Anticipando il podcast di Barbero intitolato “Quella volta che Magellano festeggiò la fine del suo viaggio intorno al mondo facendosi trucidare dagli indigeni”, celebriamo la cultura della Repubblica delle Filippine dall’alto di stocazzo; che nello specifico è un pulpito raffinato e di pregio, quello del consesso linguistico-sociale italiano in cui “filippino” è stato per anni sinonimo di “persona che spiccia le case altrui e ti spegne la luce quando cambi stanza e te la scordi accesa”. Non sarebbe bello un pezzo che finisse adesso, prima di cadere nella banalità di dire che le Filippine sono molto più di questo? No, farebbe cagare. E sì, le Filippine sono molto più di questo. Sono la terra degli yo-yo, dei coltelli a farfalla, dei karaoke innaffiati di San Miguel, dei senatori della repubblica campioni di boxe; la terra che produce più sultani del basket da campetto pro capite al mondo. I filippini parlano la lingua più swag di sempre, il Tagalog, hanno tutti almeno 50 fra zii e zie, indicano le cose con le labbra e hanno più isole, Pancrazio, di quante tu ne possa sognare dal tuo bilocale senza terrazzo in zona mobilifici a Cantù. Le Filippine sono anche nazione cinematografica a organo genitale turgidissimo. Il cinema è roba seria. Serve a sollazzare i quasi 101 milioni di abitanti del paese sparsi per più di 7600 isole, e serve anche a raccontare la vita dei più di dieci milioni di espatriati in tutto il mondo – questo non ha niente a che fare con i Calci, ma rende l’idea. È talmente importante, il cinema, che a un certo punto le Filippine si sono inventati un regista, Lav Diaz, i cui film voluminosi come una stagione dei monsoni possono essere considerati una forma di tortura per chi non fa uso di sostanze psicotrope. Poi nel 2016, come forma di par condicio nei confronti dei sobri, i filippini hanno eletto presidente mastro Rodrigo Duterte – detto Rody dagli amici, ribattezzato The Punisher dalla stampa internazionale, ma anche Duterte Harry non scherza – che ha esteso a livello nazionale la sua trentennale politica da sindaco di Davao City, la Disiplina: pena di morte senza processo per drogati e spacciatori. Dice che Duterte, nei primi due anni di presidenza, ha fatto ammazzare più di 12mila persone. Di cui 3mila abbattute dalle forze dell’ordine, mentre le restanti migliaia fatte fuori da vigilantes mascherati che poi andavano a intascare la taglia. Interi distretti delle metropoli filippine, quelli più poveri chevvelodicoaffare, si sono trasformati nel Far West. In una situazione del genere, in cui la realtà si prende giuoco di qualsiasi fantasia cinematografica, il buonsenso e la sensibilità spingerebbero verso un racconto documentario tipo questo. Se invece sei Erik Matti e vuoi onorare il significato italiano del tuo nome, ci credi fino in fondo e fai un film di menare bruttarello. Sigla!
