperta per tutti, da mann fino a i400calci