Il pezzo di Stanlio Kubrick
Cosa poteva andare storto?

«Eeeeeeh…»
Sulla carta, un sacco di cose. Richard Stanley non faceva un film (non valgono i documentari) da quando c’era ancora la lira, e chissà se gli anni, i chilometri, pure il bagaglio hanno lasciato dei segnacci sul suo talento innegabile? Sarà capace di gestire Nicolas Cage? Per quest’ultima questione in particolare vi chiedo di aspettare la parte di Nanni, ma in generale è chiaro che Color Out of Space correva il rischio di nascere già rovinato a botte di aspettative di tutt’altro tipo.
Ma poi, soprattutto: Lovecraft è infilmabile, lo sappiamo bene, figuriamoci quando il testo scelto è uno dei capisaldi dell’infilmabilità, un racconto che si basa su un concetto che va oltre le possibilità visive dell’essere umano, e tutto questo in un film?

«Ah sì, l’infilmabilità dell’ineffabile» (Un tossico alla stazione, 2020)
Ora, non so davvero se Lovecraft sia infilmabile, nel senso che anni di film ispirati alle sue opere hanno dimostrato che è possibile suggerire l’orrore cosmico senza mostrarlo, o in alternativa pescare dai suoi racconti più concreti per evitarsi il problema noto come “paradosso di Dante”. Carpenter e Paul WS Anderson sono due illustri rappresentanti della prima fazione, mentre la seconda, decisamente più ricca, comprende un ampio spettro di adattamenti più o meno fedeli che vanno da Re-Animator a Dagon a From Beyond, e sto cercando di citare solo la roba più o meno valida. Voglio dire che il mito dell’infilmabilità di Lovecraft si scontra contro l’evidenza di decine e decine di tentativi più o meno riusciti che di volta in volta abbracciano un diverso aspetto della sua opera, e che forse quello che dovremmo chiedere è il film lovecraftiano a tutto tondo, che del tizio di Providence prenda sia l’approccio da sublime kantiano all’orrore e alla presa di coscienza della piccolezza dell’uomo nell’universo, sia quello che lo portò a scrivere una versione ancora più gore del Frankenstein.
Per un qualche miracoloso e inspiegabile motivo Color Out of Space è esattamente questo film, certo con una netta preferenza per il lato più spettacolare e d’impatto dei racconti di Lovecraft ma capace anche di stuzzicare la passione per altri tipi di orrore, quello più strisciante, quell’ombra che si aggira ai margini del campo visivo e ti va di culo che non la puoi vedere per bene perché se no impazziresti. L’opera da cui è tratto è contemporaneamente una delle migliori di HPL, una delle più efficaci nel trasmettere il genere di terrore che è la sua più grande eredità artistica, e una delle più manieristiche, stilisticamente più curata del solito ma non necessariamente decisiva nella nascita ed evoluzione della sua cosmogonia. Ed è anche, come dicevo prima, basata su un’idea anti-cinematografica per sua stessa natura: un meteorite cade sulla Terra, nel giardino della famiglia di Nicolas Cage, e porta con sé un colore che non esiste in natura e che fa diventare orrendo tutto quello che tocca (è ovviamente più complicato di così, guardate il film). Come affronti questa faccenda?

Con le luci stronze.
È un po’ il dilemma a cui si era trovato davanti Alex Garland con Annientamento; lui l’aveva risolta con i lens flare e le bolle di sapone mandando un po’ tutto in vacca, Richard Stanley invece decide di puntare sul collettivo, sulla totalità degli strumenti messigli a disposizione dal cinema. E quindi sì, ci sono i lens flare e le luci stronze e un sacco, un sacco di viola, filtri viola, tagli di luce viola, viole viola, rose viola, esplosioni viola e tutto un grande armamentario visivo anni Ottanta che ritorna gloriosamente in vita in tutta la sua potenza e senza un’oncia di nostalgia (né di ironia, mi fa piacere segnalare). Ma c’è anche un intero cast al servizio della follia, in un film che può permettersi di usare Tommy Chong nel ruolo di Tommy Chong senza farlo sembrare fuori posto; tutta la famiglia Cage merita una menzione d’onore, dalla figlia satanica Madeleine Arthur, uscita dal mondo ideale di chiunque abbia ascoltato del metal in vita sua, all’adorabile coppia madre-figlio composta da Joely Richardson e Julian Hilliard, commoventi nel loro mettere in scena un legame fortissimo e indistruttibile anche di fronte all’orrore.
