
Caccia all’intruso
La Storia si ripete. Si muove come un’onda sinusoidale, compiendo lo stesso percorso e al contempo spostandosi in avanti: un progresso reazionario. Sarebbe anche bello parlare di autoritarismi – termine appositamente scelto per schivare i cazzopuntari il cui unico argomento logico è “Ma il fascismo è finito nel ’45”: come disse il bardo, una diarrea puzza di diarrea e ha la consistenza della diarrea anche se la chiami rosa canina. E vaffanculo – e del loro scoppiettante ritorno sulla scena europea, ma qua si tratta d’altro. Di cinema d’exploitation, nello specifico. Un concetto nato negli anni ’30 e che si è solidificato nel ventennio (toh, neanche a farlo apposta) tra i ’50 e i ’70. Un contenitore che gli accademici quelli bravi usano per descrivere una specifica modalità produttiva, film a budget ridotto che sfruttano temi caldi alla ricerca di incassi facili, all’interno della quale si possono isolare abbastanza tratti comuni semantici, sintattici e pragmatici da far venire il legittimo dubbio che l’exploitation possa essere considerato un genere cinematografico. Il contenitore nasce presto, negli anni ’20 e ’30, come evoluzione della natura carnascialesca e ambulante del cinema, con proiezioni di film – prodotti a costi vicini allo zero e che guadagnavano sulla vendita di opuscoli in sala – sull’igiene personale intima, che erano sia sensazionalistici (“Uuuh, ha detto pene”) sia educativi. Con l’evoluzione del mezzo e del linguaggio, si è evoluta anche l’exploitation, diventando quell’etichetta con decine di sottogeneri assurdi e magici che grazie a Roger Corman ha fatto debuttare tre quarti di New Hollywood, e che grazie a Tarantino è rimasta rilevante anche oggi. Di tutte le forme assunte dal contenitore, quella più importante è la blaxploitation nata a inizio anni ’70, formalmente con Melvin Van Peebles e l’ottimamente titolato Sweet Sweetback’s Baadasssss Song. La blaxploitation non solo ha dato rappresentazione e voce alla cultura nera e al suo vernacolo, che fino a quel momento sul grande schermo (e altrove) era semplicemente il servomuto del sciur padrun da le bele braghe (e faccia) bianche; ma ha anche dato i natali al più giusto dei fottimadre cinematografici, il detective John Shaft creato nel ’71 da Gordon Parks – che ha preso in prestito il personaggio (bianco) di un giallo di Ernest Tidyman pubblicato l’anno prima – e interpretato alla perfezione da quel manzo di Richard Roundtree. Shaft è lo stereotipo del maschio virile, macho sessista tanto quanto era concesso all’epoca, che non chiede permesso e non si scusa mai; ma è anche l’eroe della minoranza bistrattata e incazzata, che non ha fiducia nell’autorità e nel sistema (“Don’t trust The Man”) e che i problemi se li risolve da solo sfruttando un efficace mix di sagacia e mani in faccia. Una lunga premessa necessaria a contestualizzare la domanda scivolosa: come si trasporta nel 2019, l’epoca dell’intrattenimento corretto e innocuo, un personaggio che nasce con lo specifico scopo di incassare sul fomento di alcuni animi, lo shock di altri (quelli pii) e la rabbia virtuosa dei restanti (quelli stupidi)? L’exploitation si adatta, e dal momento che il tema caldo è insegnare ai vecchi gatti che esiste swag senza scorrettezza, la storia si ripete e si torna alle origini: educare in maniera sensazionalistica. Nello specifico, se sei Tim Story e vuoi accontentare tutti nella speranza di essere chiamato per il Fantastici 4 di futura produzione Disney, la tattica è quella di seguire le orme di Isaac Hayes. Che da fiero menestrello delle prime avventure di Shaft il detective – il pezzullo che accompagna i titoli di testa l’ha fatto diventare il primo compositore nero a vincere un Oscar per la Miglior canzone originale – è proseguito sulla retta via con lo Chef di South Park e quindi ha trovato scientologydironhubbard, diventando tutto d’un tratto troppo sensibile a certa scorrettezza. Sigla sapida!

