Storia vera: all’anagrafe, il regista e co-sceneggiatore di questo brutto film si chiama Geng Weiguo. La traduzione letterale dei caratteri che compongono il suo nome, 耿卫国, è “L’onesto che difende la patria”. Molto bello. Ma per la sua carriera da regista, Geng ha scelto come nom de plume Tan Bing, i cui caratteri 檀冰 significano rispettivamente “albero di sandalo citrino” e “colui che non ha mai frequentato una scuola di cinema”. Al posto di imparare come si scrive una sceneggiatura, Tan Bing ha passato gli anni della gavetta a insultare a mezzo pubblico Donnie Yen, a suo dire reo di avergli tolto indebitamente dalle mani il progetto che poi sarebbe diventato Special ID (breve recensione: fa schifo il giusto), con l’unico risultato di farsi querelare e di dover attendere un altro lustro per debuttare dietro la macchina da presa. Carico a pallettoni dopo l’ingiustizia subita dal divo Donnie, Tan ha accumulato anni di rabbia, frustrazione e ignoranza cinematografica per poi riversare tutta la sua energia repressa in una roboante chiavica sciovinista al limite legale dell’analfabetismo. Ci piace immaginarlo sul tappeto rosso della première, a braccetto con Mike Tyson e Steven Seagal mentre biascica, visibilmente ubriaco: «Hai visto, maledetto d’un Donnie Yen, che so cos’è un controcampo?». Sigla!
China Salesman non è un film, è un percorso minato a difficoltà crescente, un’opera d’ingegno che da qualche mese, grazie alla riforma in senso (ancora più) spartano dell’educazione, viene utilizzata negli istituti primari e secondari di Val Verde per separare gli stomaci forti da quelli deboli. Il primo scoglio da superare è arduo: in un film prevalentemente parlato (non è il caso di scomodare il concetto di recitazione) in inglese, il livello di dimestichezza medio del cast con la lingua d’Albione è lo stesso di mia mamma sessantenne che approfitta della pensione per iscriversi al suo primo corso d’inglese, rigorosamente Arci. Il risultato sul set dev’essere stato raccapricciante, tanto da convincere Tan Bing a non utilizzare il suono in presa diretta e a doppiare tutti i dialoghi. Il risultato è comunque raccapricciante, ma con l’aggiunta di nuovi, emozionanti momenti in cui i personaggi parlano senza muovere la bocca. Lo scoglio del linguaggio è quasi aggirato, manca solo di sopravvivere agli eterni pipponi sulla tecnologia delle telecomunicazioni scritti in un estenuante gergo pseudo scientifico che fa scattare il luddismo e pronunciati da interpreti che, grazie altrettanto, non ci stanno capendo una sonora fava nemmeno loro.
Un grasso sorso di pepto-bismol tagliato con il maalox e siamo pronti per la trama, che assomiglia ai fatti realmente accaduti a cui dichiara di ispirarsi tanto quanto io somiglio a Hugh Jackman: apparteniamo alla stessa specie, più o meno. China Salesman è la storia dell’eroico Yan Jian, alter ego di un regista nettamente dissociato dalla realtà. Yan Jian è un personaggio credibile, una sorta di miscuglio tra un Che Guevara genio dell’ingegneria informatica e MacGyver, con la statura morale di Gandhi, il fascino di un Andy Lau ma asessuato e l’abilità politica del figlio di Kissinger e Mao. Si offre volontario per andare in trasferta in un non meglio specificato stato africano recentemente uscito da una guerra civile e aiutare la responsabile sul luogo della sua azienda, il colosso delle telecomunicazioni DH, a vincere l’asta per la fornitura di infrastrutture. Entro la prima mezz’ora Yan Jian ha già umiliato gli europei con la sua astuzia diplomatica e la sua retorica ficcante, ha sfoderato a sorpresa un software scritto da lui stesso per potenziare il segnale della linea salcazzo cosa che surclassa quello sviluppato dalle multinazionali concorrenti e ha salvato una donna e una bambina dimostrandosi pronto a sacrificare la propria vita per due innocenti sconosciute, immolandosi sull’altare delle incomprensioni culturali senza nemmeno fermarsi e pensare: «Ha senso trasferirsi nella stramaledetta Africa musulmana se non ho nemmeno idea di cosa sia l’infibulazione?». Peraltro Tan Bing si porta già a casa il premio pessimo gusto 2018 per la scelta di usare l’infibulazione come inutile pretesto narrativo in un puzzolente film fatto con i piedi.