Più di tutto, e forse è questo che lo eleva davvero, Color out of Space è un film rumoroso, di quei rumori fastidiosi e onnipresenti che grattuggiano silenziosamente il cervello, un film di frequenze che fischiano e acufeni vari, di droni e synthoni, che urla CARPENTER ogni cinque minuti ma lo fa dall’orizzonte del 2020, non dalle spiagge nostalgiche degli anni Ottanta. Non voglio esagerare o fare paragoni irrispettosi, ma avete presente quando George Miller è tornato a settant’anni e ha fatto un film che sembrava fatto da un ventenne rampante? Ecco, Color out of Space in linea di principio è un po’ la stessa cosa, un film fatto da un vecchio una persona esperta con l’entusiasmo e le idee nuove di un esordiente convinto di poter spaccare il mondo. Che è un discorso che trascende un po’ dal sound design da cui ero partito, ma insomma, cosa c’è di più lovecraftiano del perdersi nella propria stessa mente.

WHERE IS MY MIND
Viva i meme, quindi, viva gli alpaca e Nicolas Cage, ma viva anche un film che riesce a far diventare un cazzo di colore venuto dallo spazio un’entità spaventosa e inconoscibile, quello che lo Xenomorfo era per Sigourney Weaver ma su scala galattica. Viva Richard Stanley, che quando serve non ha paura di smarmellare. E viva gli orrori cosmici, che inghiottiranno il nostro pianeta con la stessa noncuranza con cui un titolista di Libero affronta il suo mestiere.
Il pezzo di Nanni Cobretti
Durante il Q&A al Prince Charles di Londra una decina di giorni fa, a Richard Stanley è stata rivolta la classica domanda che si fa sempre ai registi horror: “cosa ti spaventa? come si fa a spaventare? qual è l’idea più spaventosa che ti viene in mente?”.
Richard ha risposto: “Domanda molto difficile, me lo chiedono spessissimo, anche per lavoro. Di solito funziona che io mi sforzo di rispondere, penso a qualcosa che per me è inquietante e spaventoso, e la conversazione finisce immediatamente lì. Evidentemente ogni volta riesco a descrivere qualcosa di talmente folle da far perdere direttamente alla gente la voglia di avere a che fare con me” (virgolettato approssimativo, non ho la registrazione della serata anche se la scienza dovrebbe fare un’eccezione e farla spuntare anche se nessuno stava riprendendo).
Fa questa figura, Color Out of Space, se lo si associa a quelle che sono le mode horror mainstream degli ultimi anni.
Va in tutt’altra direzione.
Ma Richard Stanley non è un “ribelle”: è semplicemente un pazzo vero che si è isolato dal mondo nel 1996 dopo essere stato a tanto così dal regalarci una versione malata dell’Isola del Dr. Moreau con Marlon Brando, finendo per regalare invece una delle storie produttive più pazze e leggendarie di sempre.
Quando è tornato, apposta per questo film dopo un corto e un paio di documentari di riscaldamento, ha fatto la sua cosa con candida sincerità, come se fossimo ancora ai gloriosi tempi di Stuart Gordon, Brian Yuzna, Screaming Mad George e il Carpenter migliore.
Che intendiamoci, non è un omaggio nostalgico.
Non è la ricerca filologica della stessa cifra stilistica, o strizzate d’occhio, o “usiamo lo stesso font che si usava allora” o menate del genere, oneste o meno: è semplicemente la stessa mentalità.
È questione di approccio alla materia.
È il coraggio di fare il proprio mestiere senza porsi limiti: di destabilizzare, di stranire, di inquietare e non tirarsi indietro davanti ai momenti scomodi, che siano pratici/mostruosi o anche solo emotivi.
È il coraggio di non addolcire la pillola, o ancora meglio: è l’incoscienza di chi non sa quando il pubblico di oggi si aspetta che lo si faccia.
È il coraggio di ideare e descrivere l’indescrivibile, di creare e filmare l’infilmabile.