Che poi, a essere sincero, le premesse di questo qui film a me avevan fatto arricciare lo scroto dall’emozione – al netto di una conoscenza da minimo sindacale sui pregressi cinematografici del buon Matti: un pacioccone a suo agio quando gioca con i generi da battaglia e pioniere filippino di certo cinema calciante spettacolare, ma che nella scala che va da Peter Jackson a Uwe Boll tende più verso quest’ultimo come eleganza e leggerezza nel tocco. Praticamente BuyBust prende quella zarrata al cherosene di Tropa de Elite e la aggiorna alle unità aristoteliche di The Raid. Come nel film di José Padilha anche qui c’è un gruppo di sbirri extra lusso, addestrati da zio Rody appositamente per fare strage di spaccini, che devono risanare la baraccopoli di Gracia ni Maria, nel cuore di Tondo, il barangay (borgo) più popoloso di Manila. Se in Tropa de Elite bisognava spianare la strada e lastricarla di cadaveri per rendere sicura la visita nelle favelas di papa Giovanni Paolo II, qui la storia è un po’ più prosaica e anche più semplice: c’è da stanare, con l’aiuto di una talpa, il boss delle drogherie Biggie Chen. E bisogna farlo tutto in una notte e incastrati in un ambiente ostile, come in The Raid. Solo che, per l’appunto, ci sono un paio di problemi di contesto. Nello specifico: Gracia ni Maria è un labirinto di lamiere controllato manu militari dalla ghenga di Biggie; siamo in piena stagione dei monsoni e il dottore non raccomanda di farsi i giretti nei labirinti di lamiere controllati dalle ghenghe mentre vieni anche preso a schiaffi da secchiate di acqua brodosa; la polizia di Manila è più corruttibile di un gatto domestico che non vede una scatoletta da una settimana, e in tempo zero avvisa Biggie Chen che stanno venendo a prenderlo; la popolazione della baraccopoli si è ampiamente rotta il cazzo sia delle guardie, sia dei ladri e si mostra ben disposta a imbracciare pezzi di lamiera arrugginita per sfregiare le une e gli altri confidando nella punizione divina del tetano.
Dai cazzo, che un po’ vi siete emozionati anche a voi all’idea di un film del genere. Una roba che pesca a piene mani da tensioni reali e già praticamente scritte e perfette; e che nel farlo si ispira a due film grandi a modo loro, il brasiliano per pura ignoranza arrogante, il gallese-indonesiano perché è quel capolavoro lì e non credo ci sia ancora qualcuno al mondo che abbia voglia di discuterne visto che tutti gli altri sono stati giustamente presi a capocciate sulle gengive. BuyBust, insomma, aveva fatto il grosso della fatica ancora prima di scendere fra le baraccopoli per le riprese. Cosa può andare storto? TUTTO IL RESTO, per l’anima dei missionari gesuiti scuoiati insieme a Magellano. A partire dal casting, con quel Matti di Erik (ohssì) che ha preso su la modella, VJ – Giorgia Surina, ovunque tu sia, manchi – personalità televisiva, cantante ed eventualmente attrice Anne Curtis per il ruolo che corrisponde a quello, in The Raid, di Iko Uwais. Non fraintendetemi. Non è il curriculum di Curtis a disturbarmi. A mandarmi ai matti (ohssì) è il suo curriculum a braccetto con la nozione che la produzione ha cominciato ad allenarla UNA SETTIMANA prima delle riprese per insegnarle come si menano le mani. Io in una settimana imparo, forse, tre numeri di telefono e la tabellina del 13. Sicuramente Curtis ha più talento cognitivo di quanto ne abbia io, ma in sette giorni nemmeno Goku impara a combattere. Al fianco della protagonista troviamo Brandon Vera, un cristone mezzo filippino mezzo italiano (ma cresciuto in America) che nella vita fa il lottatore di arti marziali miste e il Dave Bautista del discount, e che qui è all’esordio cinematografico. Si assomigliano anche abbastanza, lui e Dave. E Vera ha anche lo stesso bel musone da sgiandone tenero ma fabbro ferraio, solo che è proprio scarso senza alcun ritegno. E menare le mani in un film è diverso da menare le mani in un ring.
