Nel 1971 si formarono nell’Essex i Dr. Feelgood, vati del pub-rock inglese; credo che mai una band sia caduta così a pennello per la sigla di una mia recensione come loro per Get Carter, dato il contesto di periferia depressa e lavoratrice britannica di cui erano emanazione e suono, col loro R’N’B secco, anfetaminico e martellante, ben prima del (più borghesuccio) punk inglese di lì a venire. Il loro è il Rock’n’Roll livido di un’America reimmaginata dal bancone di un pub inglese quando sei in sussidio di disoccupazione, perfetto per il film di Mike Hodges che cinquant’anni fa ripensò il noir americano/chandleriano su coordinate inglesi e disperate.
Nel 1971 l’Inghilterra vede terminare gli accordi economici di Bretton Woods e con essi cominciano a sfumare anche i cosiddetti Trenta Gloriosi; di lì a due anni il Regno Unito si troverà a fronteggiare la più grossa crisi dal dopoguerra, quella crisi composita che dal 1973 si protrarrà per tutto il decennio, culminando nel governo Tatcher, con i tumulti della classe lavoratrice che ne conseguirono e che si trascinarono fino a metà degli anni ottanta; la Swinging London era andata a farsi fottere, in buona sostanza. L’edonismo, l’allegria e l’ottimismo che caratterizzarono la società inglese degli anni sessanta erano svaniti nel dolore e nello smarrimento come una bruttissima sbornia al pub. Questo a Londra ma ancora di più nelle piccole città, in posti dove a malapena erano arrivate quelle istanze; lì c’era un’ Inghilterra dimenticata dal benessere e che stava gonfiandosi di disagio, povertà e rabbia, in un decennio nascente dominato dall’individualismo e dal collasso progressivo delle strutture sociali, lì c’era un’Inghilterra alla deriva e pronta a esplodere.
“Non vedevamo più la nostra nazione come un faro di prosperità, di legge e ordine. Il nostro parlamento, la polizia, la stampa, tutto il dannato sistema si era scoperto a smaniare. Avevano tutti i loro nasi infilati nei soldi. Il cancro dell’ingordigia aveva raggiunto ogni organo della società britannica. Forse, dico forse, Get Carter potrebbe essere stato una fortuito presagio?
Mike Hodges
È quindi all’alba di tutto ciò che arrivò nelle sale Get Carter, diretto da Mike Hodges, inconsapevole del suo potenziale per i posteri ma abbastanza conscio di sé da proiettare alcune inquietudini del suo tempo in maniera voluta e chiara, tanto che ancora oggi, a cinquanta anni esatti alla sua uscita, ce le restituisce con dovizia, rimanendo il film gelido ed elegante, spietato e amaro che era al suo esordio. Per questo anniversario importante è il caso di dare un’occhiata approfondita a questo film incredibile, indefinitamente sospeso tra noir, drammatico, azione e commento sociale, un film che ha consolidato, meritatamente, negli anni uno status di culto.

Lo status di culto
Partiamo dal protagonista titolare e fulcro di tutto, il punto di vista e termine di paragone con cui si soppesa tutto il film.
Jack Carter era un ragazzo di provincia da giovane, povero e presumibilmente affamato di vita e guadagni che andò come molti nella sua situazione nella “grande città” per svoltare e, come tanti di qua e di là dell’oceano, lo fece diventando un gangster. Adesso è un pezzo grosso del clan criminale dei fratelli Fletcher, ora è un uomo benestante, ben vestito, che gestisce la sua attività come un business qualsiasi: in giacca e cravatta e con scrupolosa metodicità, anche se si tratta di uccidere. La sua “quieta” normalità viene bruscamente interrotta da un evento imprevisto: la morte del fratello Frank, su a Newcastle, la sua città natale, apparentemente schiantatosi in auto mentre guidava in stato di ebbrezza. La storia e le circostanze non convincono Carter e la polizia locale è anche meno convincente nella sua versione, notoriamente corrotta come è; quindi decide di tornare a casa e indagare per conto suo e a modo suo: pestando i piedi a tutto il milieu criminale locale e imbarcandosi in una rivalsa, metodica, discreta e spietata come si conviene a un pragmatico ed elegante gangster della grande città ma cieca e autodistruttiva come una qualsiasi vendetta personale.
