Quando uno come David Cronenberg decide di chiudere un cerchio della sua impareggiabile carriera riprendendo spunti e titolo da un suo cortometraggio degli inizi, è il segnale per far partire la retrospettiva. E noi, puntualissimi, rispondiamo. Seguiteci nel nostro nuovo, imprescindibile speciale: Le basi – David Cronenberg.
Questa estate ho letto Blaze di Stephen King. Cioè, in realtà sarebbe il quinto libro di Richard Bachman, lo pseudonimo che King usava a inizio carriera (1966 – 1973) e con cui aveva firmato dei romanzi che, a detta sua, “non volle nessuno”: Ossessione, La Lunga Marcia, Uscita per L’Inferno e L’Uomo in Fuga. Parere personale, tolto forse Uscita per l’Inferno, alcuni tra i miei libri preferiti. Anyway, Blaze venne scritto tra la fine del 1972 e l’inizio del 1973, poco prima di Carrie, il primo romanzo pubblicato a suo nome e quello che gli ha regalato l’incredibile carriera che ha oggi. Poco soddisfatto del risultato, King/Bachman lo tenne però in un cassetto per lungo tempo, fino a quando…
“… dopo aver letto la prima ventina di pagine conclusi che il mio primo giudizio era stato giusto e lo restituii al suo limbo. La scrittura mi pareva buona, ma la storia mi faceva ricordare una battuta di Oscar Wilde. Aveva sostenuto che fosse impossibile leggere La Bottega dell’Antiquario di Charles Dickens senza versare copiose lacrime di ilarità. Io ho avuto la stessa reazione con Everyman di Philip Roth, Giuda l’Oscuro di Thomas Hardy e Figlia del Silenzio di Kim Edwards: leggendo quei romanzi, c’è stato un momento in cui sono scoppiato a ridere, levando le braccia ed esclamando: “Mandagli anche un cancro! Fallo diventare cieco! Chi più ne ha più ne metta!”.
Blaze è, nelle intenzione, un hard boiled. La sua fortuna però è quella di essere ambientato in un mondo profondamente dickensiano. Blaze è un bambino grande, grosso, intelligentissimo che viene scagliato tre volte di seguito dalle scale dal padre ubriaco, cosa che gli regala un buco nella testa e lo rende ovviamente mezzo scemo. Finisce in un orfanotrofio dove diventa amico di un bambino che tutti prendono in giro. Lui è l’unico che lo difende ma questo, gracilino, morirà di malattia da lì a poco. Blaze si innamora della prima ragazza con cui farà l’amore, una ragazzaccia che è stata pagata per andare con un un ragazzone mezzo scemo con un buco nella testa. Perché altrimenti, ci tiene a dirlo a tutti, lei mai e poi mai ci sarebbe andata. Ma la realtà è ben diversa: non glielo dirà, ma forse anche lei un po’ lo ama. Sicuramente ama il figlio che, in segreto, ha avuto da lui. Un bambino bello e soprattutto intelligentissimo. Come doveva essere Blaze. Blaze ha un solo amico, George. George è un truffatore, un pesce piccolo ma dalle grandi idee. Peccato però che George sia morto. Blaze lo sa, eh? Solo che non lo capisce fino in fondo. Tant’è che continua a parlarci. È proprio George a consigliare a Blaze il colpo che dovrebbe cambiargli la vita: rapire un neonato. E sapete cosa succede? Blaze di affeziona a quella creaturina. E anche se tutti sono convinti che il bambino sia in pericolo, forse non è mai stato amato così tanto. Certo, quel ragazzone violento, mezzo scemo, con un buco in testa, a vederlo mette paura. Ma sotto sotto è più buono e puro di tanta gentaglia che c’è in giro…
Una serie di sfighe non indifferenti, non trovate? Non dissimili da quelle che travolgono la vita di John Smith (amico Stephen, ma che nome è John Smith? Non c’avevi voglia? È una roba fatta apposta? Non capisco…), il protagonista de La Zona Morta. Il libro, pubblicato nel 1979, è uno di quelli importanti nella carriera di King: è il suo primo grande successo commerciale (è tra i dieci romanzi più venduti in tutti gli Stati Uniti alla fine del ’79), soprattutto è il primo ad essere ambientato a Castle Rock, la cittadina immaginaria che fa da sfondo ad alcuni dei titoli più famosi del Re: Cujo, The Body (il racconto da cui è tratto Stand By Me), La Metà Oscura, Cose Preziose, Elevation e una lunga serie di altri racconti.
