Quand’ero una piccola Xena, tra una Titanomachia e un poema omerico, ogni tanto mi capitava anche di leggere qualche libro illustrato per bambini, e tra i miei preferiti c’era questo Cappuccetto rosso verde giallo blu e bianco a cura di Bruno Munari. Come la vostra perspicacia vi suggerirà, si trattava di una raccolta di diverse versioni della fiaba di Cappuccetto rosso: per prima quella che sappiamo tutti, cioè la fratelli Grimm edition, poi altre variazioni sui colori (la mia preferita era Cappuccetto blu perché la ragazzetta viveva in un faro, e avendo visto molte volte Eliot il drago invisibile sapevo che vivere in un faro era un buon modo perché ti capitasse prima o poi di farti amico un drago. Ma non divaghiamo). Lo leggevo e rileggevo finché arrivavo all’ultima versione, Cappuccetto bianco: sapevo già cosa mi aspettava, e cioè una sensazione strana, indefinibile. Cappuccetto bianco erano solo pagine bianche – tranne una dov’erano disegnati gli occhi azzurri di Cappuccetto, e nient’altro. «Mai vista tanta neve» recitava il narratore: talmente tanta neve che non si distingueva niente. Non i contorni della casa, non il bosco, non la siepe di bosso. Cappuccetto portava alla nonna latte e burro, e il lupo era – naturalmente – un lupo bianco, indistinguibile in tutto quel candore. Sfogliavo quelle pagine immacolate e sentivo che qualcosa mi sfuggiva, come ci fosse un livello interpretativo inaccessibile al di là delle parole, ma non capivo esattamente cosa fosse, né come raggiungerlo.
Comunque, tutta quest’introduzione poetico-nostalgica per distrarvi dal fatto che sta per arrivare l’inevitabile… SIGLA!
curse your sudden but inevitable lucio dalla
Io non lo so se Jeremy Saulnier avesse davvero intenzione di fare una sua personale trilogia dei colori, ma i titoli che ha scelto per i suoi ultimi tre film invitano all’ipotesi, nonostante (o forse proprio perché) pare sia una questione più evocativa che altro. Per dire, a lungo ho pensato che la blue ruin dell’eponimo film fosse la Pontiac scassata in cui vive il protagonista, ma poi ho letto dichiarazioni di Saulnier medesimo riassumibili in un «boh, mi suonava bene», e così anche Green Room, non è che la stanza sia proprio verde, è una questione di atmosfera e di tono più che di logica, e forse è legata anche al fatto che di mestiere, prima di fare il regista, il ragazzo faceva il direttore della fotografia. Hold the Dark si intitola così perché s’intitola così anche il libro da cui è tratto – del 2014 di tale William Giraldi, confesso d’ignorare qualsiasi cosa a riguardo – ed è anche la prima occasione in cui Jeremy non è responsabile anche di soggetto e sceneggiatura, oltre che della regia. L’adattamento dal romanzo gliel’ha scritto il suo BFF Macon Blair (già protagonista di Blue Ruin e manovale dei nazi in Green Room), che si ritaglia un’immancabile particina e che con Netflix ha già distribuito il suo film da regista I Don’t Feel at Home in This World Anymore, titolo lunghissimo, vittoria al Sundance, recensione qui. A proposito: Netflix.
