Tolta di mezzo la battuta migliore che si possa fare su questo film, passiamo alle cose serie: il MEANDRO. Perché in effetti sì, potevano chiamarlo veramente The Tube e fare i simpatici citazionisti che non guardano in faccia a nessuno, ma questi, nella persona del regista Mathieu Turi, sono francesi, e dunque sofisticati. Il Meandro, tecnicamente un fiume turco tutto curve, raffigura tutto ciò che è diramato, labirintico, di difficile esplorazione; insomma, il meandro è un po’ un casino, ed è proprio quello in cui la nostra protagonista (Gaia Weiss di Vikings) finisce: un labirintico casino, decisamente poco turco.
E non lo fa nemmeno apposta, manco se lo merita. La povera Lisa ha perso la figlia, è disperata, e nella sequenza d’apertura la troviamo stesa in mezzo alla strada, pronta a essere investita. Le verrà poi offerto un passaggio da un uomo che scoprirà essere un killer fresco di omicidio, ma attenzione, il meandro, il casino, non è questo, e nemmeno il film. Perché dopo una breve collutazione si taglia su nero e il film, quello vero, inizia. Lisa si sveglia in una stanza con le lucine, vestita un po’ sci-fi e con un bracciale luminoso al polso: da lì in poi sarà costretta a strisciare dentro dei tubi d’areazione riconvertiti in camere di tortura, schivare trappole e trovare la via d’uscita, tutto così per un’ora e mezza senza perdere un colpo neanche una volta, tirando fuori qua e là qualche ispirata idea e qualche meno ispirata minaccia.
Di fatto Meandre (o, nella lingua inglese, Meander ) è un film di sola angoscia, parlato quasi niente, tutto girato in posti strettissimi sempre addosso alla bravissima protagonista che, povera, ci mette un attimo a capire che se non smette di piangere finisce arrosto. È un po’ Saw nei giochi sadici e un po’ tanto The Cube nell’ambientazione, ma soprattutto è un po’ Oxygen e un po’ Crawl, di cui abbiamo parlato recentemente. Insomma, giovani donne in difficoltà in luoghi stretti, nulla di veramente nuovo ma nemmeno troppo trito: al piglio sadico senza motivo si aggiunge anche una certa repulsione al voler spiegar troppo le cose. Le domande sono sicuramente più delle risposte, ma non è questo il punto; il twist, il mcguffin, la voglia di saltare lo squalo, sono solo elementi utilizzati in funzione di un’unica cosa, il viaggio della protagonista all’interno di quella merda chiamata lutto.
Di fatto Meandre è anche e soprattutto un gran metaforone, una classica elaborazione del lutto tutta morte e rinascite che, a dirla tutta, è anche un po’ poco. Non c’è altro, a parte la figlia morta e la nazionalità francese, a delineare la nostra amata Lisa, bella come il sole, costretta a fare cose che nessun essere umano farebbe senza prima vomitare. Uno straccio di scrittura in più avrebbe forse reso l’impatto emotivo della storia un po’ più calzante, ma apprezzo che piuttosto di fare un paciugo troppo melenso abbiano usato il minimo sindacale. La storia, al netto di qualche maccosa, funziona e fa il suo dovere soprattutto quando c’è da spargere un po’ di sangue e andare in direzioni inaspettate. Sicuramente una sorpresa venuta quasi dal nulla, una specie di redenzione per Mathieu Turi dopo il non troppo riuscito Hostile, che a questo punto dovrà concludere col botto la sua trilogia di giovani donne in difficoltà in luoghi stretti. O almeno spero.
Post sull’instagram di MUBI-quote:
“Quello che i francesi chiamano Le métro”
Jean Claude Van Gogh, i400calci.com
Non è brutto ma non c’è niente di nuovo. Come hai detto, un miscuglio di idee prese soprattutto da The Cube. Un film che risulta vecchio, e il finale metaforone non gli dà certo una spinta verso l’ eterna giovinezza. Però ti tiene lì, ed è un pregio. Lei molto brava.
Haze di Tsukamoto con le luci e le spiegazioni?
Per la prima volta ho visto un film prima di una vostra recensione. Non mi è dispiaciuto. Lo.hanno fatto su rai4 tipo in prima, massimo seconda serata, qualche tempo fa. E spesso sparano un filmaccio horror non americano su quel canale. Ne sapete qualcosa
Bah, boh. A parte lei, anche no.