Guillermo Del Toro ci aveva rinunciato dopo che gli avevano tolto il suo budget a otto zeri, Richard Stanley ci si è buttato con un paio di milioni scarsi e ne è uscito non solo indenne ma con l’aria soddisfatta di chi non gli servisse altro. Come una versione reale/artistica di quella famosa iperbole sul personaggio di Steven Seagal in Sfida tra i ghiacci: “quello è uno che puoi scaricare al circolo polare con un paio di mutande e uno spazzolino da denti e il pomeriggio del giorno dopo te lo trovi nella tua piscina con un sorriso grosso così e un sigaro fra le dita”.
È meraviglioso vedere Stanley all’opera oggi.
È tornato per salvarsi, e può salvarci tutti.

Siamo tutti un po’ Nicolas Cage davanti a questo film.
Il progetto comunque non avrebbe mai trovato i fondi senza l’adesione di Nicolas Cage, e se c’è un solo punto vagamente (ripeto: vagamente) debole, spiace dirlo, è proprio Nic.
Spiace perché lo è suo malgrado: è ingombrante, è difficile da gestire, e anche quando si comporta bene – e qui lo fa – si tira comunque dietro un grosso bagaglio di reputazione e aspettative quasi da diventare un film a parte.
Sulla carta sembra ovvio, no?
Color Out of Space parla di gente che impazzisce: chi è meglio di Cage a impazzire? È la sua specialità.
Ma, oggi più che mai, non solo sappiamo tutti che impazzisce ma non aspettiamo altro.
Ve lo ricordate Il furore della Cina colpisce ancora?
Bruce Lee inizia il film che ha promesso alla madre che non avrebbe mai più menato nessuno, e ovviamente sappiamo tutti che a un certo punto romperà la promessa. E non solo: sappiamo tutti che non si limiterà a tirare qualche schiaffetto, ma che ci delizierà con uno showcase di tecnica e carisma da irraggiungibile fuoriclasse.
Tanta gente si approccerà a questo film nello stesso modo: una lunga rincorsa in attesa che Nic non si limiti a impazzire come un comune mortale, ma che esploda nei suoi schizzi astratti inarrivabili e produca una nuova sfornata di meme nuovi di zecca.
Il problema è che Color Out of Space non è Mom & Dad, e neanche il rinunciatario Mandy, che partiva meravigliosamente e poi pure lui si faceva tristemente da parte lasciando Cage abbandonato a portare a casa il resto da solo. “Hahaha, grande Nic! Dai, facciamone una pesissima in mutande, fai quel che vuoi, io non stacco la cinepresa e non la tocco manco al montaggio! Hey aspetta, abbiamo trovato una spada, buttategli una spada! Vai Nic, facci vedere cosa fai con una spada, vedo già l’internet che impazzisce!”.
Color Out of Space mette Cage al suo servizio.
Non lo tratta come scimmia danzante: lo contestualizza.
E Cage ci sta.
Ma rischi di non accorgertene: non ti godrai mai del tutto una vera escalation da normale a pazzo furioso, perché sai già di avere davanti il più pazzo di tutti e in molti casi avrai pagato il biglietto apposta per quello.
È come Jack Nicholson in Shining o Wolf: una specie di spoiler umano.
È sempre più difficile oggi isolare “Nic strippa perché è Nic” da “Nic strippa perché la scena lo richiede”.
E allora il bello del film è che, invece di lasciargli le chiavi in mano, accetta la sfida a tenere il passo. Lo porta al limite, là dove tutti lo vogliono vedere, ma non lo abbandona: lo affianca, lo sostiene, risponde colpo su colpo, rilancia.
Nic distrae.
Dice, ad esempio, “vado a mungere gli alpaca”, e tu inizi a sghignazzare: “Hahahaha! Gli alpaca! Tipico Nic Cage! Li hanno sicuramente messi a caso per ridere! Perché è matto! Non vedo l’ora di fare un meme con gli alpaca!”. E poi invece – oltre che ad essere in linea con il personaggio, che già in partenza non è privo di idealistiche eccentricità o non avrebbe isolato la sua famiglia dal mondo – gli alpaca sono i protagonisti di alcune tra le scene più inquietanti del film. Ad esempio.
Ma Nic è bravo.