INTERVALLO: IL PARAGRAFO SUI FILM NETFLIX ORIGINAL
Tema: È forse vero che tutti i film originali Netflix fanno cagare, e perché? Svolgimento:
La teoria conosciuta come “tutti i film originali Netflix fanno cagare” è molto diffusa sulla rete e tra i frequentatori dell’internet abbonati al popolare servizio streaming di Los Gatos. Prove a sostegno di questa tesi consistono, per esempio, nei quattro Adam Sandler movie noti anche come “lammerda”, il film con Jared Leto in vacanza in Giappone, il blockbuster con metaforone Bright, l’attesa nuova prova di Duncan Jones dal titolo Mute in cui molti avevano riposto speranze per il futuro della fantascienza, ma hanno dovuto subito ricredersi, con somma delusione. A confutare, almeno in parte, questa teoria, ci sono il succitato I Don’t Feel at Home in This World Anymore, bei film incalciabili che su questo sito non verranno mai più nominati come Private Life e The Meyerowitz Stories (nel quale, peraltro, Adam Sandler si rivela bravo, a dimostrazione che le altre volte ci sta proprio sfacciatamente pigliando per il culo), Okja anche solo per le pazzeschissime scene degli inseguimenti, il completamento del film perduto di Orson Welles e il non trascurabile dettaglio del Leone d’oro vinto a Venezia 2018 con Roma di Alfonso Cuarón. Secondo gli esperti, Netflix non avrebbe bisogno di fare film belli, ma di riempire il suo catalogo di contenuti: non deve convincere un potenziale spettatore ad alzarsi dal divano, lavarsi, vestirsi, uscire di casa, guidare fino al multisala, pagare il biglietto, sorbirsi 45 fottuti minuti di pubblicità per vedere un bel film doppiato male circondato da gente che parla dei cazzi propri a voce alta e rutta sgranocchiando popcorn*, a Netflix basta che l’utente decida di non disdire un abbonamento che ha comunque sottoscritto per guardare Stranger Things o Orange Is the New Black o comunque – almeno a oggi – NON i film originali Netflix, mentre se ne resta lercio e svaccato sul divano, con un occhio controlla le storie di Instagram e con l’altro segue distrattamente lo schermo della tv. A quanto pare, in questa sua battaglia volta al mantenimento delle persone sul divano, Netflix compie operazioni varie e differenziate: qualche volta acquista film già fatti e finiti ai festival cinematografici, altre si prende quelli che le major hanno troppa paura a distribuire perché temono che sarebbero flop (come Annientamento o The Cloverfield Paradox), altre volte acquista in anticipo i diritti della distribuzione contribuendo al finanziamento del film (come pare il caso di Hold the Dark o Apostolo), altre volte li commissiona proprio da zero stringendo accordi con produttori e star (e qui, come dimostra l’esempio Adam Sandler, spesso spunta “lammerda”, o quanto meno l’effetto più smaccatamente “tv movie”). Può essere che forse i dirigenti di Netflix, essendo principalmente esperti di marketing e/o di programmazione televisiva, non ne capiscano tantissimo di cinema? Può essere che, nella corsa ad accaparrarsi più roba possibile, qualche volta becchino il filmone ma molto più spesso il film “meh”? Può essere che, se esistono ancora i bravi registi e i bravi autori, ci sia a Hollywood una penuria di bravi produttori? Può essere, infine, che sia tutto un aggancio a Cloverfield? Ai posteri l’ardua sentenza, comunque per quanto mi riguarda la risposta alla domanda iniziale è no.
