A me spiace cominciare a parlare di Puppet Master: The Littlest Reich tirando subito in ballo Craig Zahler e facendo ruotare tutto intorno a lui, il romanziere, il metallaro, l’autore di, al momento in cui scriviamo, tre film clamorosi su tre – su Bone Tomahawk e Brawl in Cell Block 99 ci metto la mano sul fuoco, Dragged Across Concrete non l’ho ancora visto ma i miei amici dei Calci mi giurano che è un altro centro pieno e io mi fido dei miei amici dei Calci –, l’intellettuale tamarro che ama la violenza, uno dei riferimenti a cui guardare oggi e domani quando pensiamo al cinema che ci piace.
Però Craig Zahler ha, tra le altre cose, cominciato a lavorare per Fangoria, e Fangoria ha prodotto The Littlest Reich e l’ha fatto scrivere proprio a Zahler, e gli ha dato mano libera per un reboot completo della saga, narrativo, tematico e anche tonale, e il risultato è non solo il miglior capitolo di Puppet Master dai tempi di uno dei primi tre ma anche il primo Puppet Master realmente interessante da quando uscì quel pasticcio di Legacy, l’ottavo capitolo nato esclusivamente per correggere gli errori di continuity emersi nei sette precedenti.
Quello però era un giochino intellettuale per superfan, e nemmeno particolarmente riuscito, mentre qui abbiamo un signore che si è fatto un nome facendo roba zozza, violenta e cerebrale insieme al quale viene chiesto di far ripartire da zero una saga nella quale, film dopo film, un gruppo di pupazzetti animati assassini aveva finito per diventare una squadra di antieroi tipo Suicide Squad ma più tridimensionali, protagonisti di avventure divertenti e solo relativamente violente. Capite che la situazione è parecchio interessante già nei suoi presupposti, e la curiosità non è solo nel capire come Zahler abbia deciso di assolvere il suo compito, ma anche se l’abbia fatto con passione o solo con mestiere, come sarebbe anche comprensibile, per quanto deludente, per uno che ormai è un Regista Da Festival e che si ritrova tra le mani un franchise tutto sommato minore e sul quale le aspettative, anche dei più appassionati, non sono altissime.
Zahler, che è un metallaro di merda* a cui per questo vogliamo un sacco di bene, decide di risolverla così:
Decide di prendere la mitologia della saga, faticosamente definita nel corso di undici sequel (più uno fuori canone), e ribaltarla su se stessa, trasformando Andre Toulon, il burattinaio del titolo, che nel terzo film si scopriva essere una vittima del regime nazista e che da lì in poi avrebbe usato, o fatto usare ai suoi eredi, i suoi poteri per combattere i seguaci di Hitler, trasformandolo, dicevo, in un nazista che creò un esercito di pupazzi altrettanto nazisti e che nel film ritorna in azione per riunirli tutti e compiere un massacro di tutte le categorie che si presuppone un nazista possa odiare: ebrei, omosessuali, rom, innocenti in genere.
Decide anche di prendere il tono da divertente massacro dei precedenti undici film (più uno fuori canone) e affogarlo in una vasca di cinismo, nichilismo, humor nero e intestini. Di afferrare con decisione la manovella dell’ultraviolenza e del cattivo gusto e di girarla talmente forte in senso orario da farla staccare dal Macchinario del Cinema e mandarlo in parziale tilt, aprendo così le porte a più o meno tutto quello che sulla carta non dovrebbe stare in un film (al momento The Littlest Reich non è neanche rated). Di fare un film che è di fatto un grosso vaffanculo a tutto e tutti, ma in particolar modo ai nazisti. Sigla!
C’è un metodo dietro la follia di Zahler e di tutta la banda di The Littlest Reich, i due registi Sonny Laguna e Tommy Wiklund in primis, e lo illustra efficacemente il protagonista Edgar in un dialogo con un ragazzino fan dei fumetti che lui scrive per campare: «This was a fucked up issue» gli dice il cinno commentando l’ultimo numero di Madame Lightning, la supereroina ispirata alla sua ex moglie. «A lot of bad shit happens to people who don’t deserve it». Esausto e annoiato da quella che è chiaramente una domanda che si sente ripetere troppo spesso, Edgar risponde qualcosa che suona come «sì, proprio come nel mondo reale, deal with it».