Il resto della cumpa – il leader che ci tiene un sacco, gli spacciatori tutti matti, i capisbirri corrotti, il popolino irato, gli altri della squadra d’elite che fungono da carne da macello – è quanto di meno memorabile si sia visto nel cinema d’azione degli ultimi anni. Ma poi, perché scrivi in quel modo qui Erik Matti? Perché dev’essere tutto stupido, tutto macchinoso, tutto ripetitivo? PERCHÉ 127 MINUTI DI FILM ERIK, PERCHÉ? E dire che, oltre alle premesse già descritte, ci sono una manciata di idee simpatiche in BuyBust. Il finale incazzato, politicizzato (seppur qualunquista) e distruttivo ci sta, e mentre lo scrivo accendo un cero per la famiglia Matti sperando che Duterte si confermi sereno sull’argomento. L’idea che la baraccopoli in rivolta si trasformi nel set di un film horror con zombie (gli spacciatori e gli abitanti in rivolta) che escono dalle fottute pareti è esaltante e qua e là rende l’atmosfera compressa e inquietante. Le puntate nel gore più trucido, con teste mozzate e folle giustiziate in massa con la scossa, sono molto ben accette e funzionano per creare varietà nel lungo assedio alla squadra antidroga. Ma porcatroia Erik, la prossima volta te la pago io l’interurbana per l’Indonesia e il biglietto Giacarta-Manila per uno stunt coordinator come si deve. Mi vendo anche i gatti e ti faccio arrivare un montatore che sappia nascondere gli evidenti limiti di tutte le persone coinvolte davanti alla macchina da presa. Erik, io te lo dico: al prossimo giro mi ipoteco l’appartamento e insieme scritturiamo Scott Adkins. Ché non voglio più soffrire così tanto a vedere tutte quelle belle promesse scaricate nello sciacquone della cialtroneria.
DVD-quote:
“Io forse ti voglio del bene Erik Matti, ma vai anche un po’ a quel paese”
Toshiro Gifuni, i400calci.com
e quindi non è di sicuro un BestBuy, ah, ah, ah…
Shutdemded!
Ok, è OT tanterrimo (anche se mai in realtà sui 400Calci), ma visto che nella rece hai citato Uwe Boll, su Prime Video hanno CARICATO LA TRILOGIA DI RAMPAGE… TUTTI E TRE I FILM!
Considerando che c’è anche The Raid, Prime batte Netflix tutto à niente. Quindi smetterò ufficialmente di guardare Netflix per ripicca. (non lo pago, uso l’account del fratello della mia compagna, quindi non c’è danno x Netflix).
Viva Uwe Boll !
Film depennato dalla wishlist a metà del trailer per ragioni ovvie (esplicitate con dovizia nella recensione). Gifuni, quando lascia in pace i morti, lei scrive da dio: complimenti.
“quando lascia in pace i morti”
Per la storia della muffa e Brittany Murphy?
Exactly.
Eppure quella battuta fu geniale. British quanto (non) vuoi, ma geniale.
“[parlando della muffa] certamente quella roba lì che fa andare a mario il cibo, infesta le pareti e potenzialmente uccide Brittany Murphy.”
Al 100% non fu la muffa nera a stroncare la sfortunata Murphy. Fu la madre dell’attrice ad intentare una causa al costruttore della villa (precedentemente di Britney Spears) aggrappandosi alla supposta e mai dimostrata scientificamente letalità della muffa nera.
Il buon Gifuni non aveva sfottuto la Murphy, bensì la madre.
Lo avevo intuito, ma dall’autore della presente, esemplare recensione, avrei preferito una forma più sagace e puntuale. Per parte mia, evito di sfottere anche i parenti stretti dei morti…
Recensione perfetta per rendere l’idea, ma un pò irrispettosa nei confronti di Tropa de Elite che è un cazzo di stracapolavoro vero (a differenza della merdaccia del 2, che probabilmente hanno fatto solo per lavarsi la coscienza dopo che gli intellettuali col maglione e gli occhialini avevano definito “fascista” il primo)
hahahah, l’incipit su Magellano è belliffffimo, lo riciclerò ad oltranza!
(ps: solo chi sta provando in questi giorni a loggarsi sul rockstar social club può capire appieno L’ORRORE di dover risolvere un captcha)
Sì hai ragione,
attori cani e stunt così così, ma violenza e l’angoscia a pacchi.
Brandon Vera per me promosso.
E la cattiveria con cui vengono eliminati i vari sbirri non c’è neanche in The Raid
Per un calcista è un film da vedere
SPOP!
(onomatopea della pipa in radica da critico che mi esce dal culo)
Non riesco a bocciarlo come è stato fatto qui e sul sito della bonanima di Roger Erbert. Ha solo la colpa di venire dopo Dredd, The Raid, Tropa De Elite e, per certi versi, Old Boy.