L’antagonista della storia è un certo Michael, rappresentante della multinazionale europea MTM e spia di un non meglio identificato esercito del vecchio continente, in missione per destabilizzare il paese e continuare a trarre profitto dal colonialismo di mercato. Michael è interpretato da Clovis Fouin, attore talmente dingo da essere stato dimenticato nei credits su Imdb. Su Michael si riversano le velleità da cinematografaro di classe di Tan Bing, che a inizio film indugia e ammicca sul lussuoso gemello del malvagio imperialista. L’oggetto, nel finale, sarà causa del suo smascheramento e della sua caduta – non che abbia mai fatto niente per nascondersi mentre ammazzava mezzo paese, era solo circondato da personaggi con la testa incastrata di traverso nel culo – con un colpo di scena così torrido che il clone di Hitchcock, durante la première a Val Verde, si è dovuto alzare per esclamare con entusiasmo: «Ahahah. No» prima di lasciare la sala. Michael esiste al solo scopo di accompagnare la transustanziazione di Yan Jian, che dopo mezz’ora di film non ha più nulla di eroico da fare e deve, in qualche modo, trasformarsi in supereroe e sventare la guerra civile scatenata dalle macchinazioni del demone occidentale.
È in questo miracoloso contesto cristologico che si svolge LA scena. Yan Jian e Susanna, arbitro dell’asta che si sarebbe dovuta svolgere in caso di mancata guerra civile, viaggiano verso il confine tra nord e sud del paese per aggiustare le torri per ripristinare le comunicazioni per avvisare esercito e ribelli che la morte del presidente è stata accidentale per scongiurare la guerra e infine per urlare al mondo intero che il babbo del regista fa marchette in un autogrill sulla Palmanova-Tarvisio. I due viaggiano su un carrarmato insieme alla loro scorta e vengono fermati a un posto di blocco ribelle chiaramente armato di lanciarazzi. Cercatemi una bandiera bianca o una della croce rossa per comunicare che veniamo in pace, suggerisce il militare che li accompagna dimenticandosi di essere a venti metri dal posto di blocco e di possedere una voce. Non le abbiamo ma fatemi vi prego rischiare la vita per innalzare la bandiera della repubblica popolare cinese, rispose l’eroe venuto dall’impero celeste, conscio che i ribelli di un fittizio stato africano avrebbero riconosciuto la bandiera rossa con cinque stelle come simbolo universale di democrazia e pace fra i popoli. Adesso provate anche voi a casa: prendere il primo cargo per la Siria e tentate di interrompere un’imboscata dell’Isis facendo garrire il tricolore. Se, arrivati a questo punto del film, il cervello non ha ancora cominciato a lacrimare per l’irritazione, potreste ancora provare un certo sollazzo di fronte a tanta manifesta incapacità.
C’è una questione lasciata volutamente in sospeso finora: in questa valanga di pattume, dove siedono i sultani Mike Tyson e Steven Seagal? Li trovate laggiù, sui loro scranni di teschi di sceneggiatori capaci, in bella vista tra il mucchio di personaggi posticci e leggermente sommersi dalla montagnola degli avanzi di colonna sonora generica. La micro fotta di vederli prendersi a schiaffi si esaurisce dopo 12 minuti scarsi di film, in una breve scena di pizze girata – sono pronto a scommettere: la mia barba contro il prossimo film di Tan Bing, un dramma con protagonista quella matta di Bai Ling intitolato The Final Contract – senza che i due fossero mai presenti insieme sul set, montaggio di due coreografie eseguite con le controfigure e sistemato alla meglio con uno spolvero di CGI ad mentula canis. Tyson è l’orgoglioso membro di un clan caduto in disgrazia, che si mette al servizio di Michael pur di riottenere la terra che spetta alla sua nazione. Seagal è un ex mercenario che rifornisce una tribù locale di armi in cambio di alcol. L’unico momento in cui questi due personaggi inutili si incrociano è per scambiarsi gentilezze a pugno chiuso dopo aver litigato per un boccale di piscio.
Per tutto il resto del film, Tyson e Seagal recitano. Capite, RECITANO. Se Seagal nemmeno ci prova più – tanto è amico di Putin, non gli serve – e pare rianimarsi solo nelle scene in cui può dare buffetti sul culo della segretaria (idea brillante Steve), Iron Mike si impegna molto e strappa anche un intenso monologo finale in cui, tra atroci difficoltà, deve riuscire a pronunciare più di dieci parole consecutivamente. Non dà molto una mano la sceneggiatura, che pare la traduzione in inglese fatta con Google del già brutto originale cinese. Poi a metterti in ginocchio è il montaggio, presumibilmente curato da una persona che odia il cinema e che sull’autobus non cede il posto alle vecchine. E ll colpo finale è la struttura narrativa da soap opera, inserita in una pestilenziale cornice retorica. Agli occhi birbantelli del regista e sceneggiatore, che ammiccano sensuali nella direzione dei vertici di partito, Yan Jian è il sogno bagnato del proto regime di Xi Jinping, il cittadino ideale: indefesso lavoratore, saturo dei sani principi maoisti di onestà, integrità, onore, lealtà, rispetto, intraprendenza e una frangetta che titilla la fregola delle compagne. Degno rappresentante – non tradisce neppure nei momenti di maggiore difficoltà – di un’azienda stato famiglia che, al contrario delle controparti occidentali, si impegna per perseguire un profitto etico.
