Tanti e tanti anni fa, quando ancora non c’era internet, esisteva su questo sito una rubrica chiamata Arca Rissa. I più anziani di voi forse la ricordano, altri potrebbero averne sentito parlare dai nonni o dai padri davanti al focolare, in una notte d’inverno (o in una notte d’estate se abitate nell’emisfero australe, o anche solo se vi piace tenere il focolare acceso in estate). Era, si tramanda, una rubrica che parlava di piani sequenza d’azione. La scrivevo io stesso e mi prendevo la briga di analizzare piani sequenza di menare sia veri che finti, famosi o meno famosi. Era un’idea bella, di per sé, e come tutte le più belle cose visse solo un giorno; un po’ perché mi ero rotto i coglioni, un po’ perché l’arte del piano sequenza stava diventando sempre meno degna di nota. Nel 2005 quattro minuti di Tony Jaa che saliva le scale facevano ancora girare la testa a tutti; poi, col passar degli anni e il dilagare della CGI pigra, i piani sequenza iniziavi a trovarteli sbattuti a trance sui banchi del mercato (“ho fatto otto minuti, lascio?”), tutti uguali e tutti pieni di rappezzamenti, aggiustamenti e tagli suturati più o meno bene in digitale, al punto che uno aveva smesso di chiedersi “Ma come avranno fatto?” e aveva iniziato a pensare “Ma cosa li fanno a fare?”. C’era ancora spazio per qualche cosuccia divertente, ma di base era come vedere le tedesche dell’est che battevano i record del mondo nell’atletica: robe da pazzi, sì, ma il trucco era evidente (con tutto il rispetto per la cortina di ferro, ovviamente, che è un’amica e salutiamo).
E così Arca Rissa si era rinchiusa solitaria nel tempio come l’anziano cavaliere di Indiana Jones e l’ultima crociata, in secolare attesa di chi l’avrebbe ritrovata, a prezzo di mille peripezie, per un’ultima grande avventura. Il Sacro Graal dei piani sequenza di menare: un prodigio di lunghezza leggendaria, che conduce alla montagna sacra nel luogo dove dimori, attraverso il deserto e oltre la montagna, nella gola della luna crescente. E zeppo di botte dall’inizio alla fine.
Ed è qui che entra in gioco il regista giapponese Yuji Shimomura, con il suo film Crazy Samurai Musashi, noto in Giappone anche con il titolo Crazy Samurai: 400 vs. 1, che (i) nella scelta del numero è chiaramente un omaggio a questo sito e (ii) è un intero fottuto piano sequenza di 77 minuti di sole spadate tra samurai.
Ora, se nel tempo che è intercorso tra la fine del paragrafo precedente e l’inizio di questo non vi siete precipitati a procurarvi questo film con ogni metodo possibile, siete davvero – mi si passi il francesismo – une bande de cons. 77 minuti di spadate! Cos’altro vi devo dire? LA TRAMA? Eccola, la trama: ci sono 5 minuti iniziali in cui gli avversari aspettano l’arrivo del temuto crazy samurai Musashi. Poi ci sono 77 minuti di spadate senza stacchi. Poi ci sono 5 minuti finali che chiudono il film. Punto. Il piano sequenza è la trama, il piano sequenza è l’unica ragione d’essere.
Al punto che, pensate un po’, il piano sequenza è stato girato nel 2011, a partire – pare – da una vecchia idea di Sion Sono che voleva girarne uno di dieci minuti per un suo film poi andato a monte. E mai come in questo caso dire “da un’idea di” significa dare a Sion Sono una grossa responsabilità, perché il film è letteralmente una sola idea. Cestinato il film di Sono, l’idea era passata sotto le ali dello stunt coordinator Yuji Shimomura e dell’attore Tak Sakaguchi, con l’aiuto di un ridotto team di stuntmen nel ruolo dei 588 (cinquecentottantotto) avversari che il crazy samurai trifola nel corso del film. Messo in saccoccia il piano sequenza, il progetto, ahimè, muore. Non si riesce a farne un film intero da distribuire. Passano otto anni. Sakaguchi sembra invecchiarne almeno sedici. Nel 2019 vien tirato su un Crowdfunding per completare il progetto, e funziona: con le donazioni Shimomura gira prologo ed epilogo, aggiunge fiotti di brutto sangue in CGI, dà una ripulita generale. Il film esce nel 2020, ma per 7/8 della sua lunghezza è ancora composto dai 77 minuti del suo piano sequenza del 2011. E allora parliamo di questo piano sequenza.