Non è proprio delicatissimo come meta-testo, ma è una dichiarazione d’intenti efficace e che risuona anche con le altre opere di Zahler; è una posizione parecchio nichilista, ed è anche il modo più semplice per giustificare un’ora e mezza di cose orrende fatte da persone orrende pupazzi orrendi (che poi sono i nazisti, nel caso non fosse chiaro) a persone che non se le meritano. The Littlest Reich si diverte da matti a costruire personaggi adorabili, realistici, a cui volere bene, circondati dal giusto numero di caricature a loro volta caratterizzate a sufficienza da facilitare la vicinanza emotiva, e poi a smontarli tutti, uno per uno, nei minimi dettagli, spesso letteralmente, qualche volta anche psicologicamente. Non è solo un film pieno di violenza, è un film intrinsecamente violento, che parla di violenza, di cattiveria, persino, inevitabilmente, degli aspetti più politici della violenza, l’omofobia, l’antisemitismo, voglio dire, non dimenticatevi che stiamo parlando di pupazzi nazi comandati da Udo Kier nazi truccato come il nazi di Indiana Jones dopo che si brucia la fazza nella taverna di Marion, o come Hugo Weaving in Capitan America.
La storia è tutto un grande pretesto per riempire un albergo di una sfilza di minoranze e rinchiuderle dentro con un branco di pupazzi animati nazisti.
Per fortuna Zahler ha sia il gusto della scrittura sia quella particolare versione del dono della sintesi che nasce quando non vedi l’ora di smettere di parlare e cominciare a far morire la gente: ci impiega meno di mezz’ora a farci conoscere Edgar, la sua nuova fidanzata Ashley e il suo capo Markowitz, a farci innamorare di loro con pochi, semplici tocchi – il rapporto tra Edgar e i genitori, la particolare forma di nerdismo carismatico e sociale e antisociale insieme di Markowitz –, a spostarli dove devono stare con un pretesto tutto sommato idiota ma accettabile, e una volta posizionate le sue pedine spegne la luce, e quando la riaccende è pieno di pupazzi nazisti e di un numero sempre crescente di cadaveri.
Il pretesto è un’asta alla quale verranno venduti tutti i pupazzi creati da Andre Toulon nel corso della sua vita e andati dispersi dopo la fine della Seconda guerra mondiale. Asta che si terrà nei pressi della casa americana di Toulon, nella quale il vecchio nazista venne, trent’anni prima, scoperto colpevole di plurimi omicidi e ucciso dalla polizia, qui nella figura di Barbara Crampton. E questo, sulla carta, ha già spiegato tutto, anche come andrà a finire il film. Dal momento in cui i Nostri Eroi arrivano nell’albergo dove si terrà l’asta e i primi pupi cominciano ad aprire gli occhi e fuggire dalle loro scatole il film è già fatto, e diventa tutta questione di esecuzionie.
E che esecuzione. Senza un minimo di buon senso, senza un’oncia di buon gusto, fieramente eccessiva e in un paio di momenti genuinamente disturbante, talmente affezionata al massacro da arrivare a mettere più volte da parte qualsiasi parvenza di ritmo in favore di un approccio da “top 10 best pupet kills evr!”, voglio dire che è un film che con dovizia di particolari mette in piedi una sequenza, e vi assicuro che siamo ben lontani dal peggio che si vede, nella quale un tizio che sta pisciando viene decapitato e finisce che il suo corpo decapitato piscia sulla sua testa che è finita nel cesso. In ossequio alla natura dei suoi cattivoni – la parte nazista voglio dire, non quella in cui sono pupazzi –, The Littlest Reich si muove al di fuori di qualsiasi limite o confine: l’importante è ammazzare tutti, stiamo parlando di un body count che si avvicina senza fatica alla tripla cifra, e poi a uccidere sono i nazisti, il buco nero morale dell’umanità, gente che farebbe di tutto perché fondamentalmente fa schifo al cazzo.
