
Mare mare mare ma che voglia di arrivare
Siete mai stati al mare d’inverno?
Non mi sto riferendo a quella volta che avete passato Natale alle Hawaii né vi sto chiedendo se abitate in una città di mare, dove quindi il mare lo vedete tutto l’anno, anche d’inverno appunto. Sto parlando del mare in quei paesi che sembra esistano solo d’estate, quando frotte di gente si materializzano ai confini del centro abitato pronte a spendere le successe settimane immerse nelle non troppo azzurre acque locali, mangiando panini aromatizzati alla sabbia e passando le serate a immaginare le stelle o più probabilmente a stroncarsi di birra di bassa qualità nella speranza, in ultima analisi, di riuscire a scopare.
Quei paesi che da ottobre a maggio hanno cinquantasette abitanti e da giugno a settembre ne hanno cinquantasettemila, dove metà dei negozi non hanno senso in un paese di cinquantasette abitanti ma che per quattro mesi all’anno fatturano come Amazon. Dove quando vai a comprare pane e latte in una calda mattina d’agosto la proprietaria del piccolo alimentari ti saluta cordialmente e ti fa un terzo grado per sapere cos’hai fatto negli ultimi 300 giorni nei quali non vi siete viste, ma se le chiedi come sta lei ti risponde “ehhh, sai” e cambia discorso.

Quanti giorni posso stare senza averti qui con me
Che cosa fa la signora del piccolo alimentari quando i turisti se ne vanno e il suo paesino si spopola? A cosa pensano il calcinculo e la ruota panoramica durante le lunghe serate d’inverno, sferzate dal vento e popolate solo di silenzi? Queste domande hanno una sinistra eco lovecraftiana come lovecraftiani sono, per troppi mesi l’anno, i paesini di cui sto parlando. Lo so perché ci sono stato e ho incontrato i Grandi Antichi. Lo sa evidentemente anche Mickey Keating, che ha scritto e diretto questo Offseason, uno di quegli horror dove non succede quasi un cazzo e che dividono irrimediabilmente il pubblico in due categorie: chi ama immergersi nelle nebbiose atmosfere di un racconto costruito tutto su suggestioni e ombre ai margini del campo visivo, e chi dopo mezz’ora mollerà il colpo urlando CHE PALLE!
Offseason è, per tagliare immediatamente il tentacolo all’entità cosmica, un film “ispirato” con “tante” “tante” “virgolette” a La maschera di Innsmouth di Hewlett Packard Lovecraft, e di conseguenza anche a Dagon di Stuart Gordon (un film basato sullo stesso racconto ma che prende il titolo da un altro per il puro gusto di fare confusione). È una storia di topi di città costretti ad andare a visitare i cugini di campagna in un viaggio che li porterà a confrontarsi con le vere origini della propria stessa famiglia. È una storia di una nuova generazione che torna alle proprie radici e le scopre contorte, marce, putrescenti e possedute dal demonio. È la origin story della riviera romagnola. SIGLA!
L’esistenza stessa di Offseason mi mette di buonumore: è solo l’ultimo di una lunga serie di horror marittimi usciti negli ultimi anni, un sotto-sottogenere al quale sono particolarmente affezionato perché tutto costruito sul parallelo, facile ma sempre efficace, tra l’infinita distesa di acqua, sale e morte che fa da sfondo ai vari The Beach, The Block Island Sound, The Rental, ovviamente The Lighthouse, e gli abissi dell’orrore di lovecraftiana memoria, cosmici, imperscrutabili e inevitabili. Quando un film ti porta al mare, magari d’inverno, magari in un luogo particolarmente isolato nel quale gli elementi sono un nemico da rispettare e da cui difendersi e non un’altra ennesima buona notizia dal meteo di oggi, sai già che proverà a convincerti a immergerti, a tuffarti, a camminare spavaldamente verso l’orizzonte ignorando l’acqua che sale e sale fino a ricoprirti e a soffocarti.
I film di mare invernale parlano di solitudine, di isolamento e agorafobia, di perdere la testa di fronte alla vastità della notte di quello che alla fine è sempre il loro vero protagonista. Che belli i film di mare invernale! Si possono permettere di girare in tondo per infiniti minuti perché tanto la loro stessa atmosfera è già filmica di suo, di raccontare una storia vecchia come il mondo a colpi di scrosci, sciabordii e campi lunghissimissimi di spiagge desolate.

Se sapeste chi è quella figura questa immagine vi farebbe molta più paura.