Lo stacco tra la qualità video dei primi 5 minuti di film (girati nel 2019) e l’inizio del piano sequenza (2011) è drammatico: la grana è grezza e si è deciso inspiegabilmente di iniziare a girare verso il tramonto, con la luce del sole che spara forte da destra e proietta ombre pericolosamente lunghe. Stai a vedere che, con tutto questo gironzolare concitato tra i combattenti, l’operatore… Appunto: dopo due minuti, puntuale, appare nitida l’ombra della steadycam. Ma il problema non è tanto questo, quanto che per i primi lunghissimi 10 minuti sembra di vedere un video di allenamenti su YouTube. L’unico personaggio di cui sappiamo qualcosa è Musashi, e l’unica cosa che sappiamo di lui è che è un temibile samurai. Fa a spadate in un prato nel più classico dei tutti-contro-uno, in cui il protagonista non viene mai attaccato da più di un avversario alla volta anche se gli avversari sono letteralmente infiniti (perché sono sempre gli stessi stuntmen che si respawnano). I primi dieci minuti, quindi, risultano sfiancanti, soprattutto al pensiero dei successivi sessantasette. Possiamo definirla la PRIMA FASE del film, nonché la fase peggiore. Poi il piano sequenza va avanti, e avanti, e avanti, e lo spettatore si trova ad affrontare almeno altre due fasi.
LA SECONDA FASE inizia quando ti accorgi che, pur nell’assoluta e intenzionale mancanza di una storia, il piano sequenza crea da sé una sorta di narrazione per il fatto stesso di esistere. Il povero Tak Sakaguchi, infatti, pur essendo ben allenato e armonioso nei lineamenti, non ha la forza per resistere a 77 minuti continui di katane, saltelli, parate e botte in testa; ecco allora che il piano sequenza concede, a lui come al suo personaggio, delle pause per rifocillarsi da borracce di bambù piazzate strategicamente, o dei brevi incontri con personaggi non spadanti. Tutti piccoli momenti in cui la tecnica di ripresa diventa una storia (semplicissima, ok) che ci porta a conoscere meglio il personaggio e a tifare per lui proprio perché lo vediamo sempre più sudato, barcollante, bisognoso di tirare il fiato. E siamo con lui tutto il tempo.
LA TERZA e ultima FASE, invece, arriva verso il quarantacinquesimo minuto ed è una specie di epifania. Pensateci bene: 45 minuti sono un intero episodio di una serie, il primo tempo di una partita di calcio, la durata di un viaggio in treno da quarantacinque minuti o di quarantacinque viaggi in treno da un minuto. Sono un sacco di tempo. E tu stai vedendo questi disgraziati che si prendono a spadate da tutto questo tempo, e sai che ne avrete ancora per mezz’ora, e sai che lo sanno anche loro, e a un certo punto ti chiedi: ma chi ce lo fa fare? A me che li guardo, a Sakaguchi che poraccio guardalo non si tiene più in piedi, a quello con la steadycam che avrà sete, a li mortacci tua, a ‘sta cazzo de mucca che c’hai in mano, a quella cinquantina di poveracci sempre più malconci che chissà quante botte vere hanno preso per sbaglio eppure continuano a barcollare fuori campo e respawnarsi senza sosta? Chi ce lo fa fare? E ti viene prima il dubbio, poi la certezza, che l’intento del film sia proprio questo: allettarti col gimmick del piano sequenza di menare più strabiliante del mondo, farti credere per anni nell’esistenza del Santo Graal dei piani sequenza, farti attraversare mari e monti con il miraggio del non plus ultra delle scene d’azione senza montaggio e senza CGI, per poi metterti di fronte alla dura e sudatissima realtà: cioè che portare un piano sequenza alle estreme conseguenze uccide ciò che cerchiamo nel cinema d’azione, cioè lo spettacolo, la concitazione, l’acrobazia, la meraviglia. Senza montaggio non saranno le katane a ucciderti, saranno i tempi morti. Crazy Samurai è un film di non-azione più simile a certi esperimenti di videoarte proiettati sul muro di una fondazione d’arte contemporanea davanti a cui ci si ferma per trenta secondi con le mani dietro la schiena.