È, c’è da ammetterlo, un po’ una scorciatoia e un po’ una paraculata per giustificare anche le cose più orrende che si vedono – oh, sono nazi! Ci sarebbe forse da fare un discorso su quanto questo approccio perfettamente amorale sia una vera condanna (The Littlest Reich non fa nulla per nascondere il suo disgusto per i nazi, e in una sequenza è persino capace di andare, forse, non ne sono ancora sicuro, oltre il limite del buon gusto nella direzione opposta) e su quanto invece sia solo una scusa per poter girare scene che altrimenti porterebbero la Disney ad assumere Zahler per Guardiani della galassia 3 solo per licenziarlo un istante dopo.
(forse si potrebbe persino criticare il film per la scarsità di momenti catartici in cui a venire massacrati e umiliati sono i nazisti, ma quello è un po’ più in generale il problema quando il tuo cattivo sono dei pupazzi)
Ma è anche vero che stiamo anche parlando di horror, di splatter, di roba che per sua stessa natura è, o dovrebbe essere, maleducata e di confine, provocatoria, idealmente offensiva per chiunque, nata per shockare prima che per divertire.
E in questo senso Puppet Master: The Littlest Reich è un successo, di più, un trionfo, un film quasi perfetto, senza un grammo di ciccia superflua, crudele e nichilista. Mi rendo conto che può far ridere leggere queste parole relativamente a un film sui pupazzi assassini ma così stanno le cose. Tenete un posto libero nell’immancabile classifica di fine anno.
E no, non ve la metto una foto superviolenta, dovete fidarvi di me e vedere il film. O guardare il trailer che sta qui sotto, in effetti. OK dai va bene ve ne metto una, la pesco dalla cartella “per educande e seminaristi”.
DVD quote suggerita:
«Così piccolo ed è già un classico»
(Stanlio Kubrick, i400calci.com)
*è una cosa bella, non un insulto. Anch’io sono un metallaro di merda. Venite amici, amiche, abbracciamoci nel nome del metallo.
Grande Stanlio
Che cosa noi mangiamo?
IL METAAAAAAALLO!
Figata. Non sapevo che il nuovo film Zahler lo avesse giá uscenzio.
Mammamia Stanlio, quando ho visto il link “sociale e antisociale” ho sperato fortissimo che fosse quello che pensavo. Ed era quello che pensavo.
Ci tengo solo ad aggiungere che, on top of this, le musiche sono di Fabio Frizzi e sono fottutamente commoventi.
Porcocazzo ecco cosa mi sono dimenticato.
Sei fortunato che il Capo è magnanimo, per queste sciocchezze l’ammenda è solo tagliarsi una falangetta e buttarla nella buca dei V-rex nani.
Un grosso vaffanculo a tutti e, in particolar modo, ai nazisti (cit. Stanlio Lubrick) è il modo ideale per iniziare la giornata. Magari non il migliore: per me è terzo in classifica dopo il caffè corretto sambuca e la pippa mattutina gentilmente offerta dalla prostata. Comunque, rimaniamo nei piani alti della classifica.
Film divertente. Fine a se stesso come pochi altri, ma scorre veloce.
Effetti old school, prostetica, succo di mirtillo e stop motion (CGI suca!).
Dialoghi sensati, in un inglese fin troppo elegante per il tipo di film.
Note sparse.
– Personaggio TOP: il negro che parla SEMPRE di sé in terza persona.
– Visione sconsigliata alle donne incinte. Seriously: DON’T.
– La protagonista mostra tette naturali per qualche istante. Voto 7/10
– Una comparsa mostra tette rifatte per qualche istante. Voto: N/C
– Puppet preferita: il muscoloso che ti ammazza con i pugn(ett)i.
ps: la risposta di Edgar al ragazzino è: “I try to mirror reality in my work..“
Ok, hai tutta la mia attenzione;
Ma lo passeranno mai al cinemaaaAHAHAHHHhahaahaaa…?
