Ci sono quattro donne, tre generazioni, in una casa lussuosissima e minimalista presa paro paro da Architectural Digest; cosa potrà andare storto? Innanzitutto il padre di famiglia ci lascia nei primissimi minuti di film, perché è malato e sofferente ergo decide di farla finita trangugiando candeggina e letteralmente vomitando l’anima.
La madre, Sienna Guillory della saga di Resident Evil, reagisce riversando la nevrosi sulla cucina: essendo, a quanto pare, ricca sfondata, può permettersi di non lavorare ma di stare a casa tutto il giorno e preparare manicaretti bellissimi e gustosissimi. La figlia maggiore Betsey, messa di fronte alle difficoltà dell’adolescenza (tipo il cruento suicidio del padre e la nevrosi della madre? Ma no, tipo “che cosa vuoi fare all’Università” – e qui siamo già in territorio facepalmistico) di punto in bianco si rifiuta di mangiare ma non perde mai peso e bofonchia che lei è l’Eletta di qualche potere superiore. Intorno a loro, la figlia minore e la nonna cercano di trovare una chiave al mistero: Betsey ci è o ci fa? La nonna, una fenomenale Lindsay Duncan, è la dea ex machina che ha capito tutto – ti punta addosso quegli occhietti affilatissimi e sai già che, qualunque cosa dica, ha ragione lei. E che cosa dice la nonna? racconta una leggenda giapponese che sostanzialmente potrebbe ricordarvi alla lontana quel film matto e divertentissimo che è Malignant. Ah, bene!, vi starete dicendo voi; allora anche A Banquet è divertente come Malignant!

Contaci.
No. A Banquet è noioso, a parte due sequenze (quella pseudo-Malignant e quella dello pseudo-esorcismo, e già dai due “pseudo” dovreste capire che insomma non tutto è come dovrebbe essere). Ruth Paxton ha del gran potenziale, una visione precissima e sa scegliersi i collaboratori giusti per ottenerla: la fotografia brillante e satura di David Liddell, il fuoco impietoso sui dettagli dei corpi e dei cibi che li ingurgitano o li sputano; il sound design curato da un nutrito team e volutamente sgradevole, in cui una menzione d’onore va ai piatti Färgklar satinati dell’Ikea che fanno quel rumore orribile a contatto con le posate – e chissà come è stata contenta la produzione: i piatti col rumore perfetto sono anche i più economici! Tutto questo lo so perché stavo per comprarli anch’io, quei piatti, poi mi sono resa conto che il rumore mi avrebbe fatta diventare idrofoba.

Se vedete il film capirete il perché di questa immagine
Il problema è che il risultato è fin troppo leccato, algido, senza sangue (in molti sensi), e si fa davvero fatica a provare una qualsivoglia solidarietà coi personaggi. Le attrici sono tutte brave ma fin troppo belle e perfettine, con primi piani che sembrano le stills di un promo di Gucci; si muovono in contesti talmente lussuosi e impersonali da risultare finti, per niente credibili – e nel momento in cui la credibilità se ne va a zonzo, cioè tipo alla seconda inquadratura, l’interesse se ne è andato e non ritorna più. Perché questo, dopotutto, è un film sull’adolescenza e i suoi probbblemi; ma vabbé, sai che roba. Anche mamma Holly, come figlia Betsey, aveva avuto problemi mentali (che nonna June aveva risolto con metodi rudi ma efficaci; ah, signora mia, ai miei tempi…) ergo forse questo disagio è una roba ereditaria? Però dai, non ditemi che il trucchetto della bilancia è credibile. E la sorella minore, che prima ci sta dentro e poi sbrocca, ha i probbblemi pure lei o è semplicemente stressata da una situazione familiare difficile? E soprattutto, perché non me ne frega un cazzo?

Nonne crudeli che hanno capito tutto perché ai loro tempi, signora mia…
Prego indirizzare i reclami a Justin Bull, un cognome che è tutto un programma!, aspirante sceneggiatore di storie rarefatte, astratte, ambigue, “atmosferiche” come dice l’anglofono fighetto in te; in realtà, l’unica cosa che che Bull riesce a fare è buttare in giro indizi, sottotrame, ideuzze senza poi connetterle, lasciandole lì in giro per la bellissima magione minimalista, a morire inutilizzate come il cibo che Holly cucina e nessuno mangia. Come, per esempio, i rapporti fra quattro donne – non dico che per forza ci voleva una sceneggiatrice donna, o che bisognava fare una seduta spiritica ed evocare (occazzo, lo dico? sì, lo dico) Bergman, però ecco, un uomo un po’ più sveglio avrebbe saputo investigare in profondità questi rapporti e renderli più interessanti. E scrivere una bella storia, magari, anziché lasciare tutto l’onere del film sulle spalle di Paxton; la quale sicuramente ha molto talento visivo da vendere, ma meno talento narrativo. In effetti, a questo punto mi interessa di più quello culinario.

Il minimo sindacale di goticità
“Insipido”
Cicciolina Cannavacciuolo, i400calci.com
MMMboh, non ho provato lo stesso divertimento per Malignant, di certo l’eco che se ne sente qui non é particolarmente interessante ma il fatto che non sia cosï telefonato e ridondante mi e piaciuto. Di questo a Banquet non mi piace la continua tensione che sfocia sempre in nulla e lo splatterfood alla terza inquadratura ha già rotterca’. Ho trovato di buono le recitazioni anche se i personaggi sono un po’ dei cliché. Mi e dispiaciuto vederlo tutto sommato e ho avuto quella sensazione finale di presa per il culo troppo comune. Soprattutto sulla canzoncina finale che l’avrei volentieri arrotolata e ficcata in gola al produttore. Sul tag “storie rarefatte e astratte ovvero che due coglioni”, credo che ci hai preso in pieno, troppa rarefazione nella sceneggiatura e poche dense enteriora.