Era da tempo che sognavo di scambiare due parole con Joey Ansah.
Uomo dai mille talenti, e uno dei nomi che vengono sempre fuori per primi quando si tratta di cinema di menare in zona UK, è famoso principalmente per la web serie Street Fighter: Assassin’s Fist da lui ideata, realizzata e interpretata, ma ha un signor curriculum che include Batman Begins, Attack the Block, Mission: Impossible – Fallout, The Old Guard, e soprattutto The Bourne Ultimatum in cui interpreta Desh e si esibisce nel miglior combattimento di tutta la saga.
Figlio di Kofi Ansah, cresciuto in UK ma con parentesi in Ghana, Joey non è solo un uomo di cinema d’azione a tutto tondo che ha recitato, fatto stunt, scritto, diretto e coreografato, ma è anche una macchina di aneddoti e soprattutto una persona dalla passione contagiosa con un’idea chiara e forte su come i film da combattimento sono e andrebbero fatti.
Mi sono goduto la sua intervista con Scott Adkins su The Art of Action e il suo recente panel al London Action Festival, e sapevo che sarebbe stato il tipo di persona con cui avrei voluto parlare per ore: sono riuscito a organizzare una chiacchierata che spaziasse tra la sua esperienza e le sue opinioni, ed è stata veramente dura selezionare gli argomenti.
A voi:
Iniziamo dal tuo background marziale: so che sei specializzato in tae kwon do, ma che hai anche imparato il ninjutsu? C’è stato quel periodo tra gli anni ’80 e ’90 in cui veniva insegnato persino in Italia e chiunque della mia generazione aveva come minimo un compagno di classe che lo faceva, ma nessuno ha mai davvero capito se fosse una cosa seria o meno… Qual è stata la tua esperienza?
Come molti ragazzi negli anni ’80 sono cresciuto anch’io affascinato dalla rappresentazione dei ninja sullo schermo, dai combattimenti di arti marziali alle tecniche stealth, le shuriken, le bombe fumogene… E così ho cominciato a leggere libri e articoli vari. Quando ho scoperto che c’era effettivamente un corso di ninjutsu non ci potevo credere! Vedi, io sono cresciuto a Londra, poi a 9 anni mi sono trasferito in Ghana – è stato lì che ho iniziato a fare tae kwon do – e cinque anni dopo sono tornato in Inghilterra ma a Plymouth, nel sud ovest. Il corso di ninjutsu era lì, e nello specifico si trattava di Bujinkan ninjutsu – probabilmente hai sentito parlare del Bujinkan, oggi come organizzazione è un po’ una barzelletta, specie per chi segue McDojo Life che è un canale Youtube dedicato a smascherare finte arti marziali. Ci sono molte tecniche insegnate nel Bujinkan ninjutsu che sono completamente farlocche. Quello che mi ha aiutato è che Plymouth è la sede della Royal Navy, e quindi è una città piena di soldati, di marines, di “duri”. Quasi tutti gli studenti di questo corso erano commandos della Marina Reale, veri e aggressivi uomini da combattimento, non nerd che volevano solo vestirsi da ninja e mettersi in posa. Per cui ci si allenava seriamente. Più che a colpire ho imparato molte tecniche di grappling, o di sfruttamento delle giunture, prese per immobilizzare o strangolare, e le “mosse sporche”. Il ninjutsu ti insegna a coprire gli occhi dell’avversario, o coprire il naso per non farlo respirare. C’erano tecniche molto utili da un punto di vista dell’autodifesa che uso ancora oggi. Il ninjutsu poi ha anche un lato acrobatico, capriole, salti mortali, e ho continuato a svilupparlo imparando anche ginnastica acrobatica e capoeira.