E allora sì che ci credo, che questo film si basa su un’idea di Sion Sono: uno che i generi ama decostruirli e maltrattarli ai limiti dell’abuso, uno che se gli commissionano un film erotico lo chiama direttamente ANTIPORNO, nel caso non si fosse capito. E questa è ANTIACTION, azione solo teorica, che nella pratica divora sé stessa. Ci vuole un bel coraggio per concepire un film del genere e realizzarlo senza nessun compromesso, esercitando sullo spettatore una violenza pari a quella inflitta agli stuntmen. Può affascinare, può persino avvincere, sicuramente lascia ammirati e suscita interesse, ma nella sua esasperazione di un unico concetto per un tempo infinitamente superiore alla capacità di sopportazione umana (degli attori, della crew, degli spettatori) finisce per essere l’esatto contrario di sé stesso.
EPILOGO
Nella seconda metà degli anni Novanta, io e la mia classe delle superiori tornavamo in bus nella nostra città dopo una gita in una nota capitale italiana. Uno dei miei compagni aveva una chitarra acustica e a qualcuno venne la bella idea di cantare la stessa canzone in loop, tutti insieme, fino a che non ci fossimo fermati all’autogrill. Alla sosta potevano mancare quindici minuti come un’ora, ma noi eravamo esaltati e strasicuri che fosse un’idea fantastica, che non ci sarebbe mai venuta a noia, perché cosa mai poteva andare storto? E inizammo. La scelta della canzone cadde su “Roots Radicals” dei Rancid, perché appunto “seconda metà anni ’90” più “scuole superiori”. Già alla terza/quarta ripetizione della canzone iniziarono le prime defezioni. Qualcuno finse di cadere addormentato, altri sgattaiolarono nelle file davanti, accanto ai professori. Al quinto o sesto replay eravano rimasti in pochissimi a cantare, sempre più indecisi se stessimo facendo la figura dei coglioni o quella dei fedeli alla linea. Evidentemente la prima ipotesi finì per prevalere, dato che quella che era partita come “la rootsradicalata da qui fino alla fermata” durò al massimo dieci minuti, dopodiché nessuno volle più saperne niente di quella canzone di merda, né di altre canzoni, né della musica in generale, e rimanemmo imbambolati sui sedili del bus, all’imbrunire, come se davanti a noi si fosse appena formato un concetto che ancora non riuscivamo bene ad afferrare.
Sono passati anni, e finalmente quel concetto credo di averlo afferrato oggi grazie a Crazy Samurai: 400 vs. 1.
Arca Rissa si è avvicinata troppo al sole e le sue ali si sono sciolte.
Lunga vita ad Arca Rissa.
DVD-quote suggerita:
«Attento a ciò che desideri – The movie»
(Luotto Preminger, i400calci.com)
Luotto il passerotto…
BRAVO
La recensione in generale e il paragrafo sulla stanchezza dell’attore in particolare, mi hanno ricordato Snuff di Palahniuk: anche il questo libro si vuole portare alle estreme conseguenze un concetto, cercando di fare la gang bang più gang bang di tutte.
L’unico risultato ottenuto è quello di sancirne la morte (letterale e metaforica) e, probabilmente, di smascherarne la vera natura.
