Quando abbiamo appreso della scomparsa di Lino Capolicchio, che segue a non grandissima distanza quella del bravissimo Gianni Cavina, ci siamo detti con Nanni che era il momento di trattare finalmente La case dalle finestre che ridono, come alcuni lettori negli anni ci hanno chiesto a più riprese, anziché cavarcela con un coccodrillo.
La favola contadina trovava un suo scopo nel deterrente, per tenere buoni i bambini, per non fargli fare le cose, attraverso la paura (…) Ci lasciavano a dormire in queste stanze, in campagna, nel buio più totale, da quel punto in poi nell’oscurità ogni rumore, ogni scricchiolio, era il mostro della favola che veniva a prenderti.
Si veniva educati alla paura, oggi ai bambini la paura si reprime, vengono pervasi dall’immaginazione e dalle paure altrui, gli si toglie spazio per dare il loro minimo contributo a immaginare le proprie di paure (…) Da solo, nell’oscurità, con l’angoscia che arrivi un mostro, prima che ti addormentavi passavano ore, ore per elaborare come sarebbe stato questo tuo incontro col mostro. E lì si sviluppava questa religiosità della paura, un tipo di religiosità preconciliare, scaramantica, molto legata al miracolo, al senso del Peccato; la cultura contadina da cui provengo è ricchissima, un’educazione al fantastico, all’immaginazione, alla realtà che straborda nell’irreale. Io ho sempre percorso quella linea tra ombra e luce, che sta sul confine tra il possibile e l’impossibile, il pensabile e l’impensabile, il vero e il verosimile. Tutto nasce da quei cinque anni da sfollato in campagna durante la guerra
Pupi Avati in una conferenza del 2009 alla Casa del cinema di Roma
Questo estratto da una intervista fiume di qualche anno fa, spiega molto e bene di una parte della produzione cinematografica di Avati, quella fantastico/misterioso/orrorifica che lo accompagna da tutta la sua vita professionale, puntellando la sua lunga carriera ogni tot anni, a partire dal suo film di esordio Balsamus l’uomo di Satana nel 1968, fino a Il signor Diavolo del 2017.
Una carriera fatta di registri, temi e pure esiti molto diversi, altalenanti, ma nella quale rimane sicuramente encomiabile, nell’ambito del fantastico, la sua caparbietà e oculatezza nel cercare quella chiave di lettura propria, italiana, intima, fatta di una ricerca della paura universale partendo da una dimensione estremamente personale.
Una dimensione che paradossalmente oggi, in una normalità in cui ogni narrazione è standardizzata su canoni altrui, molti non riescono più a comprendere. Complice l’appiattimento dei codici espressivi, del linguaggio in senso lato, della standardizzazione delle storie, ma anche dei nostri luoghi.
La fatiscenza di certe nostre campagne è stata mondata dal Decoro, le campagne di vegetazione spontanea, asfissiante, infestante sono state bonificate e rese produttive con gloriose periferie industriali di capannoni, comunque oggi destinate all’abbandono a loro volta grazie a delocalizzazione e crisi industriale; i ruderi del mondo contadino sono diventati agriturismi dove profittevole e più spesso abbattuti. Il verde residuo nobilitato in parchi. Le periferie si estendono e connurbano con altre e, per arrivare nel Nulla, ci vuole sempre più tempo, c’è sempre più distanza, nel paese a più alto tasso di cementificazione d’Europa. Tra l’altro, una prefigurazione di questo deserto post-post-industriale, si affaccerà successivamente già in Avati con Zeder dove protagonista sarà un complesso abbandonato nella campagna bolognese, un non luogo di cemento armato che cela uno dei suoi orrori padani. Per chi cresce oggi in città o in un piccolo comune, insomma, è sempre più difficile ritrovare quelle paure ancestrali che hanno caratterizzato la nostra cultura popolare dalle società pre industriali a quella del dopoguerra, quelle di cui parla Avati poco sopra e che ritornano ossessive nei suoi film.
Da bambino, letteralmente sotto casa mia, in piena Roma, pascolavano ancora le pecore.
In quello che oggi è un centralissimo parco regionale protetto, con percorso crossfit e area agility cani, c’era ancora il pascolo libero.
