Ma voi ce la fate a capacitarvi del fatto che Battle Royale, dal 2000 a oggi, non sia mai uscito al cinema in Italia? Se non in qualche festival sicuramente gestito da gente che fissa le guardie con il giusto sospetto. Però a conti fatti Battle Royale, in sala da noi, non ci è proprio mai arrivato neanche per sbaglio; e ci ha messo otto anni pure per uscire in DVD, a dirla tutta e anche un po’ Caron dimonio. Quindi, alla fine della fiera, non è nemmeno così complicato capacitarsene – e leggere capacitarsene senza raggomitolarcisi la lingua – visto che siamo in Italia. Siamo un paese con una distribuzione simpatica (son passati 40 anni e io ancora non ho accettato che Mad Max l’abbiano titolato Interceptor) e per noi è sempre stato un po’ più semplice accettare il mistero di film che vanno, che vengono, che cambiano titolo, che non arrivano mai, che arrivano troppo. Ma se, ragionando a posteriori sulla faccenda, puoi benissimo trovare la razionalità per capacitartene, poi comunque manca il senso per raccapezzartici [Seguiteci per tante altre agglutinazioni illeggibili!]. Anche perché stiamo pur sempre parlando di un film che è stato uno dei più controversi e chiacchierati – sicuramente in patria, ma il dibattito si è allargato praticamente ovunque al momento della distribuzione (se non in sala, in home video) – fra quelli usciti a cavallo tra vecchio e nuovo millennio; ma soprattutto perché parliamo di una roba che ha spettinato tante di quelle teste da diventare una delle fonti di influenza più inaspettate nell’intrattenimento di nuovo millennio, a cominciare da Tarantino, passando per Hunger Games e arrivando fino a Fortnite e compagnia videogiocheggiante.
Ebbene – per non dire porcatroia – la più che ventennale attesa è finalmente giunta al termine, e anche noi siocchi figli di Pitagora e di Casadei, anche noi prole della serva cinematografica possiamo, alfine, spararci Battle Royale dentro al cine con lo schermo gigante, la poltrona comoda, i poppicorni e gli adolescenti fessi che sono arrivati in sala pensando di vedere il film di PUBG: Battlegrounds. Merito di CG Entertainment – che sul suo sito ha anche lanciato una campagna crowfunding per, eventualmente, pubblicare un cofanetto Limited Edition (1000 pezzi) Battle Royale Complete che conterrà una quantità ragguardevole di ammennicoli e cose extra – la quale ha deciso di fare le cose nell’unica maniera corretta, distribuendo a partire dal 20 ottobre la versione Director’s Cut di Battle Royale (già uscita in DVD) però restaurata in 4K. Che è un po’ il modo migliore – schermo enorme, immagini restaurate, suono a un passo dal dolore fisico – per godersi davvero un film che ha uno dei pronti partenza via più acazzoduro di sempre: il Dies Irae di Giuseppe Fortunino (storia vera) Verdi, che scaglia nella stratosfera la storica immagine/logo della Toei (cavalloni sfrociantisi sugli scogli) e accompagna i titoli di testa e le didascalie che descrivono la premessa. Non ci credete finché non vedete il cazzoduro? E allora, sigla!
Battle Royale è l’ultimo film che quel giusto di Kinji Fukasaku è riuscito a completare prima di soccombere al cancro al pancreas che se lo stava mangiando da dentro. Ma perché Kinji Fukasaku è un giusto, vi chiederete voi? Perché a parte essere stato un raffinato artigiano del cinema e un appassionato di generi – primo fra tutti la fantascienza: Il fango verde, Message from Space, Ultimo rifugio: Antartide – Fukasaku è stato anche uno dei principali fautori di quel cinema di criminali e poliziotti che ha svoltato gli anni ’60 e ’70 giapponesi; quei ninkyo eiga (film cavallereschi) che dal 1963 in avanti sono diventati più specificatamente yakuza eiga: marchio del cinema giapponese, in patria e all’estero, nonché filo rosso che unisce autori enormi, partendo da Seijun Suzuki fino a Takeshi Kitano, passando appunto per Fukasaku, per la sua saga Lotta senza codice d’onore (otto film realizzati da lui fra il ’73 e il ’76) e per altri suoi film più isolati ma non meno ganzi, come La tomba dell’onore. Fukasaku è un giusto di dio perché ha realizzato Battle Royale – a partire dalla sceneggiatura scritta dal figlio Kenta (che dirigerà, male, Battle Royale II) adattando l’omonimo romanzo di Koushun Takami più tardi trasformato anche in manga – quando aveva 70 anni. SETTANTA. L’ultimo lavoro completo di Fukasaku prima di stare troppo male è stato dirigere Clock Tower 3, un videogioco survival horror uscito per Playstation 2 nel 2002. Fukasaku aveva 72 anni, era senza tre quarti di pancreas, e si è comunque messo a imparare qualcosa di nuovo per dirigere un videogioco horror. Fukasaku era un grande, ed era un grande anche quando non ci provava nemmeno. Lo sapete, vero, a cosa dobbiamo il debutto alla regia di Takeshi Kitano? Nel 1989 dei produttori mettono insieme il progetto Violent Cop, un poliziesco abbastanza classico con la regia della vecchia volpe Fukasaku e Beat Takeshi, comico di acclarata celebrità televisiva, protagonista assoluto. Kinji molla la lavorazione per via di altre faccende che c’aveva da fare, e Kitano interviene a gamba tesa dicendo che se lo dirige lui il film, perché no, e se lo riscrive anche, e poi se lo monta e già che c’è va avanti a fare cinema e diventa uno degli autori più riconoscibili dei successivi 20 anni.