*ispirato a fatti realmente accaduti
FINE INTERVALLO
Nnonostante lui non abbia scritto né il soggetto né lo script Hold the Dark è a tutti gli effetti un film di Jeremy Saulnier. C’è l’America rurale e marginale, in questo caso l’Alaska (il film è stato però girato in Canada, a Calgary, durante tre settimane di nevicate, per la gioia di Saulnier e, immagino, di tutti gli altri coinvolti): una comunità ai confini del mondo, fatta d’abitazioni il cui limite tra casa e baracca è opinabile, dove alcuni bimbi scompaiono, rapiti da un branco di lupi. Una madre affranta, Medora Slone (la brava & molto bella Riley Keough, che a dispetto del cognome simile a uno starnuto è – lo sapevate? – la nipote di Elvis Presley), chiede aiuto a un naturalista in pensione, Russell Core, famoso per un bestseller in cui raccontava di aver vissuto un anno con alcuni lupi (Jeffrey Wright, con la faccia «non sto davvero capendo ma okay» che sfoggia di default in Westworld). Il padre del bambino, Vernon Slone (il molto bello ma non proprio bravissimissimo Alexander Skarsgaard), è intanto a combattere in Iraq, perché il film è ambientato nel 2004 anche se potrebbe benissimo essere oggi, come anche l’Ottocento o il neolitico, ma viene ferito, rimpatriato e quando scopre cos’è accaduto al figlio dà di matto. Andare oltre nella trama non è una buona idea per ragioni di spoiler, ma continuiamo a capire che siamo in un film di Saulnier, proprio perché prevedere che direzione prenderanno gli eventi è molto difficile, e questo nonostante ci si muova sulla traiettoria dritta della vendetta, dell’inseguimento, della sopravvivenza e delle poche parole. Altri indizi su chi sia l’autore del film: c’è una straordinaria sparatoria, cattiva e senza respiro, girata con un senso degli spazi, dei tempi e dell’azione notevolissimo; c’è un filo (ma forse bisognerebbe dire più un cavo) di tensione che non abbandona mai la scena, nonostante il ritmo dilatato e ipnotico; a un certo punto c’è qualcuno che conficca un pugnale nel cranio di qualcun’altro (i “Cahiers” la chiamerebbero, credo, “inconfondibile marca autoriale”).
Quello per cui invece non sembra di vedere un film di Jeremy Saulnier è la totale assenza d’ironia. Una cosa che in Blue Ruin e Green Room, quando anche non direttamente esplicitata nei dialoghi (il primo d’altronde, per almeno mezz’ora è praticamente un film muto), scorreva sotto la pelle del film, pronta a schizzare fuori, amara e crudele, di solito dalle ferite a morte di qualcuno insieme ai copiosi fiotti di sangue. Non ho visto l’esordio del Nostro, Murder Party, ma sull’arbitraria base del titolo e del poster mi sono fatta l’idea che debba esserci pure lì, un po’ d’ironia. Qui invece niente – se non quella involontaria che, temo, potrebbe cogliere lo spettatore che non si fosse calato completamente nel tono e nel racconto di Hold the Dark (magari proprio perché, da bravo utente Netflix, sta nel frattempo controllando le storie su Instagram). In Blue Ruin e Green Room quel che faceva la differenza, tra le altre cose, era che fossero vicende “piccole”, concentrate, e molto precise nei dettagli con cui mettevano in scena il loro mondo e i loro protagonisti. Dettagli che ci sono anche in Hold the Dark, naturalmente, ma qui il discorso sull’ereditarietà del male, sull’essenza bestiale dell’uomo che si riverbera nella natura selvaggia, sull’inconciliabile scontro western tra wilderness e civilizzazione, sulla violenza inscritta nel codice genetico di un popolo, un paese, un paesaggio ambisce chiaramente a un’epica arcaica, da fiaba antica, quasi da leggenda. Qualcosa di molto più stilizzato, astratto, universale, e non per forza razionale, anzi. Lo si vede anche nei paesaggi: il virginiano Saulnier con la natura ha da sempre un feeling particolare, ma qui l’imponenza e il respiro dei totali innevati, incombenti sull’uomo con tutto il loro carico di sublime estraneità, sono la cornice perfetta a una storia che vuole essere più grande, iconica, mitica. Correndo il rischio di risultare a tratti troppo enigmatica, e non troppo compatta.