Il pastore immagino venisse da un agro romano al tempo prossimo ma oggi allontanatosi via via a colpi di complessi residenziali, alloggiava per la notte accampato nel rudere di una vecchia casa che fu la casa del contadino che curava le terre della proprietà, il cui nucleo terriero oggi è il parco e che è da duecento anni in abbandono. La notte vedevo dalla finestra di casa dei miei la luce tremula del suo fuoco che conferiva al rudere un’aria sinistra, da sabba e si sentiva l’abbaiare incessante dei suoi cani. Da bambino mi capitò un giorno di trovare nei pressi del rudere la carcassa in decomposizione di una delle sue pecore, morta non saprei dire come e circondata da uno sciame assordante di mosche; il pastore mi vide e mi derise “Hai trovato la carogna, eh? Ti fa paura?” mentre rideva grassamente di me e della mia espressione di shock, mostrando una bocca sdentata e scappai, terrorizzato. Ecco questo mondo crudo era una costante in Italia, una dimensione che arrivava persino in città come Roma, nella quale tutti si imbattevano prima o poi e che pervade il cinema di Avati. Come mille altri insignificanti episodi accaduti a me e a voi tra visite dai nonni in campagna, campeggi e quant’altro, questi episodi sono quei piccoli passaggi oltre la zona confortevole degli spazi borghesi in cui ci siamo rinchiusi, via via negli anni; per alcuni sono stati gli unici episodi/lassi di tempo in cui esplorare questo spleen orrorifico, questo perverso Strapaese della decadenza tutto italiano che per molte generazioni è stata la normalità, in cui paura e morte tessevano il vissuto quotidiano insieme a vita e grazia.
La casa dalle finestre che ridono è il film/chiave di volta della sensibilità avatiana, non solo perché il più famoso della sua produzione macabra ma anche perché , essendo uno dei capisaldi di uno dei generi più amati del cinema italiano -il cosiddetto thrilling all’italiana- è riuscito a fissare ovunque nel pubblico, per primo, manualisticamente e puntualmente, le linee direttrici di un nuovo “gotico italiano” appena in tempo, prima che la stagione del cinema di genere italiano finisse con gli anni ottanta.
Un miracolo in zona Cesarini, azzarderei.
(dopo la guerra) eravamo innamorati dell’America, attraverso questi dischi jazz lasciatici dalle truppe alleate, questi spot di propaganda che vedevamo, andavamo al cinema a vedere i film americani essenzialmente per essere altrove
Pupi Avati in una conferenza del 2009 alla Casa del cinema di Roma
La voglia di infilarsi in un mondo immaginario, nel suo caso quello plasmato dagli americani nel dopoguerra, lo porterà al momento di pensare il suo Cinema a svincolarsi dallo stampo altrui, ad abbracciare l’idea di “genere” del cinema americano americano ma mutuandolo attraverso riferimenti, luoghi, storie, del tutto personali del suo immaginario. Sarà stata la lucidità datagli dalla sua formazione in Scienze politiche, o l’aver intrapreso una formazione artistica autonoma, da autodidatta, fatto sta che in maniera molto razionale impronta da subito un discorso volto all’universalità che passa però dalla personalità, dal suo “altrove”, quello meditato nelle terrificanti ore notturne passate nei casolari in cui visse da bambino sfollato il grande trauma della guerra. La tentazione, sembra su idea del fratello Antonio che è co-produttore del film, pare che fosse di ambientarlo negli USA (come da consolidata radizione di molti thriller, gialli e horror italiani del tempo) ma fortunatamente il regista non si convinse e oculatamente attinse ai propri orrori, nei luoghi in cui si formarono. Negli USA ambienterà altri film, successivi, ma con questo sentiva di dover cristallizzare una serie di intuizioni e ossessioni.
…Questi miei film sono orgogliosamente provinciali.
Pupi Avati, parlando dei suoi primi film in un’intervista Rai
Quando esce il film, il 16 Agosto del 1976, nonostante una buona reazione della critica e il riconoscimento di alcuni premi, il pubblico lo nota relativamente, probabilmente impegnato nelle vacanze e comunque attutito dal temibile vuoto torricelliano che ai tempi si creava nella vita pubblica e in città nelle due settimane di vacanza agostane.