Ma stavolta è fatto tutto per amore, anche il sandwich con sifilide e clamidia (cit.)
Dunque, l’ingrato compito di Tim Story e compagnia – gli sceneggiatori Kenya Barris, quello di Il viaggio delle ragazze, e Alex Barnow, già autore di Le regole dell’amore e Mr. Sunshine con Chandler di Friends. Eh? – era quello di estrarre un personaggio coltivato in un humus culturale ben preciso e strapiantarlo in un momento storico dalle esigenze diverse e più ecumeniche. La soluzione giusta e facile è quella di abbassare il volume dell’icona a dieci lasciandola più o meno uguale a se stessa, reliquia di un passato umano museale che con il carisma di Samuel L. Jackson (non Laurence Fishburne) conserva intatto lo stile, e di metterla a confronto con un figlio millennial messo al mondo con Maya (l’unica donna in una vita sessuale con ingresso a porte girevoli che Shaft si sarebbe voluto tenere) e allontanato quand’era ancora in fasce per essere protetto dalla vendetta a lungo termine del gangster Gordito. John Junior (JJ), cresciuto dalla madre amorevolmente e il più lontano possibile da Harlem, si ripresenta una trentina di anni scarsi dopo l’abbandono cercando l’aiuto del padre per risolvere la misteriosa morte di Karim, amico d’infanzia reduce di guerra, ex tossicodipendente per disturbo da stress post-traumatico e invischiato in affari loschi. JJ non sa nulla della strada, è cresciuto in quella bolla borghese privilegiata in cui (dal punto di vista del padre) ci si possono permettere debolezze come chiedere scusa permesso grazie, in cui le donne non si sfiorano nemmeno con un fiore anche quando sono “Portoricane di cui non mi fido” che brandiscono mazze da baseball, e in cui di certe parole si può a malapena profferire l’iniziale. Non il mondo a cui è abituato Shaft Senior, che a sua volta è felice di vivere nella bolla del ghetto, quel posto in cui non ci sono tante occasioni per riflettere sul modo più corretto con cui approcciarsi agli stereotipi sociali e culturali, date altre situazioni più impellenti e di stretta sopravvivenza a cui badare.

“Cos’è che non posso dire?”
Shaft abbraccia lo spirito hollywoodiano di un colpo al cerchio e uno alla botte, mostrando l’icona di altri tempi che incontra il sentire moderno e dal confronto ne esce cresciuta e migliorata, ma ancora fedele a se stessa. Poi la affianca alla dinamica speculare del millennial privilegiato che riscopre le sue radici nere e impara a implementarle per non perdere un’identità preziosa, pur senza tradire la sua natura più sensibile. Un’acrobazia che mette d’accordo tutto lo spettro dei potenziali avventori, dal vecchio nostalgico al giovane sintonizzato sui bisogni della società fino al bianco che vuole sognare quell’irraggiungibile coolness shaftiana, ma solo se coccolato dall’epurazione di tutte le spine e dalla smussatura di tutti gli angoli potenzialmente controversi (sesso, black panther e case del crack che non assomigliano a bed&breakfast in ristrutturazione). Il film che ne esce fuori è, estrapolato dal suo contesto, una commedia action divertente, linda e pinta, ripulita di ogni sporcizia narrativa ed estetica – non facciamoci ingannare dal cane sdentato che abbaia vaffanculi, figli di puttane e cazzi e mazzi vari – e che si muove con la giusta andatura, con sufficienti pizze in faccia e con la corretta dose d’azione. Che sarebbe anche un bel risultato, in un vuoto cinematografico creato in laboratorio. Ma che sfigura se messo vicino all’incazzatura politicizzata della trilogia anni ’70, al netto della consapevolezza che in entrambi i casi l’idea era quella di realizzare un film ruffiano e adeguato ai tempi. E ne esce con le ossa ancora più rotte se paragonato al sequel del 2000 scritto diretto e prodotto da John Singleton, che è stato in grado di dare a Shaft una veste nuova e al passo con i tempi cinematografici e sociali – detective da fumetto pulp che indaga su un omicidio a sfondo razziale, i cui nemici sono un Christian Bale in modalità American Psycho e un Jeffrey Wright nella sua imitazione più sopra le righe possibile di Tony Montana: gustosissimo – senza rinunciare alla portata polemica e politica che, almeno in parte, aveva ispirato la nascita del personaggio.