Saulnier è sempre stato di poche parole, e il suo essere anti-spiegone è uno dei motivi che me lo fanno amare: fa succedere il mondo che mette in scena attraverso quello che i personaggi fanno, non attraverso ciò che dicono. In Hold the Dark – un film che cammina, come i precedenti verso un destino fatale e inevitabile, ma con il ritmo ipnotico di un incubo più che con l’escalation adrenalinica di un action, un film che ha svariate sequenze notevoli (la già citata sparatoria, ma anche quella iniziale nel deserto) capaci di rendere tangibile il senso di pericolo, e che però è volutamente recitato con apatia e distacco – mi rendo conto che gran parte della riuscita è affidata a quel che ci mette lo spettatore, alla sua disponibilità, alla sua pazienza e alle sue reazioni: come davanti alla prateria candida delle pagine di Cappuccetto bianco, chi guarda può decidere di disegnare da sé i contorni delle cose, oppure di accettarne la surreale incompiutezza, l’ambiguità e il disagio. Ma può anche rifiutarle, legittimamente, e dichiarare l’ambizioso salto in alto di Saulnier un fallimento spiaccicatosi a terra.
Vuol dire almeno che l’amico Jeremy non ci prende per scemi; meno male, anche perché a quello ci pensa già Adam Sandler.
Dvd quote: « » Xena Rowlands, www.i400calci.com
Alternative quote: «Lupo ululà, Saulnier ululì» Xena Rowlands, www.i400calci.com
E ORA, FINALMENTE, GLI SPOILER
- Vorrei proporre una petizione per eliminare dalle sceneggiature dell’intero mondo il momento «quando tutto questo casino sarà finito, me ne vado in vacanza/mi dichiaro alla mia amata/realizzo il sogno di una vita/affronto finalmente quel problema che non ho mai risolto»: perfino nell’Alaska remoto di Saulnier scommetto che tutti hanno visto abbastanza film per sapere che una frase del genere è il preludio ALLA MORTE. Basta. In questo caso specifico mi riferisco al capo della polizia interpretato da James Badge Dale, che è anche l’unico personaggio “normale” di tutta questa combriccola di sciroccati delle nevi. Mi ero ovviamente super affezionata a lui, e la sua dipartita mi avrebbe fatto molto più effetto se non l’avesse spoilerata cinque minuti prima con quella frase.
- Sì, tutto il pippone sulle pagine bianche e la necessità di accettare l’incomprensibile, bla bla bla, ma non è che non ci siano indizi per trovare un plausibile significato a questa storia. Avevo intuito (e scopro che nel libro è direttamente esplicitato) che Medora e Vernon sono in realtà fratelli gemelli, e che dunque l’infanticidio – come ipotizza anche la moglie del capo della polizia – avrebbe una valenza di purificazione dalla “malattia” dell’incesto, o anche dalla psicopatia di Vernon. Ci sono poi tutti i riferimenti che legano gli umani ai lupi, come quando il capo della polizia dice a Russell «non stiamo mica parlando di animali qui» e Russell risponde «forse sì»; o il fatto che Russell trovi il branco di lupi che sta sbranando un cucciolo prima di scoprire che il bambino scomparso è stato effettivamente ucciso da sua madre. L’oscurità che consuma i personaggi e che li assedia con l’inverno buio e perenne fuori dalle finestre è sì un potente istinto animalesco, un cupo richiamo della foresta, ma il bello è che non c’è un’equivalenza bestialità = cattivo e umanità = buono, tutto è doppio e ribaltato. Vernon indossa una specie di “maschera” (l’equipaggiamento militare) anche la prima volta in cui lo vediamo, mentre stermina implacabile alcuni nemici nell’”umanissima” guerra in Iraq.
- A proposito della scena con i lupi che sbranano il cucciolo: si tratta di lupi veri che sbranano un finto cucciolo edibile fabbricato nei minimi dettagli dai responsabili degli effetti speciali. Da filmare dev’essere stata una roba incredibile.
- Nativa americana che sussurra mezze frasi arcane, minacciose e vagamente mistiche: uhm, non so, ancora davvero davvero? Nativo americano incazzato a morte con l’universo che mitraglia sulla folla: bella zio, in fondo non me la sento di darti torto.