Lo stato di culto sarà un lento e costante processo, attraverso repliche televisive notturne e VHS, man mano che cresceva la consapevolezza del “gotico italiano” che si andava perdendo con l’accelerazione della modernità, fino a diventarne l’emblema. In un impeto fustigatore Avati diventa quasi un Bosch e trasforma la pianura padana in un luogo infernale, una landa afosa dove il cielo non è mai azzurro e la vegetazione non è mai accogliente, in un collage di location tra i dintorni di Bologna e Ferrara, le desolate paludi di Comacchio, una landa piatta e fatiscente abitata da un’umanità meschina, disperata e deforme che vive vite slegate dal tempo e dalla morale, in un tribalismo violento, incurante della civilizzazione, appena mascherato da abiti e istituzioni. Una terra di mezzo tra mare e fiume in cui una volta entrati non si può più uscire. Torquato Tasso nel settimo canto della Gerusalemme liberata, descrive la trappola in cui cade Tancredi per un inganno di Armida così:
Come il pesce colà dove impaluda
ne i seni di Comacchio il nostro mare,
fugge da l’onda impetuosa e cruda
cercando in placide acque ove ripare,
e vien che da se stesso ei si rinchiuda
in palustre prigion né può tornare,
che quel serraglio è con mirabil uso
sempre a l’entrare aperto, a l’uscir chiuso
Come Tancredi, il restauratore Stefano, interpretato da Lino Capolicchio, si infilerà nella trappola della omertosa comunità palustre e come i pesci che sfuggono dal mare in tempesta e finiscono nelle reti dei pescatori della valle, finirà preda di questa tribù, in un crescendo di scoperte inquietanti che una dopo l’altra decretano la sua necessaria dipartita, pur a malincuore di alcuni, come il sindaco Solmi. Il più colpito nell’aspetto ma l’unico, assieme Coppola l’ubriacone del paese, che ha un sussulto di umanità. In questa comunità distorta le uniche due persone con un barlume di coscienza e che mettono in discussione lo status quo sono i due emarginati: un sindaco nano e un meccanico alcolizzato.
Una volta il potere era il mezzo per poter attuare il male impunemente, oggi è lo stesso con forme diverse; c’è il Mercato che domina incontrastato, ci sono gli influencer tremendi, il Mercato omologa le persone, che potrebbero essere autonome e avere un pensiero autonomo, ma nessuno si oppone perché, guai a contraddirlo, il Mercato ha sempre ragione
Pupi Avati alla presentazione del suo libro L’archivio del Diavolo, Cesenatico 2020
Oltre alle coordinate estetiche e archetipiche che muovono il racconto e le immagini del film, nel soggetto degli Avati con Maurizio Costanzo (sì, lui) e lo stesso Gianni Cavina, qui autore e attore straordinario, c’è una costante di critica alla società del dopoguerra e alla provincia italiana, irrimediabilmente bigotta, chiusa, opprimente e corrotta.
Tutta la storia si regge infatti su un sistema di potere appunto, un sistema omertoso, attuato dalla famiglia più ricca e influente del paese, che grazie ai suoi soldi ha sempre potuto coprire le sue malefatte, stabilendo un clima di terrore e una gerarchia ineluttabile, trasformando una comunità potenzialmente virtuosa di quella terra in un agglomerato marcio e distorto, come la vegetazione circostante, corrotta come le ringhiere arrugginite dall’umidità e fatiscente come le case sperdute nella desolazione padana.
La sua critica non risparmia nemmeno l’istituzione che Avati rispetta di più, la Chiesa cattolica, che insieme a istituzioni e forze dell’ordine è parte integrante del sistema, anzi ne è l’attore e forza più influente e da “cattolico intransigente”, come si definisce oggi, quella della chiesa è la posizione più scomoda delle varie che assegna alla comunità del film… Come del resto nella furia fustigatrice anche nei gironi di Hyeronimus Bosch non mancano sacerdoti e monache. Il candido e virtuoso Stefano diventa l’insolente da punire, il candido agnello sacrificale, la preda contesa nella lotta tra il Bene e il Male, una figura variamente tragica la cui sorte non si saprà bene nemmeno a fine film.
