Serve un motivo per fare una retrospettiva su William Friedkin? No. Ma noi ce l’abbiamo: il motivo è che non avevamo ancora coperto praticamente niente di suo. E quindi ora copriamo tutto. Seguiteci nel nostro nuovo, imprescindibile speciale: Le basi – William Friedkin.
Nell’ultima puntata di Le Basi, una rubrica che ogni settimana raggiunge nuove altezze, Toshiro Gifuni ha annunciato ufficialmente l’ingresso nella fase calante – non tanto fisiologica, quanto auto-indotta – della carriera di Friedkin. Il collasso di Rampage, o Assassino senza colpa? come da titolo italiano che da qui in avanti non verrà più citato, non ha in realtà quasi nulla di auto-indotto, al netto del fatto che lo stesso Friedkin abbia dichiarato più volte che “non mi è venuto benissimo”. Uscì nel 1987 in Europa, ma negli Stati Uniti solo nel 1992, una data cruciale che lo collocò dopo l’uscita di Il silenzio degli innocenti, contribuendo così in maniera più o meno diretta al suo flop. E di quelli brutti: meno di un milione di incassi, nonostante parecchie recensioni tra il soddisfatto e il lusinghiero, e una distribuzione completamente sputtanata dall’imminente fallimento di una DEG che era appena entrata in fase di “ristrutturazione”.
Dopo la resurrezione con Bug e soprattutto Killer Joe, c’è stato un periodo relativamente breve ma glorioso nel quale Friedkin è stato protagonista di decine di interviste-fiume e longform a tema “resuscitiamo la tua carriera commentando ogni tuo film”. Questo per esempio è del 2013, ma se andate a cercarne altri e scorrete fino alla fine degli anni Ottanta troverete sempre le stesse due/tre risposte standard di Friedkin relative a Rampage:
«C’è gente a cui Rampage è piaciuto, io però non credo di aver colto nel segno»
«È stato uno dei punti più bassi della mia carriera» (con la variante “il punto più basso”)
«Colpa di Dino» (questa è parafrasata)
E sì, è vero che Friedkin è il primo a dare gran parte della colpa del disastro del film a questioni distributive più che artistiche, ed è anche vero che è difficile dargli torto, quanti film sarebbero in grado di sopravvivere cinque anni nel limbo e uscirne intatti?
Ma è anche vero che Friedkin non si risparmia neanche l’autocritica: a lui Rampage non piace, nonostante abbia passato gli anni tra l’uscita europea e quella americana a rimontarlo e cambiarne il finale, nonostante se lo sia scritto da solo e nonostante il film parli di un argomento che, parole sue, gli sta da sempre molto a cuore, cioè la pena di morte e tutto quello che ci gira intorno all’interno del sistema giudiziario degli Stati Uniti.
E quindi la questione è: fa davvero così schifo questo Rampage? Al punto che non piace neanche al suo creatore, che nessuno l’ha voluto distribuire per un lustro, che anche oggi non viene quasi mai citato quando si parla di William Friedkin? Possibile che un autore reduce da C.A.T. Squad abbia così clamorosamente mancato il bersaglio nel momento in cui è tornato al suo teorico ovile, quello dell’esplorazione quasi-documentaristica delle mille sfaccettature del Male?
Ovviamente no: Rampage è quello che diverse prestigiose riviste di critica hanno definito “un film della Madonna”, ed è un film che se fosse uscito al momento giusto e con la distribuzione giusta avrebbe probabilmente cambiato la storia del cinema di serial killer, e del cinema in generale, nel modo in cui quattro anni dopo avrebbe fatto il film di Jonathan Demme. O forse non è vero e non avrebbe mai fatto quel salto facilitato dall’emettitrice di empatia Jodie Foster e dall’insolito carisma cannibale di Anthony Hopkins; perché, in pieno stile Friedkin, Rampage evita accuratamente ogni facile scorciatoia emotiva e ogni tentazione estetizzante, preferendo presentare i fatti nel modo più distaccato e oggettivo possibile e lasciando a chi guarda l’onere di trovare una risposta – personale, ma con aspirazioni universali – ai Grandi Quesiti che pone. E in questo modo diventa un’opera terrificante, più vicina all’horror che al thriller: sono pronto a scommettere, per esempio, che Rob Zombie se l’è studiato come una Bibbia prima di girare il suo reboot di Halloween, ma la sua eredità più o meno manifesta si ritrova anche in parecchia altra roba successiva, da Funny Games a questo bellissimo e sottovalutatissimo legal horror (esiste?).