L’aspettavo, GRAZIE! Ora leggo la recensione. :)
Letta e apprezzata. Rimando a quella di qualche settimana fa nella rubrica “Sarafian says” sulla rivista letteraria JollyRogerMagazine. Non inserisco il link in quanto informaticamente svantaggiato.
Ma come? Nessun accenno a “I segreti di Wind River” ?
Secondo me a parte la neve non c’entrano una sega l’uno con l’altro.
Neve, nativi americani, isolamento, branco, imbarbarimento. Renner e Wright stesso personaggio. Mi sembra che siano praticamente sovrapponibili i due film. Certo, mica si parla di remake ma di opere molto, ma molto vicine.
Non mi e` proprio piaciuto e ci ho anche provato, ma davvero l`ho trovato parecchio sconclusionato. Mi piacciono tutti i film precedenti di Saulnier (anche Green Room che inizialmente non mi aveva fatto impazzire), ma questo proprio no.
Ci sono almeno tre storie che procedono parallelamente e si incontrano brevemente senza mai contribuire a formare una narrazione unica: non si capisce chi sia il protagonista del film, ne` cosa davvero il film voglia raccontare. Bocciato purtroppo.
Come al solito, se non ci si muove a commentare c’è già chi lo fa per me (il che è un bene), in questo l’amico Zen, che sinteticamente dice quel che c’è da dire. Sconclusionato è la parola alla fine. Ed è un peccato perché le premesse sono fortissime, caricano. Ma la cosa poi si rivela, semplicemente, poco interessante – oltre che confusa
Quoto Zen al 99%. L’unico appunto è che a me “Green Room” è piaciuto un botto ed è passato sotto troppo silenzio.
pensa un po’ che i motivi per cui tu lo bocci sono proprio quelli per i quali io lo promuovo a pieni voti, oltre a quella sparatoria come dio comanda
Scusa Reverendo ma il tuo commento mi fa abbastanza ridere. Per te infatti i lati positive del film sarebbero:
– le tre sottotrame che sembrano destinate ad incrociarsi senza farlo mai
– il fatto che non si capisca chi è il protagonist
– il fatto che non si capisca cosa il film vuole raccontare.
Quali sarebbero le tre sottotrame che non si incrociano mai? Colgo l’occasione per citare una battuta dei Soprano: “Mary Lou è così grassa, ma così grassa che potrebbero chiavarsela in due senza incontrarsi mai”.
Credo quella dell’animalista, quella di lei/ lui/ la comunità, quella dello sbirro.
Credo perché non ne sono certo di cosa intendesse l’Ozio
Se per animalista intendiamo il personaggio di Bernard, ehm, Jeffrey Wright, lui/lei sono Skarsgaard e la moglie, e lo sbirro è James Badge Dale direi che le vicende confluiscono nel finale, peraltro intersecandosi anche prima.
In quanto alla comunità di Keelut (il nome di uno spirito maligno per metà canide nella tradizione inuit), tra il pellerossa boia delle le forze di polizia locali, la megera sibillina e il nonno pazzo di “The Visit” che fabbrica maschere tribali ed esorcizza i bambini frutto di incesto con l’olio sacro sciamanico vattelapesca, direi che è ben rappresentata.
‘Sto film lo si ama o lo si odia per quel che è: ha talmente tanti difetti nell’ottica di chi non ne apprezza lo stile narrativo che non occorre inventarsene ulteriori.
Se non si fosse capito l’ho apprezzato moltissimo; pur consapevole che molte scelte registiche possano infastidire, in questo caso lo difendo perchè non condivido le motivazioni espresse.
Il film più buionche abbia mai visto resta Aliens vs Predator: Requiem. Lì era proprio buio buio
A me questi film “famolo strano” proprio non piacciono e non credo siano neanche calcisti. Lo definirei “una sparatoria con i controcazzi immersa in ambiente ultrapretenzioso”. Amen
Mado’, “Cappuccetto giallo” ce l’avevo in un albo seperato dal resto. Mi hai fatto partire un flahback di 40 anni fa micidiale.
