Per la sempre attuale rubrica esticazzi: non mi piace il calcio e non me ne frega neanche tanto. Ne ho spesso compreso il fascino, ma non l’ho mai accolto; non ci ho mai giocato, non tifo per nessuno, allo stadio ci sono andato una volta solo perché mio zio aveva i biglietti gratis per il derby del cuore, e quando guardo una partita mi sento come uno di Springfield davanti a Messico Portogallo. Eppure, in quel periodo che va tra la tarda infanzia e la pre-adolescenza (diciamo 9-12 anni) ho avuto un particolare feticcio per l’Almanacco illustrato del calcio della Panini – la mia edizione prefe: quella del ’96 con Gianfranco Zola in nazionale sulla copertina, memento di un trauma che anche un non calciofilo può comprendere. Lo compulsavo ossessivamente e ogni volta che facevo la cacca era lì, pronto ad accogliermi e accompagnarmi nel momento del bisogno. Adoravo l’Almanacco perché raccoglieva una collezione infinita di statistiche e palmarès, che sono robe per cui vado matto: masse critiche di dati sovrastrutturali che occupano uno spazio immenso senza valore informativo, curiosità fini a se stesse, masturbazioni anali del cervello. Anche se rimango convinto che essere a conoscenza dei sette scudetti vinti dalla Pro Vercelli un giorno potrebbe salvarmi la vita.
Le statistiche, le classifiche, i palmarés, gli albi d’oro, i pollici, gli alluci, i cazzi e i mazzi sono pratiche tanto inutili quanto esteticamente appaganti. Danno al caos un’impressione di ordine, sono le Marie Kondo delle informazioni superflue – lo sapevate che lo zar Igor Protti e Tatanka Hübner sono gli unici due calciatori ad aver vinto la classifica dei marcatori in serie A, B e C1? #Alive si inserisce nel discorso perché una delle cose più interessanti che lo riguardano è il palmarés, dal momento che (per qualche giorno) è stato il film più visto su Netflix un po’ in tutto il mondo ed è tuttora l’undicesimo film più cliccato dell’anno sulla piattaforma – lo riporta il KoreaTimes, che a sua volta l’ha preso da questo aggregatore di dati sullo streaming globale qua. Ora, prima di emozionarvi per un horror che entra nelle classifiche dei film più visti su Netflix sappiate che, prima di #Alive, il film più colpito dai cursori era sua bruttezza reale The Babysitter: Killer Queen. Siamo d’accordo che quella classifica lì delle cose più viste su Netflix non fa, qualitativamente, troppo testo. Inoltre sapete cosa succede a riporre la propria fiducia in un film che ha un titolo-hashtag? Succede che fra vent’anni ve lo ritroverete invecchiato male tanto quanto la Sigla!
#Alive è un film scritto da un tale Matt Naylor, adorabile infingardo da competizione che è riuscito a vendere la stessa sceneggiatura a due produzioni diverse – la versione americana si chiama Alone, ha per protagonisti Donald Sutherland e un tizio che faceva Teen Wolf su MTV, è diretto da uno che si fa chiamare Johnny Martin (cinque euri che è un nome falso), e uscirà fra pochi giorni in straight-to-video (e che quindi non dovete confondere con Alone del nostro amico John Hyams). #Alive è diretto da un esordiente che si fa chiamare Il (nome e non articolo) Cho e che, insieme al manigoldo Naylor, ha messo mano alla sceneggiatura, ritoccandola per adattarla al mercato coreano. Ha aggiunto un hashtag al titolo, per esempio, che ben si sposa a un protagonista che si chiama Oh Joon-woo e che nella vita, con lo pseudonimo di Morris62, fa il gamer barra youtuber barra persona che sa come si usano gli hashtag. Un bel mattino Joon-woo si alza alla buonora, con mamma papà e sorella che sono già usciti, si mette al computer per farmare e, prima ancora di realizzare che gli bastava una sola acca al posto di una O per essere John Woo, i colleghi gamer lo avvisano che nella zona della città in cui abita stanno succedendo le cose brutte. Le cose brutte sarebbero le torme di zombie – siamo nella categoria degli abbastanza stupidi ma anche abbastanza veloci – all’arrembaggio dell’enorme complesso di appartamenti in cui vive il protagonista. E qua siamo subito a un bivio: al netto di un’ambientazione del genere – alveari urbani che si sviluppano in verticale, con tanta gente e pochi spazi – le uniche opzioni che hai per un film di zombie sono quella giusta, la mattanza all you can kill dei tonni non-morti, o quella sbagliata, il temutissimo dramma da tinello zombie.