Eppure oh, a Friedkin fa cagare. SIGLA!
Rampage ruota tutto intorno ad Alex McArthur, quasi esordiente che dopo questo film si godrà una carriera mediocre ma sufficientemente redditizia da permettergli di pagare il mutuo. McArthur è Charles Reece, serial killer di Stockton, California: lo incontriamo per la prima volta con addosso uno spolverino rosso e un paio di occhiali da sole, e lo vediamo entrare in casa di una tizia che vive con gli anziani genitori. Reece ammazza l’allegra famigliola a pistolettate, poi ne mutila i cadaveri per estrarne gli organi, e si versa una bella tazza del loro sangue. Tutto questo ci viene presentato da Friedkin come se fosse un servizio di cronaca nera, senza fronzoli, virtuosismi o movimenti di macchina arditi, e anche senza alcuna pietà né per chi guarda, né per le vittime di Reece.
Rampage vuol mettere in chiaro fin da subito di cosa parla: non di un assassino occasionale, o di un innocente incastrato contro la sua volontà, ma di un assassino cannibale vampiro nazista. Una bestia, un pazzo fottuto, uno che agisce perché sente la voce di Satana alla radio che gli ordina di uccidere e di bere sangue altrui per purificare il proprio, avvelenato dalla sua mancanza di fede nel Maligno. Una persona con la quale è impossibile empatizzare, un mostro, un qualcosa di altro da noi, come Pazuzu in L’esorcista; un’anomalia, qualcosa la cui sola esistenza nella nostra società non ti fa dormire la notte, perché ignorare le più basilari regole di convivenza pacifica è insito nella sua stessa natura, un istinto irrefrenabile. Uno senza speranza, uno di quelli che guardi (tu metaforica società, ma anche tu soggetto davanti allo schermo che inevitabilmente si farà delle domande su quello che sta vedendo) e ti fanno pensare “chiudiamolo in una cella imbottita e isolata e buttiamo via la chiave”.
Ovviamente Friedkin è americano e Rampage è un film che parla di America, per cui la vera questione non è quella, ancora tutto sommato civile, del “esistono persone che vanno tenute a forza lontane dal resto della società per il resto dei loro giorni, oppure c’è speranza per tutte?”, quanto quella del “era pazzo o no? Perché se non lo era allora lo friggiamo”. Ora arrivo alla pena di morte, ma prima di farlo mi preme sottolineare un’altra volta come Rampage sia un film che parla di quello, ma potrebbe anche essere un film che parla di galera e dei pregi e difetti del sistema correzionale di un ipotetico Stato X. Il fatto che in ballo ci sia una vita umana lo rende sicuramente più estremo e quindi le risposte più facili da trovare, ma la faccenda alla radice di tutto non è tanto la legittimità o meno dell’omicidio di Stato, quanto l’esistenza o meno di persone incompatibili con la società civile.
Per questo ogni volta che Charles Reece entra in azione – lo farà una sola altra volta, in verità, prima di venire catturato e trasformare il film da thriller a courtroom drama – Friedkin si mette il cappello del documentarista e fa di tutto per farci entrare, discretamente ma in profondità, nel mondo dell’assassino vampiro nazi e, per quanto possibile, nella sua testa. Come moltissimi film di serial killer degli anni Novanta, dal già pluricitato Il silenzio degli innocenti a Seven, Rampage si crogiola nell’ultraviolenza e nel dettaglio sì disgustoso, ma presentato con la freddezza anatomopatologica che ti viene data in dotazione quando entri nelle forze dell’ordine. È un’indagine su roba che preferiremmo non vedere, mamme fatte a pezzi, bambini mutilati e gettati nella spazzatura, e che Friedkin ci sottopone senza pietà per ricordarci costantemente di chi stiamo parlando – di cosa stiamo parlando.