Era un racconto devastante, conciso in ogni senso, senza un briciolo di sentimentalismo. Proprio come mi piace scrivere e fare i film.
Mike Hodges sul libro di Ted Lewis
La gente tende a dimenticare che, essendo cresciuto a Rotherhithe, io avevo conosciuto dei veri gangster e che sapevo benissimo che non erano come quelli che si vedevano nei film. Nei film inglesi precedenti Get Carter, i gangster sono rappresentati come stupidi o divertenti, ma io sapevo che entrambe le cose non erano vere; i gangster non sono affatto stupidi e tantomeno sono gente divertente (…) Parlai con un sicario, mi ispirò per delineare Carter, capii che non doveva essere mostrato come una macchina. I criminali devono pagare le bollette, mandare i figli a scuola, hanno mogli. (…)Carter ride, piange, è a suo modo un uomo ordinario ed è questo che lo rende terrificante. Incontrai vari delinquenti dopo l’uscita del film e tutti mi dissero detto che avevo fatto un gran lavoro nel mostrare Carter prima come uomo e poi come criminale.
Michael Caine su Jack Carter

iconico
Caine fu l’investimento del produttore Michael Klinger che, assicuratosi i diritti del romanzo “Jack’s return home” di Ted Lewis, volle un nome di grande richiamo su cui investire il grosso del budget per la sua trasposizione cinematografica. Nominalmente la scelta di Caine andrebbe bene già per questo motivo, essendo questo una delle giovani star inglesi di maggior successo in quegli anni, ma si carica di sfumature ulteriori perché era anche uno dei protagonisti proprio di quella swinging London che aveva caratterizzato la percezione dell’Inghilterra per molti anni e che l’aura mortifera del film andava a seppellire. La figura di Carter viene studiata nell’aspetto e nei modi in maniera minuziosa da Michael Caine, forte sì della sua osservazione giovanile della criminalità locale a Rotherhithe ma anche di una rinnovata analisi dal basso, nei locali e nelle strade londinesi dove era un habituée e dove i gangster erano quasi dei personaggi pubblici. Il suo Carter è realistico, senza alcuna idealizzazione, è freddo perché non può permettersi empatia, parla poco perché non gli serve, se deve stenderti cerca di usare un pugno solo e se deve farti fuori preferisce e farlo in fretta, senza trambusto, senza coreografie e con meno rischi possibili; per lui la violenza è uno strumento di cui servirsi alla bisogna, dosandola di conseguenza. Carter è un uomo pragmatico, distaccato per necessità che si ritrova animato da una motivazione squisitamente umana, “di pancia” e che cozza con il suo abituale distacco; se da una parte è facile immedesimarsi con la sua vendetta personale, dall’altra Caine rende il personaggio così distante e sgradevole, da rendere parimenti difficile provare empatia, realmente, con questo. Quello che mi ha sempre colpito del personaggio è l’ambiguità sulle sue motivazioni, il non far capire mai realmente quanto la sua vendetta fosse motivata dal reale affetto verso un fratello che non sentiva mai e con cui aveva dei trascorsi anche scomodi e quanto, invece, fosse una brutale ritorsione per non lasciare impunito l’affronto personale dell’aver toccato la sua famiglia, dell’aver tentato di raggirarlo, insomma quanto fosse per una viscerale fratellanza o per una più prosaica lesa maestà. In ambedue i casi siamo dalle parti della tragedia classica.
“Ero strabiliato dalla seconda stesura della sceneggiatura. Jack Carter è talmente un pezzo di merda! Non credo che qualcuno, oltre me, fosse disposto a giocarsi la carriera interpretandolo.”
Michael Caine sul personaggio
Nella miseria sconfortante dell’Inghilterra del nord, depressa e abbandonata al suo destino, quindi, Jack Carter arriva -anzi, ritorna- e la attraversa come un “principe sangue blu dell’annientamento”, per citare il Nanni sbagliato. Determinato e di poche parole, inguainato in un completo sartoriale e intabarrato in un impermeabile scuro doppiopetto, Carter è sobrio ma con tutti quei dettagli che dichiarano la sua sicurezza e il suo livello, se notati. Per il look di Carter, Caine si rivolge a una stella della sartoria londinese: Douglas Hayward, sarto di attori, banchieri e gangster a Mayfair e che fungerà addirittura come ispirazione per il personaggio di Il sarto di Panama di John Le Carrè
“(La sua) era sartoria eccellente senza essere appariscente. Non ti importava che non venisse notata, tu lo sapevi. Lo capivi, non era per nessun altro: era per te.”