Ok, non aiuta quando a un certo punto decide di autocitarsi con i manierismi di Stress da vampiro, ma in generale è concentrato, sincronizzato, coinvolto e perfetto.
Così si fa.

Coppia dell’anno
Color Out of Space è uno dei migliori regali che potesse farci il mondo del cinema negli ultimi anni.
Richard Stanley sta già lavorando su The Dunwich Horror ed è giusto così.
Mandatelo dove nessun altro ha il coraggio di andare, è l’unico che può farcela.
E, comunque vada, ne uscirà qualcosa di memorabile.
Tavoletta scritta in caratteri cuneiformi quote suggerita:
P.S.: nel momento in cui scriviamo non è ancora prevista una distribuzione italiana ma siamo sicuri che in qualche modo arriverà presto. A un certo punto è una pura questione di buon senso.
da fan esagerato di lovecraft (king chi?), dico che questo film è un buon inizio di questa trilogia di adattamenti…
seguono SPOILER:
devo ammettere che hai primi due animaletti fatti in cgi (mantide, gatto) mi sono un pò preso paura…poi però fortunatamente si è tornati alla cara vecchia old school con gli alpaca e madre/figlio, ci sono comunque dei momenti un pò così tipo fuga del cavalo-figlio che va nel pozzo…ma resta comunque un gran film, con delle ottime atmosfere che quando adatti lovecraft sono praticamente tutto, cage in parte con un paio di momenti per fare il matto, penso ormai siano messi nel contratto tra le noti scritte in piccolo sotto.
certo resta il ramamrico di cosa avrebbero potuto fare con un budget un più docoroso…ma mi accontento.
Scusate, ma quando ci vuole ci vuole.
SI, CAZZO!! SI!!
Bentornato, Richard. Quanto ci eri mancato.
Gia’ il trailer prometteva meraviglie, con tutto quel viola e fucsia MALVAGI da far male agli occhi.
Oh, se quei due trovavano l’intesa pigliavano a scarpate in faccia tutti.
Ce l’hanno fatta, quei due matti.
Spero che nasca un sodalizio come tra Denzel Washington e Tony Scott.
E spero di vederlo in Italia.
Il Dio del cinema esiste.
Si sa se uscirá nei cinema (se mai torneranno i cinema, si spera)?
Il problema è quello. Prima dovranno tornare i cinema…
Cmq ad occhio e croce pronostico una distribuzione estiva
Ok, e (pandemie permettendo) allora ci sarò. Con le luci viola e l’alpaca mi avete convinto
filmone e gradevolissimo ritorno di richard stanley.
ovviamente, come praticamente la totalità delle opere tratte da romanzi/racconti (eccetto boh.. shining? blade runner?), risulta inferiore all’opera scritta.
stanley ovviamente adatta la storia ai tempi nostri e per forza di cose fa dei cambiamenti, alcuni dei quali però non mi hanno convinto. esempio:
SPOILER
verso il finale, il film sembra riallacciarsi perfettamente al finale del libro, che era stupendo. eppure, dopo che lo sceriffo e il biologo si occupano della moglie (scena quasi identica al racconto), nell’opera cartacea, mentre l’amico (che qua diventa il biologo) sta scendendo le scale per tornare in soggiorno, sente delle urla spaventose e capisce che anche il padrone di casa sta mutando. rimane bloccato dal terrore sulle scale, e quando le discende trova appunto il capofamiglia trasformato in un mostro di cenere. qua invece scende le scale e trova nic cage ancora umano, solo per vederlo ucciso poche scene dopo quando lo sceriffo per sbaglio gli spara una fucilata. non mi è per nulla chiaro perchè cambiare una scena così potente con una così anticlimatica dall’uguale epilogo.
altro esempio: nel racconto, gli alberi, la cui linfa viene infettata dalla malvagità del meteorite, agitano i rami come fossero dita e mani, senza che ci sia vento. non fanno male a nessuno ma creano un’atmosfera che ti fa cagare sotto. nel film non li si vede finchè alla fine agiscono da trabocchetto acchiappando lo sceriffo.
a questo si vanno ad unire alcune scelte che rischiano di essere involontariamente comiche, come il necronomicon.
difetti da poco che non intaccano la qualità del film, ma che onestamente non mi so spiegare.