Il film, Battle Royale, lo conoscete anche se non lo conoscete. Ha preso in prestito il concetto e la gimmick dal wrestling – che a sua volta l’ha mutuata dalla boxe inglese dei primordi – e l’ha fatta diventare un topos narrativo con sfogo multimediale. Il quale topos narrativo ha avuto (eccezion fatta per Hunger Games e Squid Game) scarso successo cinematografico – The Tournament, The Belko Experiment, The Condemned – L’isola della morte: se c’è qualcuno che li ha visti tutti e tre ed è sopravvissuto, si faccia avanti – ed enorme successo videoludico, ispirando quasi dal nulla la creazione di un nuovo genere che porta il suo nome e la cui popolarità è culminata nel fenomeno Fortnite. Battle Royale è la storia di un futuro distopico – che nel libro viene descritto con molti più dettagli sul contesto storico e sociologico – in cui un governo giapponese solo leggermente più fascista del solito decide che è buona cosa affrontare la crisi della disoccupazione e dell’intemperanza giovanile fuori controllo proclamando una legge, il Millennium Education Reform Act (o BR Act), che costringe una classe di liceali indisciplinati (pescata a caso una volta all’anno) a partecipare a un gioco divertentissimo: tre giorni su di un’isola deserta forniti di un’arma casuale, una mappa e poco altro, e alla fine del tempo prestabilito i ragazzi devono essersi scannati fra di loro e deve rimanere vivo solo uno dei partecipanti, altrimenti esplode a tutti la testa e amici come prima. I peggiori giochi della gioventù di sempre, altro che corsa campestre. Non male nemmeno il tutorial scelto dal governo per spiegare a dei 16enni confusi e spaventati che stanno per essere costretti ad ammazzarsi fra di loro.
Kitano qui se la spassa di cristo nei panni di Kitano (no refusi, solo meraviglia), ex professore di liceali ribelli che dopo essere stato accoltellato a una gamba nei corridoi della scuola per nessun motivo in particolare, lascia il mestiere per darsi a un tipo di educazione leggermente più drastica. Kitano è la banalità del male in Superga e tuta da ginnastica, uno che ha sublimato la sua deludente e frustrante vita personale (la figlia adolescente lo schifa da cima a fondo) e l’ha trasformata in una carriera, diventando fondamentalmente il gioioso sovrintendente della battaglia reale. Siamo tutti d’accordo che quella di Kitano è una delle FAZZE per eccellenza degli ultimi trent’anni di cinema, giusto? Beh, qui secondo me sfoggia la migliore fazza di tutta la sua carriera. E sono pronto a difendere l’affermazione in una battle royale in cui i partecipanti sono armati della loro edizione preferita del Mereghetti. Io, per fare l’hipster al contrario, mi porto un crocefisso, dell’acqua santa e Il Farinotti 2013.