Offseason è la storia di Marie Aldrich e del suo, da quello che si capisce, ex-fidanzato con cui le cose non si sono chiuse benissimo George. Lei è Jocelin Donahue, che Nanni lodava già tredici (13!) anni fa parlando di The House of the Devil e che di recente, ahilei, è finita incastrata in quella roba brutta brutta che era Doctor Sleep. Lui è Joe Swanberg, che da queste parti conosciamo bene. Insieme a loro nel film c’è anche Jeremy Gardner, che tra le altre cose è stato in Spring di Benson e Moorhead e più di recente in Bliss di Joe Begos. Insomma: il giro è quello, e dovrebbe già darvi un’idea dei territori in cui si muove Offseason, di cosa aspettarvi e soprattutto di cosa non aspettarvi da questo horror che si muove alla velocità dell’ennesima metafora acquatica che al momento mi sfugge.
Marie vive a New York, ma ha da poco dato l’ultimo addio alla madre Ava che, come da testamento, è stata sepolta nella sua isola natale, uno sputo di terra separato dal continente da un ponte levatoio (ma moderno, con l’agvsss, non con la manetta) e nel quale la stessa Ava non voleva tornare – almeno così aveva dichiarato a sua figlia in un raro momento di lucidità, prima di ripiombare nella malattia mentale e cambiare le sue ultime volontà chiedendo che il suo corpo venisse riportato alle origini. Marie riceve un telegramma dall’omino del cimitero di Lone Palm Island (così si chiama l’isola, e vorrei dirvi qualcosa di più su questo nome ma rischierei di rovinarvi il film) che la prega di recarsi immediatamente in loco poiché la tomba della madre è stata profanata, e che cosa abbiamo intenzione di fare con questa brutta faccenda?

«Minchia se è brutta»
Marie, che ha sacrificato gli ultimi anni della sua vita per stare dietro alla madre morente e senile, non può fare altro che chiamare il suo ex fidanzato George, con il quale ha rotto più o meno in concomitanza con la morte della genitrice, per farsi accompagnare a Lone Palm e provare a risolvere la questione.
Ovviamente l’isola non è quello che sembra, o forse è esattamente quello che sembra.
C’è un paragone facile facile, extracinematografico e anche extraletterario, tra Offseason e Silent Hill: il paese desolato e isolato, la nebbia che avvolge e confonde, una donna sola che si aggira per questi set dell’orrore in cerca di qualcosa (una chiave per aprire una porta, una persona con cui parlare, un mostro da cui scappare) e con ogni passo si avvicina, confusamente ma irrimediabilmente, al confronto finale e alla risposta a tutte le domande sorte fin lì dalla nebbia. C’è quello ancora più facile con La maschera di Innsmouth, di cui Offseason è sostanzialmente un adattamento non dichiarato. Ci sono tantissime scene nelle quali Marie vaga senza una meta per questo luogo senza una geografia, e che si risolvono in un modo che fa pensare che dietro ogni svolta narrativa apparentemente casuale ci sia una volontà superiore che guida le sue pedine lungo un percorso prestabilito e orrendo.
Sto in altre parole dicendo che in Offseason non succede un cazzo, fino a che ovviamente succede; e che il vostro apprezzamento sarà direttamente proporzionale a quanto vi piace farvi assorbire da un luogo e da un’atmosfera più che da una storia. E anche a quanto siete disposti a perdonare certi grossi difetti di scrittura: tutta la mitologia del mostro è solo accennata e non sempre coerente, con un paio di sequenze in particolare che sono difficilmente spiegabili e comprensibili usando solo gli strumenti forniti fin lì da film. Spesso la logica è sacrificata in nome della rule of cool, e questo è OK. In altri casi, più rari ma impossibili da ignorare, è sacrificata in nome dell’uscire da un vicolo cieco narrativo, e questo è meno OK.

«Qui sono OK o meno OK?»
“Spesso OK, a volte meno OK” è una valutazione che si può estendere a tutto quanto Offseason. Ci sono scene nelle quali Mickey Keating dimostra di sapere come mettere in scena un certo tipo di orrore, ma c’è anche un abuso costante di transizioni atmosferiche che vanno bene le prime due volte, alla terza cominciano ad assomigliare a materiale filler per raggiungere la canonica ora e venti di durata. Ci sono momenti in cui Keating prova a movimentare l’azione, a far succedere qualcosa, e dimostra così che fa meglio quando se ne sta tranquillo e muove la macchina a un ritmo glaciale.