Ho iniziato da quello perché alla fine tu sei realmente diventato un ninja: il tuo primo lavoro nel mondo del cinema è stato appunto fare il ninja, in nientemeno che Batman Begins…
A quel punto della mia vita stavo facendo un corso di laurea in Biologia e contemporaneamente cercavo di entrare nel mondo del cinema. Ho fatto il modello, la comparsa, qualche stunt, ma Batman Begins è stato il primo film serio che ho fatto. Ho dovuto fare un provino: volevano dei ninja, cercavano qualcuno che sapesse fare i tricks, le acrobazie, usare la spada… Mi hanno chiesto quella mossa che chiamano “kick the moon”, dove in pratica esegui una specie di calcio a un pallone ma poi prosegui il movimento e fai un salto mortale all’indietro atterrando in piedi, e l’ho dovuto fare mentre tenevo una spada. E ho dovuto fare anche il “butterfly twist”, il salto con giravolta orizzontale, sempre con la spada. Non molti lo sapevano fare all’epoca, per cui mi hanno preso. Ed è stato incredibile vedere Christopher Nolan dirigere, guardare Christian Bale, Liam Neeson e Ken Watanabe recitare, e in generale tutto il processo di filmmaking. Una produzione di quelle dimensioni ti apre gli occhi e ti fa vedere il livello di dettagli che bisogna curare per fare un film. È stato anche il momento in cui ho deciso che non volevo fare lo stuntman, ma volevo fare l’attore che esegue i suoi stessi stunt, perché a volte fare lo stuntman significa stare fermo ad aspettare tre giorni: stai fermo, aspetti, poi a un certo punto dicono “chiamate lo stunt di Christian Bale”, tu arrivi, caschi per terra o fai una capriola, ed è tutto lì, richiamano Christian Bale che continua la scena. Ma nel frattempo li guardavo recitare, e mi si rizzavano i peli sul collo, e pensavo “Questo! È questo che voglio fare!”. E mentre ero lì ero quasi più preso dal dramma e dai dialoghi che dai momenti d’azione e pensavo “Voglio fare quello! Ma voglio fare anche le acrobazie fighe, le cadute, i calci… Voglio fare entrambe le cose”. È stato il momento in cui ho deciso che avrei dovuto continuare ad allenarmi nelle arti marziali e negli stunt, ma che dovevo diventare un attore.
Passiamo a The Bourne Ultimatum. Ti ho sentito raccontare mille aneddoti, tra Matt Damon e Jeff Imada, ma mi piacerebbe approfondire soprattutto la tua esperienza con Paul Greengrass. Come ti sei trovato a lavorare con lui e con il suo modo particolare di girare le scene d’azione, tese e adrenaliniche ma anche confuse e movimentate, dove non è facile capire cosa sta succedendo?
Vedi, il background di Paul Greengrass sono i documentari, i reportage di guerra. Il suo stile è documentaristico: la cinepresa è quasi sempre a mano, non c’è quasi mai steadycam, pochissimi dolly. Immagina il tipo di persona che magari si ritrova in zona di guerra, gli stanno sparando mentre sta filmando e deve stare chinato… Greengrass ha preso l’intensità e l’immediatezza della sua esperienza come giornalista in zone pericolose e l’ha messa nei suoi film, che è il motivo per cui i film di Bourne sono pieni di tensione. Molto di quello è dovuto alla vicinanza della cinepresa al soggetto: a volte usa la cinepresa come se fosse una spia, che si nasconde e osserva le persone a distanza ravvicinata. Per quanto riguarda le sue scene d’azione… Penso che a volte aggiunga extra-tremore solo dopo al montaggio. Ti garantisco che se vedessi il girato nudo e crudo non è così mosso come il risultato finale. Fa decisamente aggiungere qualcosa in post-produzione per farlo sembrare ancora più caotico, tutte cose che magari sono difficili da ricreare in diretta per ottenere l’effetto preciso che cerca. La cosa interessante di Paul è che non dà molte direzioni per quanto riguarda l’azione: non ti dice cosa vuole, ti dice solo se qualcosa non gli piace. Che a volte è frustrante, perché ci sono dieci modi diversi in cui io potrei fare qualcosa, e allora provo il primo e lui “Non mi piace”, provo il secondo e lui “No”, alla fine arrivo al settimo e lui mi dice “Perfetto!” e come dire, se mi avesse descritto subito un po’ meglio cosa intendeva ci sarei arrivato più in fretta… Ma alla fine ti lascia libero di creare. Il costume di Desh, i pantaloni militari, le scarpe, la giacca, persino il modello di pistola… Ho scelto tutto io. Sapevo dallo script che la mia pistola avrebbe avuto un silenziatore, e ho chiesto allo specialista per le armi di darmi il modello compatto della HK USP, in modo che anche con l’aggiunta del silenziatore non fosse enorme e rimanesse maneggiabile. È stato bello avere la possibilità di crearmi da solo questi dettagli. E per quanto riguarda i combattimenti Paul più o meno si fa da parte e lascia lavorare i coreografi, Jeff Imada e Dan Bradley.