Al netto di tutto quello che potrebbe dirvi il Uolter Weltroni di turno, Battle Royale non è un trionfo di violenza grafica e, soprattutto, gratuita. La violenza c’è, perché è il succo narrativo della vicenda. Ma, banalmente, è legata a doppio filo a un’idea molto chiara – ribadiamolo ancora: lanciata nell’etere da un 70enne malato terminale che bisognerebbe abbracciare con il cuore a ogni occasione disponibile – che dice: i giovani vogliono, devono e hanno bisogno di essere giovani, frega niente se il mondo sta andando a fuoco. Non è colpa loro. Ma gli adulti non ricordano, non perdonano e non accettano più l’indisciplina, la mancanza di rispetto e l’impossibilità comunicativa, scegliendo di reagire con la violenza e la soppressione, simboliche e letterali. Fukasaku, d’altronde, ha passato buona parte della sua carriera a cercare di mettere il dito su quello che, nella sua visione di uomo formatosi durante la Seconda Guerra Mondiale, è stato il passaggio (traumatico e rapido) della cultura giapponese da faccenda collettiva e solidaristica, a una versione più individualistica e ultra-competitiva; e questa sua ultima fatica è la summa di questa visione nichilista ed esasperata, che condivide con i primi due film della saga Lotta senza codice d’onore l’osservazione di una violenza che scoppia per e si nutre di futili motivi, di una forza distruttrice che non ha motivazioni di carattere né estetico né leggendario; né eroico o etico. È una violenza che è sopravvivenza, follia e reazione. Questo nichilismo grafico, poi, nelle sublimi mani di Fukasaku diventa quasi un’opera kabuki. È Kabuki nell’espressività, nel carattere personale (umano) che sovrasta quello generale (filosofico), e nella struttura a scene quasi separate fra loro. È Opera, invece, nell’andamento, nell’enfasi, nell’ambientazione e nella partizione narrativa in cui ogni scena è un’aria, e in cui gli scoppi di violenza sono intervallati dagli entr’acte dei bollettini sui morti di Kitano, accompagnati ora da La marcia di Radetzky ora da Sul bel Danubio blu. Ciliegina sulla torta: c’è che Fukasaku non ha mai perso niente di quella bella tigna anni ’70, che lo porta verso una messa in scena dai colori ipersaturi (nei flashback) o desaturati, po’ ellittica, stilizzata, affascinante, onirica, allucinata.
Ci sono un sacco di scene incredibili in questo film, che incarnano molto bene la tigna di cui sopra. C’è Gogo Yubari che accoltella il cazzo di quello che vorrebbe ammazzarla e violentarla, in quest’ordine, appena prima di essere colpita da un proiettile e morire chiacchierando con dio e con il ragazzo che ha amato, non ricambiata. Ci sono teste mozzate usate come lanciagranate: eccellente. C’è una morte insistita, accompagnata dall’Aria sulla quarta corda, che è sempre molto poetica. Una poesia molto breve. Un haiku. C’è la scena del quid pro quo fra le ragazze del faro, scritta e girata con tanta di quell’economia di parole e funzionalità delle immagini che ti viene da piangere. Ma è la morte di Kitano che si prende la torta, come dicono quegli stronzi di americani, ed entra dritta e di diritto nelle storia delle cose migliori mai viste. Una scena grottesca, insensata, estetica, ridicola, tragica, tenera. Seguita da un momento zombie che ti uccide dal ridere e dalla paura. Per quindi concludersi con Kitano che mangia l’ultimo biscotto della Madonna che avrebbe voluto salvare, ma la cui purezza, alla fine, ha tentato di insinuare, cercando di costringerla alla violenza per trascinare anche lei nel suo fango. Fukasaku è in grado di concludere la sua più grande opera cinematografica accogliendo la speranza, ma senza rinunciare al realismo. Accettando la fallacia umana, ma non negandosi la facoltà di sperare e di non disperarsi. Tanta roba amici.
Cartello da appendere fuori dai cinema quote:
«Alla fine sono felice di aver trovato un vero amico»
Toshiro Gifuni, i400calci.com
Madonna il cofanetto di CG ha tipo dentro il mondo, direi “anche meno” ma questa grassezza mi ha gasato.
Recensione fan-ta-sti-ca.
Hai (volutamente?) mancato di coprire lo sdoganamento della pedofilia nel gustoso dialogo col cono gelato.
Gran recensione di un grande film.
Kitano, con la sola imposizione della sua faccia, quando appare in film non suoi trasforma sempre i suoi momenti in schegge di “suo” cinema. Ma in questo caso secondo me c’e’ qualcosina di piu’, almeno tutte le scene finali mi sembrano palesemente roba sua a tutti i livelli. Comunque un film che sta alla sua carriera come “Il terzo uomo” sta a quella di Orson Welles: un fim non loro che sembra in molti momenti un film “lorissimo” e che resta di gran lunga il loro piu’ grande successo commerciale.
Ho sempre trovato “Interceptor” un titolo estremamente figo
Io pensavo che interceptor fosse il titolo originale, “il guerriero della strada” il solito (sotto)titolo italiano e che il terzo fosse diventato “mad max” perche’ ci aveva messo le mani Hollywood
Vogliamo non citarlo nei panni del mitico Gennaro Ulivieri di Mai Dire Banzai, a Kitano?
Proprio per questo e’ perfetto, qui. Dato che alla fine ne e’ una versione sanguinaria.
L`ho rivisto quest’estate vent’anni dopo la prima volta (Torino Film Festival 2002) e devo dire che non ha perso niente: violento e tragico, ma anche compassionevole e meditativo.
Quello che mi ha colpito della seconda visione e l’umanità di Kitano trattenuta a stento ma vitale, e i combattimenti tra gli studenti: disordinati, caotici e pieni di paura.