Michael Caine su Douglas Hayward
principe sangue blu dell’annientamento
Così vestito, Carter, per quanto sobrio, non passa di certo inosservato nei bassifondi di Newcastle e ai rozzi criminali di provincia il suo aspetto da banchiere manda un messaggio: “Jack è tornato in città, ora è lui il pezzo grosso, non si nasconde, non ha paura e sta venendo a prendervi”, un paio di gemelli d’oro grandi come come un cracker Ritz e un Rolex day-date, anch’esso d’oro, infrangono brevemente l’understatement del tutto e sottolineano il messaggio. Il lavoro fatto sull’aspetto di Carter è importante quanto quello fatto sui suoi modi e i due aspetti assieme creano uno dei personaggi del cinema crime più iconici di sempre: elegante, inesorabile, spietato ma abbastanza spregevole da spezzarne il facile fascino. Elegantemente vestito e inesorabilmente motivato, Jack Carter si addentra così nel sottobosco criminale di Newcastle, sempre più duramente, in un montare di personaggi, luoghi e circostanze sempre peggiori, facendosi largo tra essi con crescente violenza… E con una, ormai celebre, doppietta da caccia.
Questo ci porta a un altro degli elementi cruciali del film, quasi un coprotagonista: i suoi luoghi.
Il romanzo di Ted Lewis ambienta il ritorno a casa di Carter nella piccola città di Scunthorpe, importante e deprimente centro siderurgico inglese, ma Hodges corregge il tiro spostando la vicenda in un posto simile ma che esasperasse visivamente tutte le caratteristiche che rendevano Scunthorpe deprimente, un posto di cui aveva colto il disagio sociale che andava crescendo: Newcastle e la sua zona costiera.
“Quando per i sopralluoghi mi imbattei in Newcastle capii che era lì che volevo girare. Era una città così incredibile visivamente, non sembrava una città inglese, sembrava la periferia di Chicago o di New York (…) Capitai in una città in violenta trasformazione. Era un posto che in qualche modo catturava il cataclismatico sgretolamento che lentamente stava accadendo alla società inglese ma che era ancora invisibile ai suoi abitanti”
M. Hodges sui luoghi del film

nella splendida cornice
Il finale del film, vero apice visivo della tragedia umana che questo è, si svolge nella infernale spiaggia di Blackhall, poco distante da Newcastle: una spiaggia resa nera dagli scarichi dei frammenti del carbone per la lavorazione dell’acciaio, un luogo lunare con un mare grigio, dove gli uomini si ammazzano, pazzi di rabbia, mentre le carrucole arrugginite dell’impianto continuano incuranti a girare e a scaricare detriti neri. Da questo si potrebbe dedurre che ci sia stato un deciso intento estetizzante dietro al film, ma si sbaglierebbe nel farlo. Per quanto ogni film è un cimento estetico, a vario titolo, in Get Carter tutte le energie furono tese più al documentario che ad altro: squallidi magazzini, fatiscenti lotti a schiera, ciminiere a distesa, losche sale da biliardo, enormi navi cargo a mutilare l’orizzonte del porto, erano tutti lì davvero.

la briosa Newcastle
La vera Newcastle e i suoi tristi dintorni sono come una linea di basso costante per tutto il film, lì ben presente a tenere, senza sforzo, il disagio vivo e costante per tutta la durata del film. In questo perimetro opprimente si muove un’umanità disperata, un purgatorio di gente che vive nel sottobosco tra la legalità e crimine, che alterna attività lecite e illecite, con poi i soliti spacciatori, ruffiani, puttane, pornografia, droga e corruzione. Non c’è una sola location del film che non sia desolante, che non dia l’idea di fine imminente, ma tragicamente è tutto verosimile per la Newcastle del tempo e tutto serve a raccontare la foto più grande che c’è dietro la sola vicenda del film, usando la città di Newcastle e il suo sottobosco violento un po’ come Chandler usava Los Angeles: come incarnazione plastica del male, della deriva nichilista della modernità e degli uomini e delle donne che da questa vengono divorati e dissolti.