Che fatica. È brutto lasciarsi così, China Salesman. Io scelgo di ricordarti per la quattordicesima delle tue ventidue scene madri, lo struggimento in montaggio alternato. Yan Jian vaga nel deserto dopo essere scampato per l’ennesima volta alla morte e attende di essere disidratato e sull’orlo del collasso prima di ricordarsi di avere un telefono. Chiama Susanna e le fa una richiesta molto specifica: «Devi far pubblicare il codice sorgente» a cui lei risponde, piangendo in maniera insensata: «Puoi farcela, so che puoi farcela». Stacco su di lui, urla nel deserto. Susanna si fa un bagno e si asciuga con uno sguardo otto per dodici. Yan Jian rotola al rallentatore giù da una duna. Sipario.
DVD-Quote:
“L’audizione di Mike Tyson per il reboot di Alex l’ariete”
Toshiro Gifuni, i400calci.com
Era dai tempi di “Mi ricordo lanterne verdi” di Nanni Cobretti che non ridevo così per una recensione.
Bravissimo
Ma, non ho capito… quindi non ti è piaciuto?
È estremamente brutto, ed è davvero difficile volergli del bene nonostante tutto il pattume che accumula. Potrebbe essere un buon film per un drinking game: uno shottino di braulio per ogni maccosa.
Protip: sono un cialtrone, non rispondermi seriamente. :D
Comunque da come l’hai descritto penso che sia vedibile solo DOPO un drinking game.
Per film del genere l’alcool non basta, ci vuole il coma etilico.
la rece si sforza talmente tanto di essere simpatica che mi è quasi venuta voglia di vederlo
no no poche chiacchiere qua abbiamo tra le mani un redattore qualità oro
a parte che il film lo vedrò uguale, a parte che a momenti non capivo nemmeno se davvero ci stanno seagal e tyson – roba che come minimo nomi così li dovevano sparare in ogni fotogrammama non fosse altro la crew del film deve aver lavorato in preda a psicosi – che gli è preso ai cinesi che fanno film a manetta dove sono eroi in africa? quali oscure trame nascondono? devono conquistare 24 territori?
35 territori per la precisione, a partire dal 2015. E lo hanno già fatto, presentandosi con un portafogli gonfio che neanche un benzinaio della TO-MI.
Comunque è Lawlence d’Alabia
Comunque è Lawlence d’Alabia
Sembra bello
Finalmente…lo sapevo…la rece che aspettavo..vera e divertentissima…la chiedevo a gran voce finanche nei commenti di altri film che non c entravano una cippa sapendo che questo “maccosa” elefantiaco l avrebbe ispirata…
no dai.. è un pesce d’aprile?
Il “merdone”, in gergo lavorativo, è quel task problematico e sfigato che nessuno si vuole prendere in carico. E che, dopo una serie di rimbalzi e carambole, puntualmente finisce sulla TUA scrivania.
Questo film deve essere il “merdone” che Nanni ha rifilato a uno degli ultimi arrivati, a mo di rito di iniziazione.
Ci siamo passati tutti, man, ti sono vicino.
Io vorrei vedere qualcuno cercare di forzare un posto di blocco in Siria sventolando orgoglioso un tricolore. Vorrei vedere soprattutto il seguito.
1) Forse abbiamo trovato il degno erede di Miike.
2) Ma a Valverde avete anche altri cloni oltre a quello di Hitchcock? Sono sintetici o organici? Cosa sognano?
sognano calci elettrici
Sciapò
La bellezza di questi film dimmerda che fai persino fatica a capire perchè vengano recensiti, è il tirar fuori dei commenti belli come questi di oggi. A proposito, sposo in pieno la geniale teoria del “merdone”, paraltro perfettamente affrontato e sconfitto dalla simpatia del redattore
raga ma guardatevi il trailer linkato, a parte il notare che chi lo ha montato è probabilmente affetto da sla potrete pure già farvi un’idea della totale insensatezza di regia, storia e interpreti. Oltre che beneficiare di diversi frame in cui s seagal sorseggia campari + una tizia vestita come kylie minogue in cant get u out of my head + l’imbarazzante scontro seagal vs tyson
Tison, con un po’ di dieta Weight Watchers e palestra, potrebbe diventare il nuovo Bolo Yeung.
E comunque no, i capelli di Steven Seagal non sono veri: è scalpo pitturato.
OT
Forse forse Gifuni è un furlan?
Io non ho capito il perché dell’esistenza di questo film nell’elenco dei film esistenti.
Della serie: se ti fanno recensire un film di merda, che almeno la recensione sia indimenticabile.
AHAHAHAHAHAH moio
Haha ha film fantastico è talmente stupido, brutto e mal girato che vale la pena vederlo per farsi due risate e vedere come i cinesi vedono se stessi… cabtandosela e suonandosela e menandoselo da soli… sopratutto per le totali balle inventate come… cito:” centinaia di anni fa flotte cinesi sbarcarono in africa seminando pace e amore …” …” i cattivissimi occidentali europei invece ….” …. haha troppo ridicoli….