Ve lo consiglio “Murder Party”, low budget poco al di sopra dell’amatoriale, ma molto divertente e pieno di idee, una specie di “Fuori orario” halloweenesco.
Sul film in oggetto concordo con la bella recensione.
Pigramente posto un paio di interventi scritti in un forum:
“Su una sceneggiatura dell’amichetto Macon Blair tratta da un romanzo, Saulnier alza il tiro con un thriller cerimoniale, cupissimo e apocalittico, una specie di “Wind River” sotto peyote, rimanendo fedele ai suoi temi. Anche qui c’e’ il personaggio che sconfina (anche se questa volta volontariamente) in un’Altra America dove le normali regole di convivenza e leggi sembrano non esistere. Conferma quindi in pieno di essere uno dei “miei” registi americani del decennio e, con una grossa mano dei paesaggi dell’Alaska, rilancia pure con una notevole carica visiva.
Detto cio’, a un quarto d’ora dalla fine ero convinto di trovarmi davanti a un Signor Filmone, ma poi c’e’ appunto il quarto d’ora finale… e boh, devo riflettere se e’ una gran presa per il culo, se era finito il budget o se e’ un finale coraggiosamente spiazzante.”
“Il finale che ti lascia di merda alla fine ho deciso che mi ci puo’ stare, ma la sensazione che manchino dei pezzi e’ forte. Pero’ non mi ha lasciato l’idea di un film furbo che complica le cose tanto per. Diciamo che siamo a meta’ strada tra “Outer Dark” di McCarthy (che di base ha una motivazione molto simile) e i misteri di certe serie tv misteriosamente misteriose.”
Leggere così troppe volte in questo articolo il nome di adam sandler mi ha fatto sentire male e in uno stato di disagio.
LOL
E dire che a un certo punto, parliamo degli anni 00, i film di Sandler riuscivano a mettermi in pace col mondo. Poi ahimè solo la Mmerda. Peccato.
Belli belli i film netflix,supermercato del cinema,cerca cerca nel cestone e in fondo troverai il filmone
Netflix cerca di far passare l’esplicitazione di contenuti come rivoluzione cinematografica, imbellettando il tutto con fotografia figa, montaggio figo e regia con la “erre” moscia ma con addosso una maglietta sudaticcia di Splatters, perché l’intellettualoide che ama il gore anni ’90 fa sempre presa. Niente di male, sia ben chiaro: Netflix rifila gli stessi prodotti da anni ormai e ,a quanto pare, al pubblico va bene così. Tuttavia lo spettatore più attento, che sia Enrico Ghezzi o Jackie Lang, sa bene che questa non è rivoluzione cinematografica, ma solo una provocazione abbastanza innocua buona solo per farsi qualche trombata di tanto in tanto. I film sono pallosi perché troppo calibrati, troppo precisi, troppo puliti; così puliti da far passare la violenza per dell’inutile spargimento di sangue e l’erotismo per dello scialbo soft porn in luce naturale. E’ questo il problema della maggior parte dei prodotti Netflix, sono solo una sequenza di bei fotogrammi che proceda per inerzia, totalmente privi di tensione, e la tensione e tutto nel cinema: è la volontà di raccontare una storia, dalla commedia più brillante al western più crudo, è ciò che differenzia “The Raid” ad “Apostolo”
Amen fratello
*é.
Dal momento che nessuno ne parla bene, anche se la recensione è possibilista, lo faccio io.
Non sono un fan del non “detto”, tanto meno di Skarsgaard (che peraltro in questo film è dannatamente efficace), però Hold the Dark mi ha conquistato: gli spunti suggeriti sono innumerevoli, la realizzazione impeccabile. Alla storia piena di buchi narrativi ma comunque “satura” non servono spiegazioni nè giustificazioni: squarciato il “velo” (che evidentemente nei pressi del buco del culo del mondo è quanto mai sottile) l’ignoto ti azzanna il culo a sangue. Non ha voce o un linguaggio comprensibile, non necessita di motivazioni: gli bastano i denti.