DVD quote:
«Questo Shaft andrà in onda in forma ridotta per venire incontro alle vostre capacità mentali»
(Toshiro Gifuni, i400calci.com)
grazie, me ne terrò lontano. Però Tim Story mi pare che abbia già dato abbastanza con i FF4 spero e confido che non gli daranno mai più niente di simile. Va bene per le comedy (barbershop).
Bellissimo pezzo comunque, complimenti.
come l’ho visto spuntare su netflix all’improvviso…ho esclamato: è na merda sicuro, e infatti…
Ho detto la stessa cosa solo che io ci ho aggiunto un paio di bestemmie random per rimarcare il concetto di “essere una merda”.
C’è una parola italiana bellissima che descrive tutto questo e che purtroppo sta scomparendo in un tempi in cui invece dovrebbe essere ripetuta in continuazione: “manierismo”.
Concordo con la rivalutazione del film di Singleton del 2000
Sigh, il refuso “in un tempi”!
Parole sante. Forse non si usa tanto perchè, appunto, ormai quasi tutto è di maniera. E il cinema regge ancora bene se confrontato, chessò, al rock
Visto e dimenticato…
beh lo shaft del 2000 me lo ricordo.. non era un capolavoro ma tra attori e regia aveva il suo perchè…quando poi ho visto quell’abominio di Black panther con tutti i peana del cazzo che si è tirato dietro mi è spuntato un punto di domanda in fronte grosso come una casa e non ho potuto fare a meno di chiedermi ma dove han vissuto i panterperbenisti fino ad oggi? Lo shaft netflixiano invece lo damo al gatto altro che alla pantera…
Come messaggio Black Panther è un film retrogrado (avrei potuto usare “reazionario” ma non voglio passare per radical chic) che è riuscito ad essere spacciato per progressista grazie al marketing virale.
Una versione supereroistica de “Il principe cerca moglie” di Eddie Murphy, con la diffeerenza che quello era una commedia
Piuttosto mi riguardo ancora e ancora Black Dynamite..
Bellissimo. Presumo sia un’altra cosa rispetto a questo ma bellissimo
Stavo per scrivere la stessa identica cosa. Ne avessero fatti 4 o 5 di Black Dynamite e invece… ??
WHADDA FUCK MAN?
Mi recupero quello del 2000, va…
Cavolo quello del 2000 l’ho zompato alla grande.
Appena finito lo Shaft del 2000 e devo dire essere un filmetto piacevolissimo. Prosegue drittissimo senza mai un calo, Jackson azzeccatissimo e manco troppo gigione che quasi mi sarebbe piaciuto si fosse abbandonato a qualche momento sopra le righe, Bale fa il viscido stronzo che credo gli venga naturalmente perfetto, per il resto c’è azione, c’è una trama che si segue volentieri e senza essere nulla di sensazionale garantisce un paio d’ore scarse piacevoli.
Aggiungo che ha uno spirito così cristallino del film di genere votato all intrattenimento senza altri grilli che ne fa volere ancora e ancora di film così.
In ultimoz una capacità di essere “leggero” senza però aver bisogno di infilare battute o scene comiche per stemperare il tutto che è cosa graditissima
Però il gimmick di usare Sam L. Jackson per la parte politicamente “” “” “” “” “” “” “scorretta” “” “” “” “” “” ” del film funziona, e infatti (ma va’?) le one liner migliori le regala lui.
Attenzione comunque al doppiaggio, perché é uno di quei casi, ho notato, in cui la versione italiana risulta ancora più decorata dell’originale (esempio: uomini usato per tradurre negri e governo usato per tradurre bianchi)
“E Shaft dà fuoco a uno spinello
Col quale affumica il governo, che
All’istante, passa all’uso di eroina
E muore pieno di overdose”