Ero curioso perché Greengrass è forse l’unico che riesce ad essere efficace con questo stile, non ho visto nessuno provare a imitarlo e riuscirci. E tutti quelli che hanno frainteso il suo stile l’hanno usato principalmente come scusa per prendere attori che non sapessero necessariamente combattere e nasconderne i difetti. Ma Greengrass ha preso un coreografo leggendario come Jeff Imada, e gente come te che sa combattere sul serio, per cui mi chiedevo com’è preparare una scena di combattimento per lui sapendo che comunque alla fine non si vedrà esattamente tutto…
Ci sono state molte discussioni con Jeff, e anche con Paul. Discussioni filosofiche su come riprende i combattimenti. Perché vedi, Paul mi ha proprio detto letteralmente “meno vedi, più credi”. Che penso sia allo stesso tempo vero e falso. Funziona più che altro nell’horror: prendi un film come Alien o Predator: ti fanno vedere la minaccia solo di sfuggita, e in questo modo gli credi di più, perché se li vedessi bene da subito magari inizieresti a pensare “mah, che costume scemo”. O anche con Batman: Batman agisce quasi sempre al buio perché alla luce del sole perderebbe parte del suo potere, parte della suggestione di ciò che rappresenta. Ma come ho detto nel panel che sei venuto a vedere: Paul è un impressionista. Vuole darti l’essenza. Ad esempio: in zona di guerra puoi chiedere della stessa battaglia a tre soldati diversi, e ti racconteranno tre versioni leggermente diverse. Il cervello non ricorda tutti i dettagli durante un combattimento, con tutta l’adrenalina, la disperazione e la paura che sta provando. In quel senso quindi, se ci pensi, tutto sommato chi se ne importa se il personaggio ha bloccato in un modo, o parato in un altro, o se ha colpito in un modo piuttosto che un altro. A Greengrass non importa. I film di Bourne sono famosi per avere memorabili combattimenti di arti marziali, ma lui non li approccia dalla prospettiva del fan di arti marziali: a lui interessa “la persona A sta cercando di uccidere la persona B”. Tu ci credi, che questa persona sta cercando di uccidere quell’altra persona? Perfetto. Prova a confrontarlo con un altro film in cui vedi tutto il combattimento alla perfezione: ci credi veramente che stanno cercando di uccidersi? Spesso no. In quanti film di arti marziali puoi dire di aver creduto che i due personaggi volessero uccidersi, piuttosto che semplicemente inscenare una lunga coreografia fighissima facendo faccette drammatiche? Per rispondere alla tua domanda, alla fine fai del tuo meglio: non sai esattamente cosa si vedrà alla fine nel montaggio, per cui ti assicuri che tutto sia credibile ed eseguito col massimo dell’impegno. Il resto è fuori dal tuo controllo.
Capito. In pratica quindi tu prepari ed esegui una coreografia pensata comunque come se si vedesse tutta, e poi lasci che Paul tratti tutto come ritiene più consono.