C’è un grandissimo finale che regala una delle inquadrature migliori dell’anno, il cui impatto viene in parte rovinato da un inutile epilogo che spara uno dopo l’altro tutti gli spiegoni di cui Offseason non aveva bisogno. C’è A, e io sono lì tutto felice che applaudo per A, e un attimo dopo arriva non-A e a me girano i coglioni perché non se ne sentiva la necessità. Fortunatamente, a conti fatti, la proporzione tra A e non-A è abbastanza nettamente a favore della prima, il che significa che al netto dei suoi difetti Offseason si può serenamente sedere al tavolo degli altri horror rivieraschi di questi strani ultimi anni.
Quote dagli abissi del cosmo
«Tipo La maschera di Innsmouth ma ambientato altrove!»
(Stanlio Kubrick, i400calci.com)
Una volta sono stato a Rimini a febbraio. Devo ancora scuotermi di dosso la solitudine.
Verissimo, i paesi della riviera in quel periodo sono tipo dei paesi post apocalittici…
A noi abitanti di Rimini piace moltissimo passeggiare sulla spiaggia solitaria in inverno. :D
Comunque la vera solitudine horror è a Goro e Gorino. :D
Qui siamo ai limiti de La Casa dalle finestre
Peccato che in Italia non osano mai fare film così…. Un bel lovecraftiano a Rimini per esempio verrebbe benissimo!
Però l’orrore vero lì è d’estate.
Haha, anche te hai ragione!
Me l’hai venduto, che devo dire: a me questi post-horror piacciono un fracco, anche se spesso sono noiosi o deludenti (come Innkeepers per dirne uno).
L’ultima immagine mi ricorda un po’ la copertina di “il bar sotto il mare”.
Manca solo Edgar Allan Poe.
Cinque alto Bandini!
Benni era il mio scrittore preferito a vent’anni, che nostalgia. Dovrei provare con qualche suo lavoro recente…
Io ho appena finito “Giura”… decisamente bello, decisamente non calciabile ahahah
Che poi anche i liguri di Lovecraftiano hanno parecchio eh…
Mi ricordo l’estate passata a Tellaro, i miei amici nerd erano impazziti per la chiesa del “polpo campanaro” (tentacoli ovunque).
Il dialetto spezzino poi va oltre le invocazioni a Shub-Niggurath.
Tecnicamente un film (che alla fine è un mezzo thriller, con una pennellata storica e un colpo di scena) su Rimini d’inverno in Italia lo abbiamo fatto.
È “La prima notte di quiete” di Valerio Zurlini e, pur non essendolo canonicamente, a modo suo è un film “calcista” (morbosità di provincia, suicidi, morti e rivelazioni, il tutto in uno scenario tendente al torbido).
Tra l’altro la prima notte di quiete, dicd Goethe, è la morte, perché è un sonno senza sogni.
Mi verrebbe quasi da chiedere una top 10 di horror -nello spirito- in cui non succede un cavolo più o meno recenti
Mi accodo!
Sembra interessante. Esce da noi, in sala o in streaming?
Non male, onestamente. Però, per portare avanti la suggestione del pezzo, quasi quasi un film del genere ambientato in una località di mare di quelle descritte con struttura in tre atti offseason-season-nuovamente offseason funzionerebbe, sulla carta.
@Stanlio seeeeenti, so che sto divagando un po’, ma conoscendo l’attenzione che riponi su entrambe le cose (HPL e videogame): come è The Sinking City? sta in sconto sulla switch del primogenito e mi aveva incuriosito
Bellissimo in maredinverno. Io e lei a Cervia, fidanzatini, che passeggiamo raccontandoci cose, ignorando quanto sarà dura la vita e ignorando soprattutto quel venticello glaciale che ci entra nei vestiti. Io e lei che torniamo in hotel e facciamo all’ ammore, perchè abbiamo le farfalline allo stomaco ma anche un sacco di freddo e dobbiamo scaldarci. Che bello il maredinverno. Io e lei innamoratissimi che però il giorno dopo mi ritrovo con un torcicollo e un mal di schiena da rendermi come un invalido della Grande Guerra, dobbiamo tornare a casa e solo io ho la patente. Che bello il ritorno a casa dal maredinverno, che sembrava una scena di Quasi Amici quando sono in auto, ma a posti invertiti e una Uno rossa del 1983 a 4 marce al posto del macchinone. Che forse il maredinverno non è poi così bello, a pensarci bene…
Non recentissimo, ma nella mia testa Two sisters rientra nella categoria e mi piacque assai… E adesso che ci penso anche in Paranormal Acivity (il primo) non succede un cavolo di niente, eppure fa paurissima mentre non succede, almeno quanto fanno ridere gli attori cani…
Scusate, era una risposta a Ourovoro…