L’indispensabile lato umano è rappresentato da Michael Biehn in quelli che probabilmente lui stesso definirebbe “gli anni migliori della mia carriera” (citazione da verificare). Biehn è Anthony Fraser, procuratore distrettuale, un uomo di legge tutto d’un pezzo con dei sani principi che gli vietano tra le altre cose di prendere in considerazione l’idea di poter spedire una persona sul miglio verde. Un autore più raffinato o democristiano di Friedkin avrebbe sviluppato questo spunto nel corso di tutto il film, mostrandoci il lento sgretolarsi delle convinzioni etiche di Fraser di fronte alla prova inconfutabile che Reece è irrecuperabile e pericoloso; e avrebbe usato la sua epifania finale per lanciare un messaggio, e dire quindi “Sì! Sono d’accordo!/No! Non sono d’accordo! Con la pena di morte”.
E invece Rampage è più interessato a sfruculiare nei meandri del sistema che della coscienza umana: Fraser decide prestissimo (anche in seguito a pressioni poco etiche e molto politiche dei suoi superiori) che Reece deve venire giustiziato, e che la soluzione del caso sarà per lui una prima volta (figuratevi per Reece). La partita si sposta quindi su quelle che superficialmente potrebbero sembrare formalità: Reece era cosciente quando commetteva i suoi omicidi? Era nel pieno delle sue facoltà, era in grado di intendere o di volere? E se non lo era, è giusto ammazzarlo, pur con tutti i crismi dell’ufficialità statale? Più che un film sulla pena di morte, Rampage è un film su come in America appellarsi alla sanità mentale dell’imputato sia spesso l’unico modo per salvargli la vita, ma anche su come persino le persone più ideologicamente incorruttibili non si facciano problemi a cambiare posizione per i motivi più futili, a dimostrazione forse che avere a disposizione uno strumento come la pena capitale sia anche un incoraggiamento a normalizzarla e considerarla un’opzione plausibile e in certi casi persino auspicabile.
Dovrebbe essere chiaro a questo punto che Rampage è un film denso e cervellotico, strabordante di legalese e di arringhe appassionate, un film prima di tutto di gente che parla, solo occasionalmente interrotto da sequenze che definire “action” è generoso, ma che quantomeno privilegiano il movimento alla parola. E forse sarebbe dieci volte più noioso se di mezzo non ci fosse Alex McArthur, i suoi modi affabili, il suo sguardo dolce e innocente da persona che parla di Satana come io vi potrei parlare dei miei biscotti preferiti, il suo angelico orrore sempre presente (e quasi sempre silenzioso) anche nelle più trascinate sequenze in aula. Reese è il Male e McArthur è una delle migliori incarnazioni del Male che siano mai comparse sul grande schermo, e questo nonostante il suo ruolo consista per la maggior parte del tempo nell’atto di stare lì. Lo vedi sullo sfondo, mentre Biehn si lancia nella sua cinquantesima filippica, e ti ricordi quando, un paio di scene prima, sgozzava un infante con l’aria di chi ha appena trovato l’acqua nel deserto.