La cosa più importante è l’intenzione. Metti che la coreografia prevede che tu mi tiri un pugno, io lo paro e ti tiro un gancio in faccia. A volte nei film vedi qualcuno che tira il gancio alto, per darti una chance di chinarti sotto, oppure lo tira corto, per darti più spazio per farti indietro con la testa. Ma a quel punto manca l’intenzione. Matt Damon è fantastico quando si tratta di combattimenti. Io e lui siamo arrivati a un tale livello di intesa per cui ad esempio c’è questa scena in cui io schivo due pugni, paro il terzo e poi gli tiro un gancio in faccia, e gli ho potuto dire “Matt, io ora ti tiro un gancio sulla mascella. Non miro alto e non miro corto: miro alla mascella. Ce la farai a spostarti?”. E lui “Sì.” “Sei sicuro? Perché se ti becco…” “No, stai tranquillo, vai”. E a quel punto è perfetto, perché non devi pensare “meglio se miro alto”, ma puoi concentrarti unicamente sull’intenzione del personaggio, che è “ora ti stacco la testa”. Se tu prendi un singolo fotogramma da quel momento, tutto quello che riguarda il mio corpo – il movimento, la mia espressione, la distanza – è credibile, è reale. Là dove al contrario altrove vedi troppo spesso combattimenti fastidiosissimi in cui si tirano colpi belli ampi che sono facili da parare, ma che se controlli le distanze scopri che magari si sarebbero colpiti con l’avambraccio. Io voglio vedere il pugno che mira alla faccia: è a quel punto che il pubblico sente il pericolo.
Arriviamo a Street Fighter: Assassin’s Fist. A questo punto della tua carriera hai deciso di fare una cosa tua, e hai creato un corto su Street Fighter che ha avuto successo e ha finito per generare un’intera web serie. Qual era la tua intenzione primaria nel dedicarti a questo progetto?
L’intero motivo per iniziare questa vera e propria crociata che ho dovuto affrontare per realizzare Street Fighter: Assassin’s Fist era la frustrazione nei confronti dei film. Ero un grande fan dei giochi ma non solo, amavo proprio tutto, dalla musica agli stili di combattimento, ho letto i fumetti, ho visto gli anime… Ma vedere il film con Van Damme, e poi The Legend of Chun-Li… Ho pensato “a Hollywood non ce la possono fare”. Perché a meno che la persona che scrive e dirige non sia un fan che capisce il gioco, come ti puoi aspettare che venga tradotto fedelmente per lo schermo? Avevo appena finito The Bourne Ultimatum, per cui ero all’apice, sentivo una grande fiducia in me stesso e ho pensato di usarla per questo progetto partendo dal corto su Youtube, Street Fighter Legacy. Avevo un budget grosso per così pochi minuti, ma volevo che tutto fosse perfetto, i costumi, le musiche, le mosse speciali… Per la mossa di Ken ad esempio, lo Shoryuken, abbiamo usato vero fuoco. Sul serio, riguarda il primo piano. Abbiamo usato il gel speciale apposito e gli abbiamo dato davvero fuoco alla mano. Abbiamo curato tutti i dettagli, persino il vento, la fascia per la testa che svolazza, tutte le minuzie del costume. Dopo il successo del corto ho pensato che fosse il momento di espandere sulla lunga durata e, soprattutto, il momento di raccontare la storia di Ryu e Ken. Sono i personaggi principali, i più famosi! È incredibile che si vedano così poco sia nel film di Van Damme che in quello seguente: è come fare un film di Super Mario senza Mario e Luigi e farlo solo sulla principessa, il fungo e Yoshi. Volevo fare una storia autentica, ambientata in Giappone, e volevo girare una lettera d’amore alle arti marziali. Ho creato dei kata appositi adattando gli stili di combattimento del gioco. Ho curato persino il modo in cui imparano le tecniche speciali, l’hadouken, il tatsumaki, lo shoryuken: non è che semplicemente di colpo possono fare magie, ci mettono del tempo, per cui appena le imparano ti sembra credibile. Per tutto quanto c’è un motivo, uno scopo e una spiegazione, una logica. E i veri fans di Street Fighter l’hanno amato. Poi come saprai ci sono state mille difficoltà a fare un vero e proprio tv show dopo la web serie, ma almeno sono riuscito a fare qualcosa di autentico, e l’ho fatto a modo mio: l’ho scritto e prodotto insieme a Christian Howard (interprete di Ken), l’ho diretto, l’ho coreografato, l’ho interpretato nei panni di Akuma – personaggio fighissimo, praticamente il Darth Vader di Street Fighter. C’è tutto il mio dna. È stata forse la più grande esperienza creativa della mia vita, e spero di poter fare di nuovo qualcosa di simile.