Notevole anche il successo nella costruzione dell’inquietudine, con una perizia che in futuro non gli riuscirà più del tutto, non solo nelle scelte estetiche ma anche nei tempi, nei toni, nell’equilibrio tra violenza e sottinteso, nel commento musicale; ricordo quando una notte d’estate, nel silenzio assoluto di una Roma deserta, lo vidi per la prima volta e già dalla sequenza seppiata, al ralenti, dei titoli di testa capii con quella litania distorta di essere di fronte a qualcosa di molto diverso dai tanti e amati thrilling all’italiana che avevo divorato.
Due anni dopo, nel 1978, una parte della squadra di La casa dalle finestre che ridono si ritroverà in quei luoghi, precisamente a Malalbergo, nella bassa ferrarese, per un film simile ma molto diverso; Avati e Costanzo alla sceneggiatura e Capolicchio con Cavina come protagonisti torneranno al mondo della favola popolare con il piccolo film Le strelle nel fosso, dal budget irrisorio e girato in pochissimo tempo e prettamente in improvvisazione, con uno spirito non macabro ma più propriamente di favola contadina, non in senso stucchevole ma senza le implicazioni efferate del thriller sanguinolento all’italiana, un ritorno al tema con toni diversi come a cercare di chiudere più in fretta possibile, prima che si chiudesse la finestra dei fertili anni settanta, la sua esplorazione cinematografica dell’estetica e dei significati di un “piccolo mondo antico” non conforme, inquietante e violento ma anche poetico e a suo modo aggraziato, come quello contadino italiano.
Un’indagine preziosa, quella di Avati, che vale la visione anche di film non completamente riusciti, perché unica nel suo fine nel cinema italiano e perché regala sempre dei momenti di grande suggestione e -diciamolo ogni tanto anche qui sopra- di arte.
Amato o odiato che sia, Avati quando arriva alle tematiche a noi familiari sui Calci è comunque un campione di personalità, un autore con una visione anche quando sbaglia e anche quando fa peggio di quello che potrebbe, per questo a lui deve andare comunque il dovuto rispetto.
Non è però il caso di questo film che è giustamente considerato un piccolo gioiello, un capolavoro del macabro all’italiana e lo è anche grazie a Lino Capolicchio e, soprattutto, a Gianni Cavina.
DVD-Quote suggerita
“Un esemplare unico nel macabro italiano”
Darth Von Trier, i400calci.com
Grandissima rece. “la religiosità della paura”. Avari è della generazione subito prima della mia, ha vissuto, come e più di me, queste intromissioni del deforme nella realtà che tendeva già allora alla sterilità della perfezione e pulizia. Quanto fosse complicato ottenere questa perfezione, essendo in Italia, è forse il tema svolto da Avati in questo e in altri film. Bravi.
Grazie per questa recensione, illuminante non solo sul film di Avati ma anche su tutto un contesto socio-culturale: l’introduzione mi pareva parlasse del Veneto. E un film con una storia del genere potrebbe essere benissimo ambientato nelle nostre province.
Darth hai scritto un pezzo della Madonna. Il terrore che mi suscitò il finale di questo film, visto in quel di viale Sabotino al primo anno di università, lo sento ancora sulla pelle.
grandissimo pezzo.
Il film invece, sarà che l’ho visto in tempi recenti e con l’hype dell’aura che lo ammantava, mi aveva un po’ deluso
complimenti, pezzo meraviglioso
Mi unisco ai complimenti, veramente un gran pezzo scritto molto bene
oddio è ambientato appena di là del Po, dove bassa veneta e emiliana (e un pizzico di mantova) si confondono, nei modi nel linguaggio, sull’alveo del fiume
Beh, che dire…grazie, ragazzi.
Sinceramente non pensavo che lo avreste trattato, anche perché in occasione dell’ultimissimo quanto disastroso film di Avati ne avevate fornito un quadro a dir poco impietoso.
E invece almeno questo merita una doverosa riscoperta.