Nonostante il film sia basato su un racconto, investigai la criminalità locale e mi imbattei in un crimine che ha poi funto da base per il film: i delitti della Dolce Vita. Un crimine che racchiudeva tutta la depravazione e corruzione che infestavano il sottobosco della città, c’era anche un sicario che era venuto da Londra, come Jack Carter (…) La mia ricerca mi ha portato a molti luoghi poi usati nel film, la veridictà dell’atmosfera del film è testimoniata anche dal fatto che poco dopo la sua uscita il manager della città venne arrestato per corruzione.
Mike Hodges sulla preparazione del film

Carter che legge Chandler, per sottolineare giusto un pochino i riferimenti.
Questo alone quasi documentaristico che ha il film nel fornire uno spaccato della deriva sociale inglese lo ha anche ne descrivere i modi e l’attitudine della criminalità inglese del tempo ed è difficile paragonare la secchezza, l’istintività e il nichilismo, del crime britannico (praticamente) inaugurato da Get Carter con qualsiasi altra cinematografia di genere prodotta fino ad allora. Non si può con il noir francese, di cui ha il fatalismo ma rifugge l’estremo romanticismo; non con l’hard boiled americano di cui ha l’approccio ai luoghi e agli archetipi (molto derivanti dall’impostazione chandleriana del libro, però) ma di cui rifugge l’avventurosità e l’estetizzazione; non con il polar francese con cui diverge sull’idealizzazione di alcuni archetipi, per quanto per alcuni film (penso più a Verneuil che a Melville) potrebbe esserne il parente più prossimo. Di fatto, Hodges, con Get Carter crea un crime che fa scuola a sé, che parte da coordinate chandleriane ma le sfuma, le piega, le interpreta, per raccontare una “bigger picture” della società inglese.
Ad aiutare questa operazione c’è una fotografia funzionale, perfetta, a opera di un atipico direttore della fotografia austriaco: Wolfgang Suschitzky.
Atipico perché aveva un pregresso lavorativo non esclusivamente cinematografico, anzi perlopiù commerciale e documentaristico. Suschitzky, infatti, veniva da una lunga carriera di fotografo e di documentarista tra la fine della seconda guerra mondiale e il dopoguerra, in molti dei quali il soggetto erano proprio le comunità minerarie, povere ed emarginate, del north-east inglese.
“L’arte può essere prodotta con ogni mezzo, ma solo per mano di un artista, Non so se ho prodotto arte, sono contento anche di essere considerato un artigiano”
W. Suschitzky sul suo lavoro
Sicuramente il suo lavoro cinematografico più importante, Get Carter, a mio avviso, sancisce l’indubbia qualità artistica del lavoro del modesto Suschitzky, immortalando un contesto e una nazione come nessuno prima di lui aveva fatto o si era posto il problema di fare, in quella inconsapevolezza di scivolare nell’oblio che aveva la società inglese e di cui parlava Hodges. Sarà anche per questa sua spietatezza, per questa sua lucidità documentaristica, nelle immagini e nel racconto, che Get Carter poco dopo la sua uscita subì, dopo un modesto successo, un’opera quasi di rimozione che lo fece scomparire nell’oblio e fuori dal radar dei gusti inglesi.

Caine e Ted Lewis, nell’incantevole paesaggio di Newcastle
Assurse al suo status di culto lentamente, prima fuori dall’inghilterra e solo poi in patria, dove di rimbalzo venne celebrato in maniera anche un po’ acritica più come icona che come opera. Fu probabilmente più facile per il pubblico britannico far scivolare Caine in trench-e-doppietta tra i santini della Cool Britannia, assieme a Twiggy da un lato e Quadrophenia dall’altro, anziché interrogarsi sul reale senso del film, sancire la repulsività del personaggio e la depressione dell’Inghilterra del 1971.
La beatificazione postuma del film da parte delle nuove generazioni inglesi arrivò a un tale livello che i frammenti di una delle location più celebri del film, il parcheggio soprelevato brutalista di Gateshead, vennero venduti come souvenir dopo la sua demolizione, un reliquiario laico che lambisce il feticismo e denota la superficialità del fenomeno, quasi ostalgico, della Cool Britannia.