Green Street 3, con Scott Adkins: ho amato molto il concept dei combattimenti, questo insolito format a squadre cinque contro cinque, che tu hai dovuto coreografare. Forse è ancora a tutt’oggi una delle idee più fresche che ho visto negli ultimi anni. Com’è stata la sfida?
Il problema era che il Green Street originale era un film violento sugli hooligans. Qualcuno, nel vedere improvvisamente combattimenti di arti marziali o MMA ha sicuramente storto il naso… Gli hooligans non combattono così, non sono allenati. Probabilmente piacerà ai fans delle arti marziali perché ce n’è un sacco, mentre i tifosi di calcio penseranno “ma checcazzo è ‘sta roba”… Ma era quello che voleva il produttore. Il fatto è che ci sono almeno dieci combattimenti nel film, tutti cinque contro cinque, per cui se si limitassero a darsi sempre e solo cazzotti e testate diventerebbe noioso in un istante. È stata l’occasione di lavorare con Scott Adkins, di cui sono amico da una vita, e di recitare con lui e creare tutte quelle coreografie con praticamente zero budget. Pensa a quanta coreografia serve in un film del genere: ogni sfida ha cinque coppie, cinque combattimenti individuali, che ogni tanto si incrociano… uno batte uno, e poi due contro uno, ecc… Era veramente una mole di lavoro incredibile, e non è stato facile dover chiedere a tutta quella gente di lavorare per così poco, in piena notte, in location orribili e pericolose, parcheggi, discariche… Il budget era £250.000. Era ridicolo. Per dire: un episodio di una serie tv oggi costa come minimo due milioni e mezzo. Ma ci sono degli ottimi combattimenti. È stato stressante, ma una bella esperienza. Mi piacerebbe rifare qualcosa del genere con i combattimenti a squadre, è come dici tu, non è una cosa che si vede spesso.
Hai coreografato anche U.F.O. (distribuito anche come Alien Uprising), un film poco conosciuto del 2012 con protagonisti il figlio di Pierce Brosnan e la figlia di Van Damme, e un breve ruolo anche per Jean-Claude in persona in una scena in cui combatte contro la figlia.
Sono un grandissimo fan di Van Damme fin da ragazzino, puoi immaginare cosa significhi per me avere avuto la possibilità di coreografare un combattimento per lui… Mi ricordo che per prima cosa mandò il suo bodyguard a guardare i combattimenti che stavo creando, per vedere se erano buoni o farlocchi. Mi arriva quindi questo tizio enorme, con l’aria di chi si crede probabilmente un mago delle arti marziali: gli faccio vedere le coreografie, fa un cenno di assenso, se ne va, dà l’ok a Van Damme, Van Damme arriva e si mette a disposizione. È stato divertente dover dare indicazioni a Van Damme, dirigerlo, correggerlo… Ma anche questo era un film a basso budget. C’è anche un bel combattimento tra me e Sean Brosnan. Quello è stato figo, e Sean ha fatto un ottimo lavoro. Non aveva mai combattuto sullo schermo fino a quel momento, ma l’ho allenato io e lui non ha usato nessuna controfigura. Insomma, c’erano dei bei momenti, presi a sé. Ma di nuovo: un’esperienza avventurosa. Sono quei momenti che se ti ci fermi a pensare sono assurdi: “Stiamo facendo un film di Van Damme a Derby, in Inghilterra, con la figlia di Van Damme e il figlio di Pierce Brosnan”…
Passiamo alla domanda topica: che ne pensi dell’attuale scena action? Perché ci abbiamo messo così tanto tempo per arrivare finalmente a John Wick?