Alla fine Avati si stancò ben presto dell’horror, dopo essersi reso conto che qui da noi con questo genere non si faceva una lira. E a parte qualche breve escursione in seguito, più nulla.
E sì. Qui ci lavorò anche Maurizio Costanzo, alla sceneggiatura.
Chi l’avrebbe mai detto, eh?
Possiamo dire che il vecchio trucchetto di educare mediante la paura fu ripreso alla grande da un certo partito, dopotutto la matrice é quella.
Ve le ricordate le famigerate Pubblicità Progresso?
Funziona sempre, il far credere che nel buio vi sia una zanna o un artiglio pronti a ghermirti.
Ma torniamo al film.
Ci si può ritrovare il medesimo spunto che ha dato vita ai primissimi lavori di Hooper e di Craven, ovvero l’idea che la vita bucolica non é solamente relax, raccoglimento e riflessione. Ma anche solitudine, isolamento e alienazione. Che spesso sfocia in vere e proprie sacche di arretratezza che possono culminare in autentica regressione ancestrale, bestiale e omicida.
Ci ho rivisto anche l’inquietante La Festa del Raccolto di Thomas Thyrion, con una comunità chiusa ma eventualmente disposta ad accogliere forestieri, perché qualcuno deve pur portare sangue nuovo. A patto che accettino le sue regole, per quanto astruse. E non si impiccino troppo, o le conseguenze possono essere nefaste.
Perché la comunità si chiude come un asolo essere sul curioso di turno, e lo ingloba fino a farlo sparire per sempre.
Ci sono misteri e segreti su cui é meglio sorvolare. Misteri che tutti sanno, ma di cui tutti tacciono. Perché i chiacchieroni fanno una brutta fine.
Non dico che il protagonista se la vada a cercare, ma quasi. Si fosse limitato a fare il suo lavoro, forse non sarebbe accaduto nulla.
Ma vuole sapere, a tutti i costi. E certe cose si pagano a caro prezzo.
La cornice (la bassa) é davvero inusuale, e per rivedere qualcosa di simile ho dovuto aspettare l’altra opera prima di uno che da quelle parti di é nato e cresciuto, ovvero il Liga col suo Radiofreccia.
Insomma, non sono poi tanti gli horror ambientati nei paesini da cui provengo.
Tempi e luoghi che non esistono più, ma di cui ho potuto vedere gli ultimi scampoli.
Oggi non é che sia cambiato poi tanto, eh. Sempre macerie rimangono.
Ora sono fabbriche e capannoni, un tempo erano casolari abbandonati.
Perché i giovani partivano per la città (oggi tornano in campagna a mettere in piedi gli agriturismi), e in quei posti formati da giusto qualche sparuto centinaio di anime (dannate) rimanevano, come dicono ad un certo punto nel film stesso, solo gli alcolizzati, i vecchi e i dementi.
Posti dove la follia trova terreno fertile.
Parte piano, con uno stile quasi documentaristico, per poi terminare con un finale choc. Anche se Avati un indizio lo aveva piazzato.
Certo, tutto si poteva immaginare tranne che finisse così, ma…in fin dei conti i posti da temere, lì, erano quelli dove c’erano i dipinti del Legnani.
Ovvero la villa, il casolare con le oscene bocche alle finestre e…la chiesa, appunto.
Alla fine pare che le sirene della polizia le abbiano aggiunte per dare una possibilità di salvezza a Capolicchio, (in fin dei conti il sindaco, pur sbattendogli la porta in faccia come tutti gli altri, alla fine ha un rimorso di coscienza e chiama la polizia), e che inizialmente non fossero previste.
Ma anche così, non c’é garanzia che sia scampato.
Rimane il dubbio. e un gran senso di inquietudine.
Ecco, la scena emblematica é proprio quella in cui il giovane restauratore, gravemente ferito, vaga disperato per il paese in cerca di aiuto. Ma nessuno esce, e viene di fatto abbandonato al proprio destino.
E’ andato troppo oltre, non si può far più nulla per lui.
Da riscoprire.
Innanzitutto volevo fare i complimenti a Darth, che scrivo sempre dei pezzoni. Sempre ben documentati.