Il Cho ha spuntato la scelta numero due, si è recuperato un paio di attori tra il brava (la fazza da k-drama Park Shin-hye) e il bravone (Yoo Ah-in, che si è da poco scagliato sul mercato dei films d’autore lavorando per sottrazione nello splendido Burning di Lee Chang-dong), li ha imprigionati in altrettanti appartamenti uno di fronte all’altro, e si è messo a raccontare cosa succede alla gente quando rimane intrappolata in 50 metri quadri mentre fuori impazza l’apocalisse zombie di quartiere e pian piano cominciano a finire il cibo, l’acqua, le tacche del telefono, i membri della famiglia sopravvissuti, il lievito, il filo interdentale, l’ammorbidente, la brillantina, le batterie della radio a transistor, i dischi di Little Tony e via discorrendo. Joon-woo, per esempio, quando comincia a rimanere senza cibo e acqua, se ne esce con almeno tre idee geniali: creare un hashtag (#io_devo_sopravvivere), sbronzarsi a stomaco vuoto con l’alcol buono di papà ricavandone un brutto trip, svegliarsi e tentare il suicidio per impiccagione. Viene persuaso dalla dirimpettaia Yoo-bin, sana portatrice del primo messaggio del film: il calore umano, di qualsiasi tipo, è meglio della solitudine. Aiutatemi a dire grazie al cazzo.
Per il secondo messaggio del film, quello che chiude il circuito aperto dal titolo-hashtag, bisogna aspettare il finale. E per arrivare alla conclusione bisogna sottostare a una parte centrale di racconto fatta di tensione senza tensione. Ché #Alive è uno di quei film che funzionano appieno solo se decidi di credere che i protagonisti siano sul serio in pericolo, solo se hai davvero il dubbio che possano farcela ad arrivare incolumi alla fine. Vero che la sospensione dell’incredulità è una faccenda personale che varia da spettatore a spettatore. Ma qui, oggettivamente, viene guastata dalla scarsa attenzione ai dettagli prestata da Il Cho e da Naylor, specialmente in tutte le faccende zombie che esulano dal tinello della disperazione. A una certa, i due protagonisti decidono che è il caso di provare a salvarsi raggiungendo l’ottavo piano di uno dei condomini, apparentemente non frequentato da morti viventi cannibali. E niente. Partono armati di rampone lei e di mazza da golf lui e ce la fanno nel giro di tre minuti. Due umani non avvezzi al combattimento aggirano facilmente orde di zombie brandendo degli stuzzicadenti. A cosa devo credere io, in quanto spettatore? Che il resto degli abitanti della zona, soccombuti in tempo zero all’invasione non-morta, siano una manica di decerebrati (ohohoh)? O che i miei due protagonisti siano, solo ed esclusivamente in quanto tali, immuni al morbo della morte e destinati a sopravvivere? Io non lo so e non voglio dirlo, ma tutta questa pigrizia qui quando scrivi un film, il culo pesante che ti blocca dal levigare un dettaglio che aiuta a tenermi un attimo in più sulla punta della sedia, mi mette il dispiacere.
Che poi #Alive, oltre ai due bravi protagonisti, qualcosa di buono ce l’ha. Dura un’ora e mezza, per esempio: dritto al punto senza ciurlare troppo nel manico. Poi è sicuramente il film preferito dal sindacato comparse della Corea del Sud: ce ne sono un sacco e si saranno sicuramente divertite un mondo a zombeggiare tutto il giorno sul set. Per gli amanti del genere, inoltre, è anche un bel testo nostalgico che – solo fatalità: il film hanno finito di girarlo lo scorso dicembre. O forse sapevano già tutto?!1! – riporta alla memoria i bei momenti della quarantena, quando si cantava Toto Cutugno al balcone e si chiamavano gli sbirri per denunciare la gente per strada che passeggiava i cani impagliati. Solo che poi #Alive si conclude con un insensato peana che incensa la fondamentale importanza, ai giorni nostri, dei social network e di come gli SOS su Instagram abbiano salvato più vite della penicillina, o qualcosa del genere. E niente, a me queste robe fanno salire un rigurgito luddista.