E cosa fai con uno così? Lo chiudi in galera e butti via la chiave? Lo affidi a un istituto psichiatrico e speri che ci sia speranza di recuperarlo? Lo tieni in galera e provi a recuperarlo lì? Corri il rischio che nella sua lucida follia riesca a convincere il suo dottore a rilasciarlo perché è “tornato a posto”, e di ritrovartelo poi dieci minuti dopo in una terza elementare armato di accetta? O tiri lo sciacquone definitivo, facendolo fuori e togliendoti così ogni dubbio? E sua madre come farà, e i vicini di casa che dicono che era un così bravo ragazzo? Ma poi: è giusto che il patto sociale che implicitamente firmiamo quando veniamo al mondo comprenda anche una clausola che dice “se non ci piaci però ti facciamo fuori”? Ed è giusto, di fronte a un caso irrecuperabile e senza speranza, che lo Stato si faccia carico non solo di tenerlo lontano dal resto della popolazione per evitare rischi, ma anche di mantenerlo e accudirlo fino alla fine dei suoi giorni, certo in una cella buia e isolata ma pur sempre vivo? Esistono davvero casi del genere? In America, il picco di omicidi commessi da serial killer si è toccato nel 1989: Rampage è uscito nell’epoca d’oro della professione, quando Charlie Reece non era un mostro immaginario ma una possibilità concreta, ed è quindi anche un film pionieristico, o lo sarebbe stato se De Laurentiis et cetera.
Il paragrafo intero di domande è per riassumere tutto quello che Rampage ti butta in faccia in poco più di un’ora e mezza. E ovviamente dopo averlo buttato se ne va, senza suggerire neanche mezza risposta, e ti lascia lì a raccogliere i cocci. Io credo, e qui ci spostiamo nel campo delle speculazioni e delle opinioni, che neanche Friedkin avesse (abbia?) delle risposte precise, e che Rampage sia in parte anche una seduta di terapia, un modo per chiedere al pubblico “e voi cosa ne pensate?”. La prova sta nel finale, o meglio nei finali: alla faccia degli SPOILER, quello del 1987 prevede che Reece si suicidi in carcere, mentre in quello del 1992 Reece sta per venire rilasciato per buona condotta e spedisce quindi una lettera allusiva e inquietante a due persone sopravvissute alla sua prima striscia di omicidi. Tradotto: nel 1987 Rampage si chiudeva con una nota di speranza, per quanto tragica, sulla possibilità di redenzione del serial killer, mentre nel 1992 si chiudeva con una velata minaccia, e con l’altrettanto velato suggerimento che forse se lo avessimo fatto fuori ora non avremmo questo problema.
Io ovviamente non ho le risposte, o meglio ce le ho ma sono mie e non c’entrano nulla con il pezzo. Friedkin però aveva queste domande da porci, e le ha fatte tramite Rampage, tanto bello quanto dimenticato, sottovalutato, ignorato, uno dei film simbolo della fase calante della sua carriera. Conosco gente che venderebbe l’anima a Satana per buttare fuori roba di questa qualità e poterla chiamare “fase calante”.
Arringa quote
«Se questo è un Friedkin minore immagino i maggiori ah no aspetta già li conosco»
(Stanlio Kubrick, i400calci.com)
Queste sono le recensioni che aspetto di piu`: per quanto abbia goduto nel leggere le vostre rece de The Exorcist e The French Connection, scoprire i film minori e meno conosciuti e` un piacere enorme. Di questo film credo di aver letto solo una recensione su Cineforum qualcosa come 25 anni fa, mai visto e non so se riuscirò mai a farlo, ma grazie comunque.
In quanto alla fase calante, un cazzo ecco: Friedkin si e` sempre diviso tra capolavori enormi e film alimentari (come le due commedie prima e dopo Cruising). E` un regista troppo diretto e senza concessioni al pubblico (leggi personaggi carismatici e finali catartici), ma la qualità e` sempre stata alta (anche negli anni ’90 con Blue Chips e Jade), per poi riprendersi alla grande dal 2000 in poi.
Su questa pagina (verificata) le due versioni in lingua originale:
[tolta, niente link a roba illegale per favore, ndr]
P.S. non ancora visto
Vabbè, però poi qualcuno mi spiegherà cosa è legale e illegale un giorno….
Coll’ultimo film di Friedkin (C.A.T.) il link l’avete messo voi. Era legale? Non credo proprio.
E se una cosa è su YouTube non è detto sia stato caricato legalmente.