In anticipo sui loro connazionali e animati da un’onesta stima, furono gli Human League, che nel loro album Dare del 1982 inserirono una breve traccia di sintetizzatore che riprende sommariamente il tema con cui si apre e chiude il film, ammiccando a questo ben prima della beatificazione postuma e posticcia di cui sopra. Trovo interessante che gli Human League estrapolarono solo il malinconico motivo principale di harpsichord del brano originale di Roy Budd, dilatandolo e raggelandolo, laddove è invece originariamente un brano jazzistico molto groovy, come a sottolineare, estrapolandola, l’anima livida e depressa del film. La colonna sonora del film è oggi considerata un classico delle colonne sonore cinematografiche, a opera di un maestro scomparso troppo presto, tra omaggi di gruppi e riedizioni per audiofili. Vale la pena di sottolineare che questo classico dell’easy listening venne registrato in pochissimo tempo da Budd e per sole 450 sterline, comprensive di studio e due musicisti, per risparmiare sui costi.
“Suonai io il piano elettrico e l’harpsichord, contemporaneamnte. A quei tempi non avevamo le magie della tecnologia odierna, dovevi essere fisicamente lì a suonare. Fu molto scomodo, ma il risultato suonava bene.”
Roy Budd sulla colonna sonora del film
Nel commento sonoro, per quanto fatto in fretta e con poco, ci sono tutte le cifre del film in una forma ispiratissima: un richiamo al jazz acido e ritmico dei go-go club londinesi che cita la provenienza urbana di Carter che si unisce a momenti gelidi e tristi, di rarefatta malinconia, che richiamano i luoghi desolati dove si spostano (o ritornano) le vicende del protagonista. Come per Suschitzky e Hodges, anche qui, un intuito, una precisa visione, misti a urgenza e mestiere, che sancì la nascita di un film di culto benché in forma di sleeper, con una popolarità postuma che portò persino a un dimenticabile e goffo rifacimento con Sylvester Stallone nel 2000. Dalla serie Life on Mars al bellissimo L’Inglese di Sodebergh, dal career-defining Lock ‘n’ Stock di Ritchie al validissimo Cinque giorni di Vendetta di Meadows, Get Carter continua a essere ispirazione e termine di paragone per l’Inghilterra criminale al cinema.

gente ispirata
A cinquant’anni dalla sua uscita, Get Carter, è un film che ancora affascina per la sua durezza e per la sua natura sfuggente, così diffuso tra più generi ma anche spalmato su più registri; continua a essere l’opera ispirata, cruda, per niente consolatoria che fu e continua ad attrarre riflessioni più profonde della sola, pure innegabile, iconica, cazzutaggine di Micheal Caine. Continua a essere, insomma, un capolavoro del cinema criminale, l’opera (forse inconsapevolmente) cardine per il cinema inglese che è sempre stata e forse, negli anni tribolati, incerti, che viviamo, con una società sempre più frammentata e un’Inghilterra in crisi, oggi può avere anche di più da dire di quando venne riscoperto.
DVD-Quote suggerita:
“Swinging London? Piss off!”
Darth Von Trier, i400calci.com
posso alzarmi e scappellarmi (cit.) per questa recensione ? Grazie
Mi piacciono moltissimo questo tipo di contenuti che mi aiutano a recuperare i “Mattoni che contano”: sono molto ignorante per quanto riguarda i cult del passato, quindi ogni occasione per recuperare queste perle è la benvenuta.
Grazie, bellissima recensione, mi è venuta voglia di rivedere “Get Carter”. In realtà il riferimento al Nanni sbagliato mi spinge a ripescare un altro grande classico calciabile, che non è (ovviamente) “Caro diario”. Quest’anno compie 35 anni, volendo se ne può anche parlare, no?
E adesso mi hai stuzzicato la curiosità: a quale classico ti riferisci? Ho pensato a “ Henry-pioggia di sangue” ma è del 90, quindi di anni sono solo 31. Non riesco a identificare il titolo in questione
Henry pioggia di sangue è stato girato nel 1986 ma distribuito solo nel ’90 fuori dal giro dei festival per motivi facilmente spiegabili
Ah, ok! Grazie
Forse l’ho anche letto questo particolare e poi me ne sono dimenticato
Get Carter è un capolavoro, la recensione è da giù il cappello. Il rifacimento con Stallone, è lontanto eoni dall’originale ma a me non dispiace affatto.
Insieme a Thief (casualmente di 10 anni dopo) uno dei miei film crime preferiti, di quelli che riguardo sempre e comunque volentieri.