Nell’ambito del gotico rurale vorrei ricordare Eraldo Baldini che ha fatto dei racconti popolari ambientati nella bassa padana la sua cifra stilistica. Ricordo sempre con piacere il suo racconto Re di Carnevale, ambientato in paesino rurale dove si festeggia un antico rito carnevalesco e gli stranieri non sono mai ben accetti.
Pur essendo nato in un paesino piuttosto urbanizzato, qualche ricordo ancestrale ancora sopravviveva, e mia madre per mandarmi al letto minacciava di chiamare il Momò, e mi ha detto mio cugggino che in casa sua, una vecchia abitazione, si aggirasse un Monacello che faceva i dispetti.
Ne so qualcosa.
Contiamo che all’inizio degli anni 80 intorno alle grandi citta’ era ancora tutta campagna.
L’urbanizzazione selvaggia era ancora agli inizi, e anche una ventina di chilometri nella tua testa di bambino si triplicavano.
Milano era a mezz’ora di macchina, magari. Eppure appariva lontana quanto irraggiungibile.
D’estate, se non avevi la possibilita’ di partire, rimanevi in mezzo al torrido nulla. E d’inverno la nebbia inghiottiva tutto.
Darth ti sei immortalato.
Parlando di Avati e Cavina non può non venirmi in mente Regalo di Natale, film stupendo che inquadra perfettamente gli uomini della generazione di mio padre e mio zio; sarebbe bellissimo se lo trattaste anche se so che non è calciabile (ma magari una super-eccezione super-meritevole…).
+1 per “Regalo”. Da anni, il mio film natalizio del cuore.
Credo di aver appena sbloccato un achievement ultra rare. Che bello.
Facciamo così: se qualcuno dei miei redattori dovesse scriverne altrove, in qualche modo lo segnalo. Può andare?
E lo chiedi pure Capo Nanni? Ma certo che sì!
Regalo di Natale è ovviamente del tutto incalciabile.
Ma è un capolavoro vero. Tra l’altro una pellicola che rende l’idea del poker molto meglio di tanti celebrati film americani, ho avuto l’occasione (il privilegio?) di parlare in vita con gente che ha realmente vinto e perso patrimonio giocandoci, e tutti costoro lodavano la bellezza di quest’opera
Buongiorno, nel film Zeder l’edificio fatiscente di cui si parla sopra (nel film è chiamata “colonia di Spina”) è la colonia Varese di Milano Marittima oggi ancora visibile, seppure in condizioni peggiori di conservazione. Non è dunque, come riportato dal recensore, un edificio ubicato nel territorio bolognese.
Buongiorno.
La reale ubicazione del luogo non è quella del film, dove quei terreni (i terreni K) sono da qualche parte verso la riviera romagnola, indagano nei dintorni di Rimini tra cimiteri e terreni abbandonati. Come anche in La casa dalle finestre che ridono (e poi in L’arcano incantatore, Il signor Diavolo etc) i luoghi padani dei film di Avati sono dei collage di location anche distanti dalla pianura padana, per dare un’idea composita ma verosimile del senso di quei posti per Avati.
Accenno a Zeder nel pezzo per parlare appunto del senso dei luoghi NEL film, dove il film si svolge e non semplicemente in cui il film è solo fisicamente girato.
Mi accodo ai complimenti per la splendida rece.
Aggiungo un vecchio aneddoto raccontato dallo stesso Avati.
“Nel 1986 stavo realizzando al Bandiera Gialla di Rimini un programma per la televisione e ad un certo punto ho sentito, dall’altra parte dello studio, qualcuno cantare con un timbro, una voce, una grinta e una ruvidezza che mi ricordavano molto un modo di cantare che mi era caro perché era quello dei cantanti di colore. Allora chiesi chi fosse questo cantante americano e mi risposero “si chiama Zucchero”. Zucchero? Ma che nome è? Poi ho scoperto che invece si chiamava Adelmo che è un nome delle nostre terre, della campagna. Nessun nobile aristocratico emiliano si chiamerebbe mai Adelmo!”
Una piccola richiesta a Darth, che leggo essere appassionato di “thrilling all’italiana”, sarei curioso di conoscere una tua personale top ten…
Negli anni si sono avvicendati tanti preferiti
Te ne butto estemporaneamente dieci (ma sarebbero almeno quindici) che oggi amo molto.