I diritti del libro vengono acquistati dalla Lorimar Entertainment, una casa di produzione che stava tentando fare il grande salto dalla televisione al grande schermo. La sceneggiatura viene affidata a Jeffrey Boam, uno che ha in curriculum roba forte come Indiana Jones e L’Ultima Crociata, Lost Boys, Arma Letale 2 e 3 e si comincia a lavorare per avere Stanley Donen come regista (WTF). La Lorimar Film però chiude i battenti poco dopo a causa di una lunga serie di flop al botteghino e il film sembra cadere nello stesso limbo in cui a un certo punto era finito il romanzo Blaze. Entra però in gioco Dino De Laurentiis che acquista i diritti del film, si fa aiutare da quella santa donna di Debra Hill, chiede e King in persona di riscrivere la sceneggiatura e sopratutto chiama Cronenberg, ancora lanciatissimo dopo l’inatteso successo di Scanners e non ancora schiantatosi contro l’insuccesso della sua prima avventura hollywoodiana, Videodrome. Dino però non è contento del trattamento di King (stando però a quanto dice Cronenberg fu lui stesso a rifiutarlo perché “inutilmente efferato”), si chiede un aiuto a Andrzej Żuławski ma anche lì le cose non vanno e alla fine la sceneggiatura torna nelle mani di Boam. Sì, avete letto bene: Cronenberg ha definito la sceneggiatura di King inutilmente efferata. Proprio lui. Quello che faceva esplodere le teste o che metteva vagine sulla pancia. Ma come? Stando a quanto si legge in giro decise di togliere anche la parete del libro in cui si spiega che il protagonista ha un tumore al cervello. David che rinuncia a un tumore? Stiamo scherzando? Ma stiamo parlando dello stesso David Cronenberg? Sì, ve lo giuro, è lui.
Ma la domanda che dobbiamo farci è: perché De Laurentiis ha chiamato proprio Cronenberg per dirigere un libro di King? Ok, superficialmente sono due nomi che associamo al genere – uno è il Re del Brivido e l’altro è il regista che sta sconvolgendo il mondo con film estremi – ma, esattamente, dove si incontrano le loro idee di horror? La risposta è: nel melò. Cronenberg intuisce quello che King ha scritto riguardo al suo Blaze. Capisce che c’è un momento in cui, per godere di una storia del genere, bisogna “fargli arrivare un tumore, farlo diventare cieco, chi più ne ha più ne metta!”.
La mia teoria è questa: La Zona Morta è il primo film diretto ma non scritto da Cronenberg. Questo gli permette di sperimentare nuove forme cinematografiche. E pur essendo sicuramente il suo film più addomesticato, David gioca di anticipo e immette nel suo cinema proprio quel lato dickensiano di cui abbiamo parlato all’inizio. Ma non c’è da stupirsi: La Mosca, più che il remake de L’Esperimento del Dottor K, è la sua versione di Notre-Dame de Paris, con un mostro innamorato di una Esmeralda. Le carte verranno poi del tutto scoperto quando dirigerà M. Butterfly. Insomma, Cronenberg ha una sua specifica idea di dramma, ed è forse la cosa che più lo accomuna a King.
Certo, la storia del film ruota attorno al potere sovrannaturale di Johnny, uno straordinario Cristopher Walken, che dopo un incidente stradale ha la capacità di vedere il futuro delle persone che tocca. C’è un assassino da fermare (il Frank Dodd che terrorizzò Castle Rock e che ritroveremo poi in diverse altre incarnazioni), e soprattutto bisogna rispondere alla domanda: “se tu avessi la possibilità di uccidere Hitler prima che diventi effettivamente Hitler, lo faresti?”, ma l’interesse del film è tutto da un’altra parte. Johnny è un professore di provincia che insegna con un sorriso malinconico cosa vuol dire quel “Nevermore” che chiude Il Corvo di Edgar Allan Poe.