Sta affermazione de “il libro è quasi sempre meglio del film” io la rivedrei
grandissimo grandissimo film. grandissimo. fatto da uno che non deve citare, strizzare l’occhio o cose simili, ma che sa quello che sta facendo e sa come farlo. pazzesco, mi sono divertito e stranito moltissimo allo stesso tempo. E Cage io lo trovo invece perfetto qua, perfetto. Lunga vita a questo film!
A me non è piaciuto granché. Non che abbia difetti clamorosi, anzi l’atmosfera molto psichedelica ha un suo perché. “The color…” è uno di quei racconti che secondo me stanno bene nella letteratura e non su altri media.
Purtroppo stavolta mi trovo in netto contrasto non con uno, ma con ben due recensori. E infatti c’è una pandemia in giro.
per quanto mi riguarda, ricordo pochi film così noiosi e scritti in modo così poco ispirato. L’elenco è lungo, ma mi limito a citare l’insulso idrologo e il clichettone del supernerd survivalista. Tensione non pervenuta, almeno al mio domicilio.
Speriamo meglio per i prossimi….
Un onesto b-movie, divertente ma secondo me molto lontano dall’essere un film memorabile. Non si percepisce mai lo sprofondare nell’orrore della famiglia protagonista, e anzi, complice un cast onestamente poco ispirato non ti frega davvero niente di loro, sei solo li che aspetti nicolas cage che sbrocchi per farti due risate. Diciamo che mi aspettavo un film un pò più sottile, invece quando deve fare sul serio rinuncia alla suspance per il maccosa. In mano a Carpenter negli anni ’80 questo sarebbe probabilmente stato un film della madonna.
I diritti del film sono stati acquisiti da Adler Entertainment.
film che si eleva dal sottobosco della produzione sci fi che affolla cestoni , Amazon primetv, Netflix e il www pirata (dove l’ho visto)…tutto carino però si vede che c’è del poverame di fondo ..quello di Garland a me era piaciuto molto visivamente e acusticamente …la storia andava invece in vacca con un finale più filosofico che può piacere e non piacere ma aveva un suo perché
Quando seppi del ritorno di Stanley a capo di un progetto del genere temevo che il cacchiatone fosse all’orizzonte, sia per le note ragioni di infilmabilità lovecraftiana (anche se dopo una sessantina di film tratti da sue opere non mi pongo nemmeno più il problema), che per la mancanza di “sensibilità ed intellighenzìa” di Richard come autore. Devo ammettere che la prima metà del film ha confermato queste paure tra una scrittura (volontariamente?) puerile e ad effetto gruviera e un paio di episodi di CGI imperdonabili, specie quando il resto del trucco è venuto perfetto.
Eppure non sono riuscito (forse per ragioni di cuore ma scredo più di onestà) a odiarlo come avrei dovuto. Complice il fatto che la seconda metà si lancia in una delle messe in scena più a cazzo duro degli ultimi anni, di un maccosa che è difficile persino raccontare. Ahimè, io quest’aria di Providence non l’ho proprio sentita, ho percepito anzi una sorta di Woodstock dell’orrore dove il punto più alto del film si rifà comunque alla lezione di Yuzna, Gordon e Carpenter, come se il nostro non si fosse sentito comunque ispirato da un così lungo esilio. Specie all’inizio è parso un po’ imbolsito ma, ripeto, al picco ho versato lacrime di felicità grottesca come ai tempi di Hardware.
Promosso, seppure in un campionato a parte dove i protagonisti sono registi masticati da Hollywood che giocano allo stremo e si fanno sempre largo verso la meta col coltello tra i denti. Non vedo l’ora di vedere come si giocherà i successivi capitoli annunciati, ovviamente.
Film della madonna, ci siamo persi un regista con le palle quadrate per quasi 30 anni, una vergogna. Stanley non ne ha sbagliato uno, Hardware, Dust devil e questo, un trittico coi controcazzi, grande Richard!!
Che poi, io il colore venuto dallo spazio me lo sono davvero immaginato sempre di quella sfumatura lì.
Scrivo dal treno dei pendolari da nord a sud e cerco di portare un po’ di color out of the space anche lì.
L’hai pagato il biglietto almeno?