Ergo: voi fate il vostro e cancellate i link (a vostro strano insidacabile giudizio) e io se e quando linkerò forse vedrò i miei link cancellati.
Grazie.
P.S. E’ la Polizia Postale che oscura i siti, Eh!
Mettiamola così: esiste un sito che si chiama rarefilmm.com. Cercate lì. Ma mi sembra l’asilo.
No problem, grazie per la dritta, il messaggio e` stato recepito. Grazie
Madonna Pier ma la smetti. Ti hanno detto di no, è no, ma c’hai cinque anni?
Pier ad ogni tuo intervento il disagiometro schizza sempra più in alto.
Domanda reotrica: ma ce la fai? Risposta implicita: ma manco per il cazzo.
Pier to pier…e la polizia si incazza! vai Pier facci sognare!
Non ho visto questo film, ma la (grandissima, as usual) recensione mi ha fatto venire in mente un’intervista col quasi omonimo del nostro recensore, letta tempo fa. In quell’intervista Stanley diceva che gli sarebbe piaciuto fare un film sulla pena di morte, e che gli sarebbe piaciuto perché secondo lui tutti quelli fatti fino a quel momento (tardi anni ’70, credo) erano film “sbagliati”. Stanley era un convinto contrario alla pena di morte, e secondo lui quei film erano sbagliati perché seguivano quasi tutti lo stesso schema: protagonista accusato ingiustamente e condannato a morte, poi a volte finiva bene e a volte no. Però, diceva Stanley, sono capaci tutti a dire che la pena di morte fa schifo quando tocca a un innocente. Quei film, diceva, erano film sugli errori giudiziari, non sulla pena di morte. Per fare un vero film a tesi contro la pena di morte occorre che il protagonista sia colpevole, e possibilmente il peggior colpevole che si riesce a concepire, e poi, nel film, riuscire a dimostrare allo spettatore che la pena di morte è ingiusta PERFINO in quel caso. Però Stanley era un convinto contrario, mentre William, come detto nella recensione, se ha delle idee se le tiene per sè. Comunque mi è venuta voglia di vederlo, questo Rampage.
Quando venne al Lucca Film Festival, su una domanda su Rampage, Friedkin disse che oggi ha cambiato idea sulla pena di morte, che realizzò il film sull’emotività del contesto dell’epoca (la lunga catena di omicidi di serial killer come Richard Ramirez).
Ricordo ancora quando lo diedero in prima tv su Italia 1, un sabato a notte fonda, subito dopo Henry Pioggia di Sangue, pure quello in prima tv. Ho ancora la vhs da 4 ore su cui ho registrato entrambi.
Non sapevo di questa idiosincrasia di Friedkin verso una bombazza di film come questo. L’ho visto secoli or sono con a fianco (stranamente) mia madre, che alla fine si convinse che erano film del genere che mi avevano fatto diventare scemo. L’ho rivisto non troppi anni fa e lo trovai un capo serio.
Anch’io l’ho sempre associato a Henry pioggia di sangue, una specie di dittico “segreto” da contrapporre al dittico “mainstream” formato da Manhunter e Il silenzio degli innocenti sul tema dei serial cosi.
Ah, ma allora è un film peso? Dal pezzo non l’avevo capito. Mi sa che si va di recupero.
‘spetta: lo associo a “Henry pioggia di sangue” per una certa atmosfera malata e per l’aria da b-movie che sembra serie A per via dalla classe della regia, ma al di la’ di due o tre monenti abbastanza forti direi che e’ molto meno violento anche del Silenzio e di Manhunter (niente stragi o facce strappate). Il recupero lo merita comunque.
Ammetto con una certa vergogna di aver visto questo film a suo tempo, averlo molto apprezzato, ed aver sempre ignorato che fosse di Friedkin.
Ho letto la recensione, mi sono redarguito allo specchio per non aver visto questo film, e poi ho scoperto che c’è Nicholas Campbell E VOI NON LO AVETE MENZIONATO NEPPURE UNA VOLTA.
Che David Cronenberg vi strafulmini.