Bella recensione che sottoscrivo in pieno. Avrei voluto vedere il seguito ma su Netflix e’ senza sottotitoli e il mio Giapponese non e’ ancora all’altezza.
Io da ragazzino ho ADORATO il manga, era qualcosa di mai visto, conosciuto poi a 14 anni e quindi con un impatto unico nel mio immaginario. Metteteci poi che mortaccisua usciva ogni 3 mesi ci sono praticamente cresciuto insieme, e quando inevitabilmente un personaggio moriva mi sembrava che se ne andasse un compagno di classe, non c’è nessun altra opera che mi abbia affezionato così tanto ai protagonisti.
Tutto questo per dire che vent’anni fa quando ho visto il film mi ricordo che mi aveva deluso parecchio, ma visto che voi ne avete sempre parlato molto bene sono curioso di riguardarlo ora 35 anni e vedere l’effetto che fa.
Totalmente l’opposto: avendo già visto il film quando è uscito il manga l’ho abbandonato quasi subito, troppo infantile e pieno di fanservice. Per me era monnezza vera (a parte la qualità dei disegni)
Grand film. Un secolo che non lo rivedo, tant’è che non mi ricordo quasi nessuna scena.
Kitano perfetto.
PS Interceptor se nn erro era il nome dell’auto di mad max….
Ma è valido anche Il Farinotti 2013 scaricato in pdf da eMule?
L’ho visto durante il primo lockdown e non nego che l’abbia trovato “meh”
Sicuramente l’ho guardato con interesse, quindi non dico che mi abbia fatto cagare, anzi. L’idea di base è ottima, solo che il tutto è portato ad un eccesso tale che, a mio modesto avviso, invece di risultare disturbante, risulta quasi comico, involontariamente
Su Kitano, come si evince dal mio nick, è uno dei miei idoli assoluti. Mi spiace dar contro T.G. e sono pronto a pagare dazio per questo, ma uno dei motivi per cui il film non mia appassionato, è proprio il personaggio di Kitano, che riprende tutti i suoi ruoli da Violent Cop a Brother, ed in Battle Royale ne offre una versione quasi caricaturale
Parere personale, ovviamente. Ma chi come me ama profondamente il Takeshi di Hana-bi o Sonatine, non può mettere la sua interpretazione di BR nella stessa frase
Fortified School shot first.
Ma si ispirava comunque al romanzo
bellissima recensione, e conseguente gran fotta di vederlo.
@Toshiro potrebbe essere rimasto un piccolo refuso (“ha tentato di insinuare” era “insidiare” ?)
Bellissima recensione per un vero capolavoro. Ed è proprio vero che, per quanto Squid Game sia una bella serie, può puppare la fava. La versione hipster, comunque, renderebbe di più con il Farinotti 2015.
Cazzo, mi avete mezzo sbloccato un ricordo. Sto cacchio di film l’ho visto per la prima volta in Giappone, insieme a una masnada di teenager, in un pigro pomeriggio estivo: non si sapeva come ammazzare il tempo e han detto “ci guardiamo Battle Royale” (probabilmente usando qualche abbreviazione delle loro), come avrebbero potuto dire “giochiamo a street fighter” o “mettiamo sul 2 che c’è il programma sui fenomeni paranormali”. Sarà stato o il 2001 o il 2003 e Battle Royale era diventato un oggetto comune nella vita di un adolescente nippo.
A me era sembrata una solita tipica trashata giappo, alla stessa stregua di quei cazzo di Dorama o quei minchia di Idol, o tutti quei programmi tv demenziali che si sciroppavano colà.
Ogni tanto me lo riguardo, sulla scorta di un commentatore che ne parla come di una figata, e mi pare sempre una poverata. Boh, ci riproverò stavolta, Toshiro ha dato una guida per dummies e magari finalmente intravedrò la celebrata mano dell’autore: sono specialmente curioso di rivedermi la parte con le ragazzine nel faro.
Belle dritte Gifuni, sempre idoli.
Grande idea per una realizzazione tipica giapponese.
Che vuol dire ritmi gestiti male o poco digeribili per un pubblico occidentale.
Esattamente come The Ring, dove per la versione originale giapponese il leit motiv del pubblico era “fa più pauraa!!1!11!”, quando in realtà alterna qualche momento disturbante a diversi momenti soporiferi.
Meglio il The Ring americano, per me. Meglio gestito.
In BR di momenti soporiferi ce ne sono pochi, ma non manca tutta l’inespressività tipica degli attori giapponesi e i ritmi mal gestiti, tipici dei blockbuster giapponesi.
Ma poi alcuni dopo mille proiettili non muoiono mai, emuli di Michael Myers!
Kitano però spicca in mezzo ad un cast nipponico poco convincente.
Diciamo che come realizzazione mi ha convinto a metà.