– Troppo, e inutilmente, lungo (il film inizia di fatto dopo mezzora).
– Il personaggio di Manigan è meno che monodimensionale (siamo in zona Geometra Calboni)
– Il “messaggio” finale è di una banalità disarmante e dopo 1 ora e mezza di pugnetti e sparatorie te ne frega meno di un cazzo (immaginate un documentario sugli allevamenti intensivi di maiali che si chiude con: “Comunque sulla carbonara ci vuole il guanciale!“).
TUTTAVIA…
… è di una cattiveria, violenza e ignoranza che deve essere quantomeno degna di attenzione da parte di chi ama i film action.
Recensione divertentissima, complimenti a Giffoni. Il film è un po’ così con quella pioggia un po’ così per noi che c’abbiamo il ponte Morandi, ma ho visto di peggio.
Visto per caso e apprezzato. Ammetto però che sono di bocca buona davanti a titoli del genere, quindi il mio giudizio vale come il due di bastoni con la briscola a denari.
Violenza estrema, angoscia, buio, acqua, umidità, sudore,… Ma pure puzza forte di poverata portata a casa con le unghie e una lunghezza inconcepibile per una pellicola del genere. In mano ad altri con più professionalità staremmo parlando di un gioiellino che rifà, capendo, i grandi. Lei, la Curtis, in alcune scene è credibile, in altre palesemente inadatta. Vera invece non l’ho trovato così male. Anzi.
Personalmente il finale non mi è dispiaciuto e ha un senso sia nel film, sia se paragonato alla vita reale.
1) Al video iniziale per essere perfetto mancava solo la chiusa “Tanti auguri da questo ragazzo, un po’ stagionato, ma con il cuore, sempre, giovane!” e poi la risata del Cocchiere di Pinocchio. E bàm! Capolavoro!
2) #teambarbero #spranga
3) Quello della cit. sarebbe Orazio, non Pancrazio… probabilmente era una battuta e non l’ho capita?
Magari la battuta era questa: https://it.wikipedia.org/wiki/Pancrazio
Mettere Tropa de Elite dei Tihuana è stato un gesto di pertinenza, ma resta l’emozione nuda e cruda della canzone e di tutti i ricordi che porta. Ben fatto. Quanto alla rece, mi ha avvisato in anticipo di quali sono i guai in cui può imbattersi lo spettatore, ma paradossalmente non mi ha tolto la curiosità di vederlo. Sembra un film cattivissimo. Su Tropa de Elite, a me la polizia fascista non è mai piaciuta (sono anarchico), ma bisogna anche saper capire gli ambienti. Le Filippine, ho degli amici che venivano da lì, era un porto franco per qualunque prepotente: a me i modi di Duterte non piacciono, sono spietati, ma qualcosa di rumoroso andava fatto. Dove due anni fa c’erano capanne e strade fatte di fango, con animali morti e rifiuti lungo la via, oggi ci sono asfalto, lampioni e fogne. Nulla giustifica tanto sangue, ma come nel caso del BOPE, occorre capire la situazione: in TdE alla fine non è polizia fascista, è buoni contro cattivi, alla fin fine.
“sono anarchico”
Ahahahahahahahahahahahahahahahahahahahahahahahahah a h s haha g agagsgahahaassjahahahahahagahah a h a hagahahahahsh!!!
Sicuramente puoi ben dirti un simpatico umorista, dai…
Non l’ho capita
Allora te la spiego, anche se temo il chiarimento risulterà assai simile a un dialogo fra sordomuti: se avessi almeno un’infarinatura superficiale riguardo il concetto di Anarchia come categoria di pensiero prima ancora che mera ideologia politica, o almeno ne condividessi gli assiomi di base relativamente all’interpretazione del conflitto sociale, ti guarderesti bene dal pensare ciò che dici sulla polizia solo quando è “polizia fascista”. Capisco che in tempi come questi faccia parecchio fico dirsi “anarchico” sperando che basti l’aggettivo evocato a trasformare un qualunquista in “antagonista”. Ma le parole sono importanti, anzi “sono azioni”, come diceva qualcuno che farebbe un triplo carpiato nella tomba a leggere quello che hai scritto, giusto perché la polizia è il mastino del Potere a prescindere dal colore che quest’ultimo sceglie per la sua bandiera. Anarchia non significa “non allineamento”. Non significa uscire dal dibattito politico né avere il diritto di commentarlo “da fuori”, forti di chissà quale alterità. Se non ti schieri da una parte della barricata, assai probabilmente SEI la barricata.