Per il budget che ha a disposizione be per il materiale che doveva portare su schermo sembrava davvero una missione suicida. Ne esce fuori qualcosa di molto bello, incredibile se si pensa tutte le difficoltà produttive del caso.
Comunque, visti i commenti qua sopra, io dico che la recitazione è molto buona da parte di tutti (Cage ovviamente quello più sopra le righe, nonostante lo sia infinitamente meno del solito, quindi forse un pelo fuori posto) e personalmente di tensione io ne ho percepita.
Ecco un esempio di un film che ha ricevuto molte recensioni positive ma che a me non ha detto moltissimo. Ok, ci sono gli alpaca che sono davvero simpatici. Ok Nicolas Cage. Ok gli occhioni simpatici di Madeleine Arthur. E ok ovviamente un regista del quale in tanti aspettavano il ritorno dopo cotale lunga attesa. Ma a me Color Out of Space non ha trasmesso la ben che minima emozione. Regia ottima, ok. Fotografia splendida, mi ha ricordato uno dei miei pittori del cuore, Monet. Ma per il resto… Io vi ho visto il nulla. Ma codesto film ha visto recensioni molto positive e quindi io non ci capisco un cazzo. Quindi posso finalmente dire cose tipo: Toni Servillo è sopravvalutato, Elio Germano gli sta almeno tre spanne sopra. La grande bellezza fa cagare, l’Oscar lo meritava a mani basse Il Sospetto di Thomas Vinterberg. Vasco Rossi non è il rock italiano. Capovilla è il rock vero. Max Pezzali ha votato per il Fronte della Gioventù e quindi non cagare il cazzo. Giovanni Lindo Ferretti ma che cazzo ti sei fumato? ‘O Zulù spacca il culo a tutti e Fiorello non mi hai mai fatto davvero ridere.
Quando l’ho visto mi è piaciuto molto ma c’era qualcosa che non mi convinceva del tutto e mi ha fatto rimanere un po’ così.. Non riuscivo a capire ma può essere, come dice il buon Nanni, che il sopravvento della follia su certi personaggi sia un po’ smorzato dalla presenza del già folle Nicola. Comunque lo voglio già rivedere! Viva l’orrore cosmico grandi i400Calci
Concordo che il sound design di questo film è spettacolare, e forse il suo più grosso ingrediente disturbante. Interessante anche il fatto che per descrivere un “colore” indescrivibile si faccia ricorso al suono.
Non è un film perfetto, non è quel capolavoro che tanti strombazzano, ha qualche problema nella sceneggiatura che è squilibrata in qualche sequenza, la cgi certe volte veramente brutta, però ha dei pregi assoluti come regia, fotografia, suono, che sono cose che tante volte mancano agli horror attuali. Sicuramente ha una marcia in più con il suo approccio psichedelico, con la sua deriva bodyhorror, con la sua violenza esplicita ma non gore, il suo voler essere inquietante sia nel mostrare che nel non mostrare. Il problema è che negli ultimi venti anni si sono rifatti tutti prima ai giapponesi(The Ring e compagnia), poi al torture porn di Saw e Hostel, infine ci siamo buttati a pesce sull’estetica pacata della Blumhouse e ci siamo persi l’autorialità vera. Uno come Stanley che si è perso tutti gli ultimi 25 anni di adagiamento horror per continuare sulla sua strada non può che essere uno che fa la differenza.
Perdona l’ignoranza, ma che minchia è il paradosso di Dante?
Credo intendesse paradosso di Borel, che prende come esempio la Divina Commedia
Ah. Ok, grazie.
Ecco un sito del genere per guardare film gratis lì https://filmpertutti.cloud/ Questo sito è davvero meraviglioso e puoi familiarizzare con esso, difficilmente te ne pentirai.
L’edizione italiana https://www.cgentertainment.it/film-dvd/il-colore-venuto-dallo-spazio/f60090/
Ragazzi, questo film è ai limiti del ridicolo! Ma cosa avete visto?
“Voglio internet!” grida la madre, e giù a ridere.
“Parti, brutta macchina di merda” e giù a ridere.
“La nostra auto non è più con noi” ahahaah aha.
Ripeto: parliamo del Colore venuto dalla spazio? Sì? Beh, è una merda.
Per non parlare di quel fucsia stile Barbie.