Poteva vivere una vita felice con Sarah, l’amore della sua vita, ma un incidente gli ha rubato cinque anni. Mentre lui era in coma il mondo è andato avanti, Sarah s’è sposata, ha avuto un bambino… è felice. Johnny ha perso tutto: non ha più un lavoro, è zoppo, la madre muore di crepacuore poco dopo il suo risveglio… Sì, c’è il padre, ma è ormai un uomo abbattuto. “Di più!” urla a quel punto King. E Cronenberg lo accontenta: alza il volume del dolorosissimo tema di Michael Kamen (no, non c’è Howard Shore), lo avvolge in un bianco asettico come la neve che cade in continuazione e gli regala un potere che è il classico dono ma al tempo stesso una condanna. “Ogni volta che succede, è come se morissi”, dirà Johnny al suo dottore. Dottore che proprio grazie a Johnny s’è appena ricongiunto con la madre che pensava morta da quando è scappato dalla Polonia durante la Seconda Guerra Mondiale. Non sai il piangere, Johnny. Ma poi, una notte, Sarah decide che lei e Johnny devono dirsi addio come si deve e fanno l’amore, e ridono, e si abbracciano e Johnny vede nel piccolo Denny – il figlio di Sarah – quella che poteva essere la sua vita. “Ci vedremo ancora Johnny, ma mai più come oggi”. E giù lacrime. E allora perché non far scappare Johnny da un’altra parte, trasformarlo in un esule condannato a vagare per gli Stati Uniti, a stare da solo come Bruce Banner nella sigla del telefilm di Hulk. Però zoppicante. Ma scusa, a questo punto non vuoi farlo diventare l’unico amico di un ragazzo timido ma intelligente come il piccolo Chris? E poi, quando Chris per la prima volta, proprio grazie a Johnny, ha deciso che la vita è qualcosa di straordinario e da abbracciare in pieno, non vuoi metterlo in pericolo? Però secondo me possiamo fare di meglio. Tipo far incontrare Johnny con il marito di Sarah, far capire che la ragazza è in pericolo e alla fine esigere anche un sacrificio di sangue. Forse è per questo che inaspettatamente David Cronenberg ha voluto rinunciare al tumore. Perché la lacrime si sarebbero trasformate in lacrime di ilarità. E invece, inaspettatamente, si riesce sempre a mantenere un equilibrio e a rendere questa interminabile sequela di sfighe plausibile.
Cosa rimane dunque di quel Cronenberg che a quel punto della sua carriera sarebbe stato lecito trovare? Poco. Ma quel poco che c’è è di altissimo livello. Prima che venga introdotto Greg Stillson (un sulfureo Martin Sheen), il politico pronto a trasformarsi in Hitler che Johnny decide di fermare, c’è da risolvere il mistero dell’assassino di Castle Rock. E qui Cronenberg ci mette del suo. Non solo nella scelta dell’attore chiamato a interpretare Frank Dodd (un bravissimo Nicholas Campbell, inizialmente scelto per la parte del protaginista), ma soprattutto nella sequenza in cui Walken e lo sceriffo Bannerman (il mitologico Tom Skerrit) lo arrestano. La casa in cui abita Frank Dodd non solo è abitata da un’amica della mamma di Norman Bates ma, a differenza di tutti gli altri set che incontreremo, è tetra, sporca, malata. Una serie di stanze chiuse da troppo tempo che si sono riempite di oggetti appartenenti al passato: la carta da parati sgualcita con i cowboy, il fumetto di The Apache Kid, un cavalluccio a dondolo… E poi vestiti gettati ovunque, tubi che perdono, sigarette, vecchi giocattoli, bambole. Tutto sporco. E dietro la porta del bagno c’è un uomo col cervello in pappa che ha ucciso dieci ragazze con una forbice. E che sa che il tempo stringe.