Beh, tanto per cominciare l’industria cinematografica non è guidata dalla creatività, ma dai soldi e dal basso rischio. E questo è il problema principale. Ad esempio: Van Damme era un attore di “serie B”, ma i suoi film uscivano comunque al cinema, perché a quei tempi costava poco farlo. Ora non è così, per cui i film che escono al cinema sono spesso solo quelli con grandi nomi, e non ci sono più film d’azione di “serie B”. Questo fin dai tempi di Matrix. È buffo se ci pensi, perché oggi diresti che Keanu Reeves è la soluzione, ma Keanu Reeves è stato anche la causa del problema… Quando uscì il primo Matrix, presero un attore che non era un marzialista e lo allenarono per sei mesi affinché potesse sembrare un marzialista convincente sullo schermo. E quindi Hollywood pensò “non ci servono attori action come Van Damme o Jackie Chan, prendiamo… Brad Pitt, o Tom Cruise, o chiunque vogliamo. Prendiamo un attore affidabile per le parti drammatiche, e semplicemente lo alleniamo nelle arti marziali”. E quindi quella fu la morte della star d’azione. È un buffo scherzo del destino quindi che ora sia proprio Keanu Reeves a riportare al successo il film d’azione duro e puro, con l’azione al primo posto e la recitazione al secondo. Ma c’è desiderio per quel tipo di cose, e finché fanno soldi Hollywood continuerà a farne. Sono trend, sono sempre dei trend. Ma è bello che siamo tornati all’action e a prendere registi che sanno come girare gli action e dare loro la possibilità di stare dietro la macchina da presa e fare film a modo loro. Guarda quello che sta facendo Sam Hargrave con Extraction (Tyler Rake), Gareth Evans con The Raid [The Raid ovviamente anticipa e ispira John Wick, ndr], quella è gente che capisce l’action.
È vero ed è interessante, perché per me è la prima volta che Hollywood prende un trend e finalmente sembra capirlo nel modo giusto. Non come Matrix, da cui si potevano imparare tante lezioni interessanti e si finì invece per capire solo la parte in cui puoi prendere chiunque, insegnargli due mosse di arti marziali e coprire il resto con gli effetti speciali. Per la prima volta – magari per coincidenza? – hanno preso un film come John Wick e hanno capito che per replicarlo devi prendere gente che sa come si fanno gli action, sia dietro che davanti la macchina da presa.
È buffo, perché John Wick è una celebrazione della violenza e degli stunt e dell’azione, ma personalmente non mi prendono da un punto di vista delle emozioni. Sono belli da vedere, e apprezzo tutto il duro lavoro che c’è dietro, sono in grado di creare un vero e proprio circo di stunt. Ma se prendi un film come Heat… Vuoi vedere una sparatoria? Guarda Heat. O Salvate il soldato Ryan. Sono sempre i personaggi e la tensione a reggere l’azione. Amo il fatto che John Wick esista, perché è un ritorno agli action gratuitamente violenti… Non deve essere per forza il mio film preferito e non significa che non apprezzo quello che cerca di fare, ma personalmente trovo che ci siano troppi combattimenti e alla fine rimango insensibile. Non vedo l’ora di vedere Day Shift di J.J. Perry e Bullet Train di David Leitch, e vedere come questi registi che vengono da un background da stuntman non solo creano l’azione – quella ti aspetti che sia sopra la media – ma come gestiscono storia e personaggi. Personalmente sono sempre alla ricerca dell’equilibrio perfetto: storia, personaggi, e azione incredibile.
A proposito di azione incredibile: cosa ci puoi raccontare invece dell’esperienza di lavorare con Tom Cruise?