Il film è senza dubbio una bombetta, per capire appieno la misura di quanto Zahler sia amante della violenza e dell’eloquio ben forbito consiglio i suoi romanzi (in particolar modo quelli western, una via di mezzo tra Peckinpah e Takashi Miike).
In sostanza stai dicendo che ama Cormac McCarthy.
Mi procuro i romanzi, grazie della dritta!
In confronto a “Wraiths of the Broken Land”, “Meridiano di sangue” sembra bonario. Fidati, non esagero.
(Ovviamente solo in termini di abilitá nello scovare il pretesto per la violenza più fastidiosa e improvvisa, se parliamo di doti narrative e spinta epica McCarthy è Dio e Zahler muto).
Questo Zahler non ne sbaglia una. Bone Tomahawk e Brawl in Cell Block 99 stanno già meritatamente nella mia videoteca, a quanto pare saranno presto raggiunti da Dragged Across Concrete (elogi da tutte le parti) e i Pupazzetti.
Lo reputo quanto di più vicino a Carpenter ci sia e ci sia mai stato, e ciò è solo un bene. Ma è anche qualcosa d’altro, con una sua personalissima visione e personalissimo stile.
Che Bone Tomahawk sia un capolavoro assoluto, non si discute, ma continuo a non capire l’entusiasmo per Brawl in Cell Block 99, sul quale mi sono già espresso a suo tempo. Protagonista imbranato, botte fintissime, Maccosa giganti. Amo ancora Zahler e vedrò sicuramente i pupazzetti.
Off topic permettendo, invito gli estimatori a raccontarmi perchè Brawl sarebbe figo.
Thank You
qualcuno mi spiega DOVE quel western/horror/boh di bone tomahawk è un capolavoro ? maddechè ? visto una volta e buttato nel cestino. subito. bah. Nessuna scena memorabile, una storia risibile e vecchia. roba da tex willer anni 70.
Questo puppet master, di cui ammetto di non aver mai visto manco un film , mi ha fatto ridere, anche se non capisco che czz ci voleva a sterminarli tutti a bastonate. Invece che sparargli ( a dei pupazzetti di 15 cm ?? ) ,, mai nessuno che usi qualcosa di più intelligente. Non sono mica orsi. Ne arriva uno nel corridoio e sta sfigata gli svuota contro il caricatore. MA pestarlo sotto i piedi, sotto un divano, no?
TUTTI i protagonisti sembrano deficienti. Stanno dove non devono stare, si dividono ( 1a regola degli horror..) , stanno immobili mentre un pupazzetto li devasta. Ma quando mai ?
Carino, divertente, ma presentare un branco di sottosviluppati mentali e neanche uno con un minimo di furbizia no eh ?
Bone Tomahawk è un capolavoro in quanto basato sulla caratterizzazione dei personaggi e l’immersività del mood western crepuscolare/horror. Che la suddetta caratterizzazione sia veicolata da dialoghi minimalisti e gestualità pura è un valore aggiunto (vistii tempi più unico che raro). La trama low concept sortisce la massima efficacia: dopotutto si tratta di una parabola. Rispetto al Tex degli anni ’70, ne coglie il meglio (pochissima roba) e lo eleva a stato dell’arte. Ognuno è libero di pensarla come vuole: credo dipenda molto da cosa uno si aspetta o, soggetivamente, pretende dal cinema in generale. Sbrigato il “politically correct”, mi sovvengono i bei tempi, correvano gli anni ’80, in cui ho considerato di uccidere a mani nude un detrattore del mitico “Alba rossa” di John Milius. Ah, la vecchiaia…
Curiosità cretina che però non riesco a fare a meno di porvi (abbiate pazienza, è lunedì): c’è un METAFORONE dei pupazzi come soldati nazisti che “eseguivano solo gli ordini”?