C’è poi la questione di come Cronenberg rende le visioni di Johnny. Non sono tante e si dividono in due tipologie. Ci sono quelle più narrative come quella ambientata ai tempi della Seconda Guerra Mondiale, con tanto di carri armati, soldati nazisti, esplosioni, oppure quando vediamo Stillson che decide di cominciare un attacco nucleare. Quelle più interessanti sono quelle più astratte, in cui si confondono i piani narrativi. La prima in cui Johnny è nel letto in fiamme di una bambina
ma soprattutto quella in cui Johnny vede Chris e i suoi amici cadere come delle bombe di profondità nel lago ghiacciato. È un vero e proprio flash, si fa quasi fatica a registrarlo, ma è un’immagine fortissima, forse la più bella di tutto il film.
La Zona Morta è tra le migliori trasposizioni cinematografiche di King. E il merito è solo di David Cronenberg che ha saputo leggere al meglio il materiale originale e ha capito dove fare un passo indietro. Ma soprattutto dove e quando fare quello in avanti. Verso il futuro della sua carriera.
DVD-quote:
“King + Cronenberg = lacrima movie”
Casanova Wong Kar-Wai, i400calci.com
P.S.: anni fa, nel contesto di un mini-speciale su Stephen King, scrisse de La Zona Morta anche Cicciolina Wertmuller.
P.S. 2: lo speciale su David Cronenberg verrà temporaneamente interrotto perché (questa cosa non capita spessissimo) siamo sommersi di uscite interessanti di cui vorremmo parlarvi con tempismo quantomeno decoroso. A presto!
Io sono un ammiratore di Stephen King e come tale generalmente non amo le trasposizioni cinematografiche dei libri.
Questa fa eccezione proprio perchè, pur non essendo fedelissima alla lettera del libro, lo è invece molto al suo spirito.
Grandissimo film.
Avete scritto tutto quanto voi, ma lasciatemi ribadire che attore che è Christopher Walken. Per certi versi pure sottovalutato
Bel film che un minimo paga i segni del tempo, la parte con Martin Sheen futuro artefice di una guerra atomica è tipico degli approcci assolutistici degli anni ’80, senza sfumature fra Bene e Male
Non c’entra nulla, ma una volta incontrati per caso C.Walken, attore che tra l’altro adoro. Era in una chiesa bizantina ad Istanbul, i casi della vita. Era lì con la moglie, quando me lo trovai davanti senza neanche pensare dissi “Christopher Walken!”. Lui, senza che chiedessi nulla, disse qualcosa tipo “non voglio fare selfie, non mi piacciono, se vuoi puoi farmi delle foto”
Io gli dissi che non volevo disturbarlo, ma ad oggi mi mangio le mani per non averlo fatto
azz con la foto di Walken nella chiesa bizantina ci facevo un quadro
L’Urania de L’Uomo in Fuga fu una lettura folgorante: sporco, cattivo, senza speranza. Il film c’entrava ZEROMILA ma vuole anche dire avere due figate diverse dalla stessa premessa quindi non mi lamento.
Mi avete fatto venire una voglia matta di rivederlo.
La prima volta è stato troppo tempo fa e non ero abbastanza sfamato (e kinghiano) e ho solo un vago ricordo.
Difficile considerarlo un horror: piuttosto un capolavoro sugli orrori dell’animo, lontano anni luce da becero cinema di lacrima passato e seguente
Suggestivo, eco di un’epoca (fine 70/inizio 80) , follemente KingBerghiano.
Ho sempre sentito un’associazione forte con Il Tocco Della Medusa sebbene ne condivida pochi tratti, eppure chissa’, King ha scritto il romanzo (1979) un anno dopo il film (1978).
Entrambe le pellicole godibilissime.