Almeno la metà non sono assoluti: di alcuni amo la storia, di alcuni degli elementi, di altri un po’ tutto.
In rigoroso ordine sparso, oltre La casa dalle finestre che ridono, beninteso.
Sette note in nero, Mio caro assassino, Cosa avete fatto a Solange?, Profondo Rosso, Gatti rossi in un labirinto di vetro, Il profumo della signora in nero, Macabro, L’uccello dalle piume di cristallo, La corta notte delle bambole di vetro, I corpi presentano tracce di violenza carnale.
@Darth, a proposito de I Corpi Presentano… sai per caso che fine ha fatto Patrizia Adiutori? Ha recitato in un bel pugno di film nei primissimi anni ’70 dopodiché è svanita nel nulla.
@Darth… mi scende una lacrimuccia… 8 su 10 rispecchiano i miei gusti. E solo perché Macabro e la Corta Notte devo ancora vederli.
Rimedierò quanto prima.
Ragazzi, non ci crederete, ma pure io ci ho scritto un articolo settimana scorsa, e quando ho citato Costanzo ho messo il “sì, lui” tra parentesi XD
https://www.giornalepop.it/padania-horror-la-casa-dalle-finestre-che-ridono/?fbclid=IwAR2ki-klraXTFIU6wrTGw778-_zE05Q5AVTky3SmKLXafI2NmPIPo4znZmY
Pezzo semplicemente meraviglioso, complimenti e grazie!
L’articolo è bellissimo, come giustamente hanno detto in molti.
Ma il film non mi è mai piaciuto. Sarà che non ho mai vissuto in luoghi del genere e quindi sono completamente impermeabile al loro fascino, ma l’ho sempre trovato noioso. L’ho visto 2 o 3 volte, ogni volta con la motivazione che se è un film cosi celebrato deve avere per forza qualcosa di valido ma niente. Sicuramente ce l’ha ma mi sfugge proprio, sarò io…
Articolo bellissimo ma ancor di più le didascalie sotto le foto. Fotoniche 🤣🔝
il film l’ho recuperato a distanza siderale dall’uscita e, pur sapendo qualcosa della passione di Avati per il genere, mi aveva sinceramente stupito…inquietante e non invecchiato male come magari altri della stessa epoca. Altrettanto sinceramente non so come abbia potuto partorire una roba come Il Sig Diavolo..(però ci ha dato grandi gioie nella sezione commenti alla recensione..ah le maestranze ..)
Non per riaprire vecchi discorsi, ma se posso dire la mia visto che Avati a mio modo lo avevo pure difeso…
Quella bruttura (perche’ ne convengo, e’ davvero pessimo) e’ stata frutto di diversi fattori., probabilmente.
L’eta’, principalmente.
Temo che Avati non abbia piu’ le energie e la lucidita’ necessarie per mettersi dietro alla macchina da presa.
E poi, non penso si possa pretendere un horror moderno, da parte sua.
Ha il suo modo di fare film, figlio dei suoi tempi e delle sue esperienze.
Sicuramente datato, questo si’. Ma ormai non si puo’ piu’ evolvere.
Credo che diranno lo stesso di Tarantino, tra una trentina d’anni, se provera’ ancora a dirigere.
Anche Cameron e Spielberg in certe produzioni recenti hanno ingenuita’ che potevano andar bene negli anni 80, ma che oggi inevitabilmente stonano.
Come ne La Guerra dei Mondi, quando escono dalla casa e vedono che e’ tutto distrutto a parte l’auto, perfettamente integra con tanto di strada percorribile.
O in Avatar, dove il protagonista rientra nel corpo del Na’vi artificiale dopo il raid terrestre. Per scoprire che e’ rimasto perfettamente incolume nonostante fosse rimasto inanimato in mezzo ai bombardamenti.
O in Ready Player One, quando i protagonisti si disconnettono, escono dalle loro case e si ritrovano tutti insieme in…boh, un minuto, nonostante non si siano di fatto mai visti in faccia prima.
per carità l’anzianità come giustificazione ci sta…resta il fatto che nessuna credo gli abbia pintato una pistola alla tempia per girare quel film…poi non parliamo di Argento o altri che han sempre sguazzato nel genere, Avati ha fatto altri mille film di diverso tipo che, seppur rispettabili, potremmo serenamente definire dimenticabili.