Stammi bene.
p.s.
Se anche questo commento ti insulta, magari inconsciamente è di un insulto che hai bisogno, benché io proprio non ne veda nelle mie parole.
voto Werner.
Mi ha insultato il tuo tono sferzante. Di per sé possiamo parlare. L’anarchia è molto più vasta di quello che hai detto tu. Se ti studi bene i libri di chi ne ha trattato, e ti fai spiegare Kropotkin da un madrelingua che l’ha letto in originale, capisci che il vero senso dell’anarchia non è quello che hai detto tu, ma la possibilità fluida di reinventarsi completamente e fare uso di qualunque modello faccia al caso nostro, purché esso sia consapevole dei rischi impliciti nell’esercizio di una qualunque forza. L’anarchia è fondamentalmente coscienza dei rischi intrinseci in ogni modello conclamatamente tale, in ogni esercizio di forza, anche solo moralmente coercitiva, che spinge verso la riconferma di quel modello. Quello che descrivi tu è un vuoto antagonismo allo stato senza il minimo concetto di un “dopo”: una volta che hai distrutto lo stato, come gestisci 8 miliardi di umani? L’Anarchia per come la pensavano Bakunin e Kropotkin era soprattutto critica avveduta tanto al modello capitalista quanto a Marx, ma ancora più alla base, era coscienza del fatto che ogni modello diventa pastoia. Ma una volta che abbiamo distrutto le pastoie, non solo legali ma mentali, resta il libero arbitrio di 8 miliardi di umani, molti dei quali troppo stupidi per usarlo bene: di conseguenza, una forza di vigilanza dovrà continuare ad esistere, pur evitando che essa si gestaltizzi in un “potere”. La via migliore sarebbe la pressione sociale, la collaborazione tra umani, ma l’esercizio della violenza è intrinseco nella razza umana e ignorare il fatto che esisteranno sempre persone con lo spirito del mafioso, non è anarchia, è pia illusione, e poiché la violenza è intrinseca in noi, occorre averne coscienza, e prendere provvedimenti. Vedi, se tu avessi davvero studiato l’anarchia, sapresti che essa è un concetto tanto sottile quanto il Tao cinese. Si basa sul rifiuto di creare un leviatano hobbesiano, non sul rifiuto di qualunque norma. E il leviatano non è tanto la società conclamata, quanto un atteggiamento gestaltizzante dei modelli, un riconfermare e indurire, frutto del bisogno umano di reagire all’incertezza con l’accumulo di risorse: e fu tale base psicologica a produrre il capitalismo. Anarchia vuol dire istruire spiritualmente gli umani affinché reagiscano all’incertezza in modo diverso dall’accumulo capitalistico pseudo-rassicurante, così che non sentano più il bisogno di sbronzarsi con paroloni come “ordine e disciplina”. Ma il mondo che verrà dopo, o che verrà nel frattempo, non può illudersi di basarsi sul pacifismo. E finché servirà la violenza per mantenere la pace, occorre qualcuno preposto a farne uso. Oppure anche no, possiamo vigilarci reciprocamente, ma il problema non è la polizia, è il potere.
Condivido, anche a me è piaciuto. Fa solo un pò ridere la premessa che li porta nella favela (davvero è una buona idea andare in quel dedalo di notte ed in quelle condizioni?). Avrebbero dovuto un pò accorciare le parti in cui la gente si sparacchia a caso, allungano il brodo ma non aggiungono niente