Complimenti per la bellissima recensione.
Capolavoro di recensione per un capolavoro di film.
L’ho visto neanche troppi anni fa, non ricordo quasi niente della trama, ma mi e’ rimasto in testa come qualcosa di micidiale, durissimo, allo stesso tempo esaltante e amarissimo. Almeno un paio di crudelissime scene sono una botta anche oggi dopo anni di cinismo pulp.
Se posso suggerire un altro “mattone che conta” (citando Red qui sopra) che il sito dovrebbe assolutamente affrontare: “Freebie and the Bean / Una strana coppia di sbirri” del ’74, una cazzo di bomba di film e praticamente il primo action moderno dieci anni prima che il “genere” venisse codificato.
Tanto di cappello alla recensione, ma anche a te per aver giustamente rammentato “Freebie & The Bean” 🎩
Ordino bluray. Grazie.
Get Carter e tropa de elite: quando degrado e disumanità vengono sintetizzate da un colpo di fucile in fazza in una location orrenda
Visto anni fa d’estate su rai3 in seconda serata. Mi hai messo una voglia incredibile di rivederlo.
Grandissimo articolo, complimenti!
Gran bel pezzo, che spiega la magia dietro i Film che contano, grazie!
Eccomi sono il tipo di lettore che legge sempre tutto e non commenta mai ma un plauso per questa recensione è d’obbligo, pazzesca
Articolo molto interessante e scritto anche molto bene. Mi ha fatto venire voglia di vedere il film (e il remake è uno dei rari film con Stallone che non ho mai visto). Anzi, mi piacerebbe vedere una rassegna di film con un Michael Caine di menare, dato che mi sta troppo simpatico ma lo conosco principalmente per i film di Nolan. Purtroppo tra i suoi film più vecchi ho visto solo Sleuth, Fuga per la vittoria e L’uomo che volle farsi re. Se avete dei consigli da darmi potete rispondere a questo messaggio, grazie.
Ma che grande articolo! È per pezzi come questo che rimanete di gran lunga i migliori , regaz! Emozionante Darth, raggelante il film, che ho visto almeno tre volte (sono un fan di Caine e dei gangster brits). Capolavoro vero di nichilismo e decadenza, scrivete di più su queste cose, gemme da ripescare ce ne sono tante …
Standing ovation per la recensione. Non conoscevo il film. Lo cercherò senza meno.
Quando ho letto il film recensito, prima ancora di leggere chi lo aveva recensito ho pensato “speriamo ne abbia scritto Darth”. Sono stato accontentato e la recensione che ne è uscita fuori è perfetta. È perfettamente a fuoco nel descrivere i toni del film e restituisce un’idea chiara del contesto. grazie dello scritto, mi piacerebbe leggerti più spesso su questo genere di film (ancora tengo come dei santini la tua lista di war mobile che consigliasti qui sui calci, i tuoi scritti su bond, quelli su Mann e Vigilato Speciale, la discussione di True Detective e altro ancora). Immagino che richieda del tempo mettere insieme materiale come questo e spero di averne ancora
Rivisto recentemente, dopo anni, e non lo nego, mi ha un po’ “deluso”
Ok no, non mi ha deluso in senso stretto, rimane un grande film con una location fantastica, però a livello di pathos, proprio non mi ha emozionato. L’intrigo è ben orchestrato, manca a mio avviso il realismo, la durezza, la capacità di “disturbare”
Più o meno tutte le scene violente, nessuna esclusa, sono a mio avviso girate in modo quasi dozzinale. Ogni cazzotto di Carter è telefonato, come lo è la coltellata con cui uccide Albert, come lo è la sparatoria al molo
Ora non mi aspetto certo che la violenza in un film del ’71 sia quella di Tarantino, però è a mio avviso impietoso il confronto con “A clockwork Orange”, dello stesso anno, il quale è ancora oggi un cazzotto nello stomaco proprio per come le scorribande di Alex e compagni siano rese reali, vere
Oppure mi viene in mente un altro film di quegli anni, “The Long Goodbye”, anch’esso molto più crudo, asciutto, davvero capace di farti assaporare il dolore fisico e morale dei protagonisti
Grande film, ripeto, non sarò certo io a dire il contrario. Ma a mio modesto avviso invecchiato male, a differenza degli altri due di cui sopra
È in catalogo da qualche parte?