È stato un sogno lavorare con lui, guardare un maestro come lui al lavoro. La sua dedizione e la sua passione sono incredibili. Molte star sono pigre: arrivano, fanno il minimo, prendono i soldi, tornano a casa. Tom Cruise è una specie di demone posseduto dell’action. È lì per spingere tutto al massimo. E i suoi sono dei gran film. Mission: Impossible – Fallout è uno dei più grandi film d’azione di sempre. È per via del modo in cui ti fanno sentire. Tom Cruise spinge tutto al massimo anche nella vita vera, ce la mette veramente tutta. Quando lo vedi correre per salvarsi la vita non puoi fare a meno di emozionarti: è come quando guardi le Olimpiadi, tipo la maratona, e qualcuno all’improvviso arriva da dietro per cercare di superare quello davanti all’ultimo momento… e corrono come dei pazzi, come se ne dipendesse la loro vita, come se tutto l’Universo si riducesse a quel momento… Ti viene la pelle d’oca, senti le lacrime che ti sgorgano dagli occhi. E hai bisogno di vedere quello, sullo schermo. L’attore che recita davvero le scene d’azione. È per quello che Bruce Lee era così magnetico, perché quando lo vedi circondato dai cattivi come un leone circondato da iene, vedi un leone in pura modalità da combattimento. Bruce Lee trasmetteva quello. Lo stesso vale per Rocky. O i primi due film di Van Damme. Quando parlo alla gente dei primi due film di Van Damme, Senza esclusione di colpi e Kickboxer… Van Damme era affamato. Non era ancora una star. Quei due film erano tutta la sua vita: se avevano successo, diventava una star; se fallivano, tornava ad essere un signor nessuno e se ne tornava in Belgio. Puoi sentire la fame di Van Damme, la sua disperazione. E penso che come risultato di ciò, le sue capacità recitative siano… non raffinate, ok. Ma quando conta – tipo in Senza esclusione di colpi, quando viene accecato, si strofina gli occhi e grida di frustrazione – gli credi. Gli credi, cazzo! Perché non sta solo facendo quello che dice la sceneggiatura, ma sta incanalando qualcosa di vero, da qualche parte dentro se stesso. Ed è questo che ti prende, come spettatore. È questo che ci manca, a volte, e che Tom Cruise invece continua a darci: vedere un attore che ce la mette tutta. Hai visto Whiplash? Io lo dico spesso: Whiplash è un film d’azione migliore del 99% dei film d’azione. Ti rendi conto che non hai nemmeno bisogno che si tirino dei pugni per sentire lo stesso tipo di tensione e conflitto. Ed è tutto grazie a J.K. Simmons, al suo look, ai suoi muscoli tirati e a quel suo sguardo che ti paralizza, e a Miles Teller come lo sfavorito che in quell’assolo finale mette tutto se stesso. E a un filmmaker che capisce tutto questo. Hai presente quando vedi qualcosa di talmente magico che quasi non credi ai tuoi occhi?
Non hai idea di quanto sia d’accordo con questa e tantissime altre cose che hai detto. Dove possiamo vederti prossimamente?
Il film più recente che ho finito si chiama Hounds of War, con Frank Grillo, Rhona Mitra e Robert Patrick, e diretto da Isaac Florentine. Dovrebbe uscire a dicembre. Ho fatto una serie chiamata Slow Horses, su AppleTV, con Gary Oldman e Kristin Scott Thomas. E ho ricominciato a scrivere, voglio ricominciare a creare le mie storie originali, qualcosa di mio e non legato a Street Fighter.
Grande Boss. A metà lettura ho pensato ” Sembra Nanni che intervista Cobretti” , poi la chiusa finale con tu che confermi non mi ha fatto sentire scemo. Quando ha parlato del Paul e delle scene action ho pensato “Ora il Nanni gli fa il culo” e invece subito dopo lui che specifica che forse sì, c’è troppo parkinson. Bello anche quando non se la tira sul ninjutsu, ma racconta la verità. Bell’ intervista. Ci vediamo stasera sperando in un raid di Paolo Fox.
Davvero, incredibile, il crescendo finale con gli idoli di Nanni e la chiusa su Whiplash… ci mancava giusto Saul of Sam eccezione meritevole e partiva la candidatura a nuovo caporedattore dei Calci.
Grande intervista. Oltre alla passione racconta bene lo sporcarsi le mani di questi perdenti che però non riescono mai a diventarti disillusi. Straordinario.
Son of Saul…
Grazie capo. Articolo bellissimo.
Alla fine questo è uno dei motivi per i quali vale la pena di seguire i 400calci.
Di più. Più approfondimenti, racconti dei festival, interviste.
Tutto meraviglioso, davvero. Grazie.
Che bella intervista.. Bravi tutti e due
bella intervista, fatene di più!
su whiplash devo dire che i calci ci avevano preso da subito
Grazie mille a tutti, riporto i complimenti a Joey che le cose intelligenti le dice tutte lui (e ovviamente ero gasatissimo per quelle che coincidevano con cose che diciamo pure noi da tempo)