I romanzi formativi che mi diede mia madre a 12 anni: A volte ritornano, La lunga marcia, Carrie. Ossessione l’ ho adorato perchè ero proprio nel periodo in cui mi sentivo il Charles di una classe di secchioni maledetti. Lo custodisco con cura, visto che è stato “bandito”. La zona morta in effetti è un totem alle sfighe, così come il film. Che ai tempi mi colpì, perchè lo vidi prima di leggere il libro e certe cosucce carine non me le aspettavo. Niente jump scare, ma un po’ di inquietudine me la provocò. Blaze l’ ho letto non più di cinque anni fa, in un periodo in cui mi dedicai a finire i libri di Bachman (mi mancavano L’ uomo in fuga e I vendicatori). Caruccio, dai, una spanna sotto gli altri titoli bachmanici, escluso Uscita per l’ inferno che, effettivamente, è una rottura di palle mostruosa.
Che bella intuizione la rece! Cronenberg ha intercettato King su un terreno per entrambi secondario ma sempre presente nella loro poetica, il melodramma. Proprio vero! Ecco perche’ funzionano “le ali della liberta’ o “stand by me”, forse il tipo di orrore di King non si adatta al linguaggio cinematografico quanto l’aspetto strappalacrime
Per me King non è uno scrittore di genere, semplicemente. La sua bravura sta nel far interagire personaggi credibili in modi credibili, e questo in qualunque situazione. Non posso dire di aver letto molto della sua sterminata produzione (non più di una decina), per cui sicuramente mi manca roba, ma quelli più individuabili come horror mi svaccano molto sul finale. Quelli per me di gran lunga migliori sono quelli dove di horror c’è poco o quasi nulla, come Stagioni diverse, il suo capolavoro assoluto. E quando c’è l’orrore, è quello dell’animo umano, senza niente di soprannaturale o demoniaco, se non la banalità del male.
Gran bel film. E ottimo esempio su come si dovrebbe trattare il materiale di Re Stephen da Bangor.
In teoria dovrebbe essere uno dei film più semplici e manichei, di Cronenberg.
C’é dietro il libro, tra l’altro nemmeno troppo complesso. Con una netta demarcazione tra buoni e cattivi, e nessuna ambiguità.
In apparenza. Perché nel modo in cui viene messo giù da Cronenberg appare anche qui il filo rosso che lo collega automaticamente tutte quante le sue opere.
Di nuovo il concetto tanto caro dell’elemento estraneo che penetra in un organismo ospite e che lo costringe a una mutazione che dà vita ad un essere totalmente nuovo (il potere extra – sensoriale risvegliatosi dopo il coma, in questo caso).
Forse il giochetto qui riesce un pò meno, per via che alle spalle hai il libro. Dove non c’é ambiguita.
Il protagonista é il buono, e tutti noi ci fidiamo di lui.
Prendiamo per buono tutto ciò che vede attraverso le sue visioni, e stiamo dalla sua parte.
Ma…le cose stanno davvero così?
Cronenberg da sempre ci invita a non prendere ben buono tutto ciò che ci mostra, e che vediamo.
E infatti rimane la sensazione, almeno nel film, che qualcosa non torni del tutto.
Dopotutto…ciò che vede, lo vede solo lui. e non lo può condividere con nessun altro.
Può spiegarlo solo a parole, quel che vede. E noi, il resto dei personaggi…ci crede.
Decide di crederci. Ma…
Ma sarà davvero così? Sarà davvero come dice?
Certo. Ci sono i pericoli scampati, gli incidenti evitati e i malvagi sistemati come efficace controprova della veridicità delle sue affermazioni.
Ma ripeto…nel modo in cui la mette giù Cronenberg, si arriva a dubitare anche di ciò che in teoria é certo.
Ma resta un gran film. Con ottime musiche e effetti speciali notevoli, e un grandissimo Walken.
King rappresenta un problema solo per i registi mediocri, a parer mio.
Un buon Cronenberg, che lavora su commissione. Di cronenbergiano, nella storia, trovo anche l’elemento dell’incidente stradale che scatena la “mutazione” di John. Una sorta di preludio a Crash, se vogliamo.