Pezzo iperuranico. Grande Luotto!
Sarò di gusti semplici ma a me è piaciuto proprio per i motivi per cui il recensore lo ha, di fatto, bocciato.
Bisogna solo accettare un paio di compromessi (gravi o veniali sta al gusto personale):
– Gli avversari sono teoricamente 100+300, ma si vede che gli stunt-men sono al massimo 12-15 (massì, tanto si sa che gli orientali sono tutti uguali…)
– Il repertorio di mosse è limitato ad una decina, forse anche meno, ma pare sia una scelta precisa del regista: in un contesto reale il combattente deve essere efficace e risparmiare energie. Motivo per cui per gran parte del combattimento Musashi adotta un approccio difensivo.
– Di Musashi si assiste al progressivo sfinimento fisico, ma fino alla fine rimane.. pulito! Neanche uno schizzetto di sangue addosso.
Quindi sì, concordo che paradossalmente questo film rappresenta la negazione di ciò che un appassionato di cinema action vuole: coreografie, gesti atletici, virtuosismi.
Ma è un esperimento -per me riuscito, almeno in parte- che nella peggiore delle ipotesi dimostra che un piano sequenza *reale* e non CGI di 70+ minuti… non s’ha da fare.
Fa molto hipster esaltarsi per una simile idea del cazzo, ma credo che il buon senso contadino faccia subodorare la rottura di coglioni a distanze oceaniche.
“No” (Marcel Marceau)
Trascrivere in un commento l’intera sceneggiatura di un film mi sembra eccessivo.
@Gigos. In realtà mi sono fatto prendere la mano e ci ho incluso anche il teaser, la campagna stampa, le interviste a regista e stunt-coordinator e il making of…
Mi hanno più incuriosito le righe su Sono che tutto il resto Tanto è vero che mi viene da chiedermi se lo apprezzi oppure no come regista.
P.s. Antiporno è un film complicato senza un po’ di studio della cultura ,della ribellione femminile e cinematografica.
Certo che lo apprezzo, quel poco che dico di lui nell’articolo è tutto da intendersi in senso positivo, mi spiace se non s’è capito ¯\_(ツ)_/¯
Chi ti dice che son buone le pere
dopo un anno di pere dirà
Singapore vado a Singapore…
Grazie mille! Pensavo di essere quello con i riferimenti musicali più datati, e invece…
Ricordo Arca Rissa, bei tempi, eravamo tutti più giovani e più innocenti. Botta di nostalgia, lacrimuccia senile…
Vabbè l’Arca Rissa fatta bene è stato 1917
E non dimentichiamoci dei Predatori dell’arca Madonna .
Qualsiasi cosa portata all’estremo diventa una merda.
Ti piacciono i profiteroles? Prova a mangiare solo quelli per 3 pasti al giorno tutti i giorni e vediamo quanto duri prima di dire basta.
Condivido. Ed è il motivo per cui, sempre sui 400calvi, penso che sia impossibile realizzare il Graal di Stanlio Kubrick, ossia il film di Mostri grossi coi soli Mostri grossi e senza elemento umano. Cioè, si può fare, ma sarebbe un documentario di Quark sullo Squalo Bianco. Che magari a modo suo sarebbe anche interessante, ma avvincente no. Idem con l’arca rissa: un pianosequenza narrativo è figo, è Nodo alla Gola. Un pianosequenza antinarrativo è una rottura di coglioni. Anche con le spadate.
Che poi anche Arca russa, il film girato dentro l’Ermitage tutto in piano sequenza, è parecchio calciabile.
Mamma che recensione. E che nostalgia di quei tempi pre marveloforsedovreidiredisney
“E inizammo. La scelta della canzone cadde su “Roots Radicals” dei Rancid, perché appunto “seconda metà anni ’90” più “scuole superiori””
Io credo di amarti
Però il film in piano sequenza (vero, senza CGI) forse meglio riuscito è Victoria.