Perdonatemi l’OT
ma se ne è andato Remp Williams…
RIP
Non farete un pezzo su di lui?
https://www.i400calci.com/2022/05/fred-ward-prey-alan-ritchson-fast-x-true-lies/
Avati non sfrutta (solo) il meccanismo della microcultura chiusa del villaggio che estrania lo straniero ma affonda le radici del malessere in profondi legami tra un esoterico volgare (nel senso di popolano) e la religiosità cristiana mai veramente capita nella sua dimensione teologica. Mia nonna recitava il Rosario in latino condendolo con strafalcioni in dialetto bresciano proprio perché incapace di comprendere non solo la lingua ma la stessa liturgia.
Avati ricerca quella paura nata da questa sorta di ibridazione secolare che si viveva nelle nostre campagne (da nord a sud): ave Maria in latino e filastrocche in dialetto per gli aruspici tratti da cipolle tagliate il 21 dicembre, divinazioni sul tempo il giorno di Santa croce, e così via.
L’argomento è molto ben trattato nella recensione de l’arcano incantatore in questo sito.
Lancio una provocazione: quell’ambiente anfibio tra cattolicesimo e fattucchiere lo si trova ben rappresentato (in sorta pecoreccia e parodistica) ne L’Esorciccio dove si contrappone all’esorcismo cattolico quello popolare con aglio, cornetti e varie amenità. Il tutto (per me) non era (tutto) solo parodia di bassa lega: quando si rappresentano i villici con galline e caciotte in fila dal santone non era una scherzo ma per rappresentazione di una realtà ben conosciuta (e concreta) che fungeva da base (reale appunto) per il racconto comico e per tratteggiare un mondo fatto da (demo)cristiani che temevano le “fatture”, diavoloni popolani che ingravidano fanciulle e tutto quel miscuglio di superstizione che era la vera religione delle campagne italiane.
Avati ha colto quello spirito che però (nella parte forse legata al cristianesimo) non c’è più e mi chiedo se tale formula oggi, usata da un regista più giovane e capace, possa ancora funzionare.
Saluti
Ciao, come puoi vedere anche per L’arcano incantatore la recensione è mia.
Non volevo ripetermi su quei concetti, comunque contento che unendo le due ci possa essere una disamina più completa, per chi volesse.
Per quanto divorata dall’urbanizzazione selvaggia, la campagna inquietante e infestata dove vivo io esiste ancora: basta cercarla lasciando il cellulare a casa.
Noto però che la generazione dei miei nipoti (nati negli anni 2000) non è particolarmente interessata alla ricerca del misterioso e del macabro fuori del giardino di casa, come lo ero io alla loro età.
Sarei curioso di fargli vedere La casa dalle finestre che ridono per vederne la reazione, ma temo sia di totale indifferenza, come ai loro coetanei e a quelli che verranno dopo di loro: cosa resta di un’opera narrativa se il pubblico non possiede più la chiave di lettura per farsene emozionare?
Film che ho visto tre volte e tre volte mi sono cagato in mano. Non avrà i guizzi di un film di Dario Argento, ma, a livello di atmosfera, non teme rivali.
Le Case io l’associo fisso ad un altro thriller de noantri, uscito pure prima di Profondo Rosso, che m’ha messo addosso tanta inquietudine quanta quella delle Case e con cui condivide, tra le altre cose, il tipo di finale che ti fa ghiacciare il sangue nelle vene.
E’ “Il profumo della signora in nero” che consiglio di recuperare a chi non lo conosce, che secondo me sono di più di quanto il titolo meriterebbe.
Una dei più bei articoli letti sul sito.
Complimentones!
Veramente complimenti per la recensione! Assolutamente a fuoco in tutto, incluso l’analisi sociologica. Aggiungo che abbiamo nascosto la polvere delle nostre paure ataviche sotto il tappeto ma è sempre lì e tornerà fuori prima o poi.
Una recensione all’altezza del film – grazie!