Dvd quote:
«Hashtag speravo meglio»
Toshiro Gifuni, i400calci.com
Toshiro, la sigla ha avuto un effetto Madeleine per me che all’epoca restavo su Rete A (o era già All Music?) delle ore solo per aspettare che apparisse la tastierista (per cui avevo una cotta pre-adolescenziale): ho rifatto la stessa cosa oggi, ma mettendo il muto, perché proprio non si può, signori
Per quanto riguarda il film: ma veramente c’è l’hashtag nel titolo? Per carità, i protagonisti saranno pure bravi, ma non voglio prendere un’altra incoolata come La babysitter II. Passo ben volentieri
Siamo su due pianeti differenti , questo è tranquillamente guardabile l’altro è andare a sniffare la monnezza a ferragosto.
“La gente per strada che passeggiava i cani impagliati”: sublime!
Porca vacca, non so come mi sia venuto in mente di vedere sto film e contribuire alle statistiche di cui sopra: un’ora emmezza buttata nel cesso.
La trama, finale a parte che non conosco, mi sembra rubare tanto da un capitolo di World War Z. Il libro, non quello schifo del film
Mi sono sempre chiesto “soccombuti” fosse corretto. Secondo Google e Wikizionario sì, mentre incredibilmente Word lo segna errore e suggerisce un improbabile “soccombiti”.
E comunque quando tra i pregi di un film si cita che dura il giusto secondo me non è un gran bel segno.
Onestamente a me è piaciuto. Considerato il budget e che la gran parte del film è retto da solo due attori, che non parlano e stanno in soli due ambienti, direi che è stato fatto un bel lavoro. Avercene di film così… Come sempre il cinema Italiano gli spiccia casa alla a quello Coreano.
pensa che ho citato quella canzone dei gazosa proprio oggi.
ebbene si ho commentato solo per dire questo
tinello alla italiana e zombie … la peggiore accoppiata possibile
Non è neanche lontanamente un capolavoro ma l’ho trovato un film piacevole
La cosa che più mi ha dato fastidio, tra le tante , è che passano minimo venti giorni e lui ha il capello paro paro al primo…
Recensione spassosa.
Il film è una merda coreana.
Aridatece The Wailing.
Ho fatto un haiku?
a te invece piacerebbe se i coreani dicessero a noi italiani che i nostri film sono solo merda?? In quel caso avrebbero ragione🤦♀️😑😡
Ho preferito di gran lunga “La notte ha divorato il mondo”, che pure mena tanto per il manico sulla reazione del protagonista e sul drammone, ma con gli zombi ci va giù più pesante (tralasciando il finale magari) e crea assai più tensione e ansia.
Infatti leggendo la trama e il “mood” quello è il primo film che viene in mente, che pure era guardabile ma nemmeno sta gran roba. Questo, a partire dall’hastag nel titolo, mi respinge proprio…
Del film mi importa una grossa sega, Sono venuto qui solo per dire
Igor Protti è il capo degli ultras!
Grazie della Rece, mi ha gustato molto e rallegrato la giornata che di questi tempi non è poco
A me è piaciuto, avercene di film così che in un’ora senza tanto cazzeggio vanno al punto, e poi le robe “tutto retto dagli attoronihhhh” mi gasano.
Concordo sul messaggio finale che bleha.
l’avevo visto su kissasian qualche settimana fa, la parte iniziale non è male ma appena decidono di salire insieme ai piani alti le scene in cui scappano dagli zombie sono fatte veramente male e ammazzano tutto
Mi piace tantissimo il film,ma soprattutto i personaggi ❤😊😁😜💖🌹🤳