Detto ciò, ben comprendo chi ne detesta lo stile narrativo: magari è davvero un’opera incompleta girata coi piedi e sono io a non aver capito una cazzo.
ok però “the do-over” di sandler a me un po’ ha fatto ridere.
le palle sudate di “shottino boy” scena cult assoluta :D
non gli avrei dato due lire, e invece mi è piaciuto molto.
talmente non gli avrei dato due lire che avevo perfino snobbato il trailer, che nella thumbnail di yt mi sembrava laurence fishbourne e per qualche motivo pensavo fosse un film di fantascienza cheap.
invece non era fantascienza, il tipo era bernard di westworld e il regista era quello di green room, film che mi è piaciuto decisamente oltre i livelli della decenza.
e poi secondo me ha un sacco di cose in comune con blade runner questo hold the dark, similitudini che si esprimono bene nel volo finale dell’aereo con le montagne sullo sfondo, molto molto simile all’aeromacchina iniziale di br, poi la figura del cacciatore che sembra controvoglia svolgere il suo compito, i cattivi albini e umani ma forse no, il rapporto con l’ecosistema..
una cosa sul finale (SPOILER)
i due lupi che vediamo correre sono metaforicamente i due umani fuggitivi, ma per qualche motivo mi sarebbe piaciuto di più se i due fuggitivi invece fossero stati sbranati dai lupi. non necessariamente una scena di violenza, ma una cosa tipo che allo sciogliersi dei ghiacci trovavano i cadaveri di lui e di lei sbranati, per rendere quei lupi personaggi con un loro senso e non solo una sorta di mcguffin, e al contempo per rinnegare quel parallelismo che nasce tra la violenza ingiustificata dell’uomo sull’uomo, talmente ingiustificata da tramutarsi in pietà alla fine quando risparmiano bernard, e la violenza animale, che per quanto ugualmente feroce e spaventosa non è mai ingiustificata e non può permettersi di risparmiare nessuno. non so, mi sarebbe piaciuto e basta.
Secondo me sarebbe stato un prevedibile contrappasso. Il figo sta anche nella possibilità di ritrovarsi, qualche settimana dopo, in fila con Skarsgaard (con o senza maschera) alla cassa del supermercato…
Ho notato che nella scene in Iraq, la bandiera americana sul braccio del tizio è al contrario (la parte blu è sulla destra) e mi ero convinto che avesse chissà quale significato…invece sulla Wikipedia ho scoperto che è proprio fatta così “On the right shoulder of the ACU, the U.S. flag is depicted with the union (stars) to the viewer’s right, instead of the usual left (flag’s own right); this is to give the impression of the flag moving forward with the wearer.”
Magari è una cosa che sanno tutti? Bah.
Comunque il film a me è piaciuto.
Sono tonto io o il finale è una roba insensata? (o entrambe le cose?)
Bella atmosfera, bei paesaggi, sembra un bel film…ma poi..la parte finale..boh..
cioè..percheeeee? (pronunciato alla crozza/putignani nella parodia di linea verde di gialappiana memoria)
SPOILER:
cioè questi fanno una strage insensata, spopolano mezza alaska per cosa? per ritrovarsi e trombare nelle terme e andarsene in giro come bear grylls trainando una bara? E c’era bisogno di ammazzare tutti?
Trombare nelle terme vale la pena.
Per me molto molto bello, anche se obiettivamente ostico e un po’ troppo lento, una lentezza che spesso è comunicativa e tematica ma spesso sembra nascondere di non avere molto da dire. È sicuramente una sceneggiatura molto ermetica, che però ho trovato bella e profonda.
Ho rischiato l’orchite a vedere 2 ore e 5 min di sta noia.