Gli stranissimi è la video-rubrica che si occupa di film che sfuggono a facili definizioni e/o esistono per motivi imperscrutabili

Tipo Chi l’ha visto?, ma coi poltergeist
Halloween, 1992.
Sulla BBC va in onda un horror intitolato Ghostwatch.
Si tratta di una storia di finzione, ispirata agli avvenimenti di cronaca del poltergeist di Enfield (gli stessi raccontati anche in Conjuring 2), ma è girato come se fosse uno special televisivo in diretta: in studio c’è Michael Parkinson, vero e famoso presentatore inglese, circondato da altre note personalità televisive.
Come e più che per la famosa Guerra dei Mondi radiofonica di Orson Welles, la gente non coglie la differenza e si caga addosso: la BBC viene inondata da un numero record di telefonate e accuse varie: si parla di gente traumatizzata, bambini che iniziano a soffrire di PTSD, e altri aneddoti di vario tipo.
La BBC si scusa e decide di bandire ogni replica della trasmissione.
Col tempo però la leggenda di Ghostwatch cresce.
Soprattutto, 15 anni dopo esce Paranormal Activity e tutti i suoi vari cloni del filone found footage e non solo, e ci si rende conto che Ghostwatch aveva anticipato non solo il genere, ma – molto più di un Cannibal Holocaust che si inseriva in diversi contesti narrativi – proprio lo stesso modo di girare e di costruire scene horror.
Il culto di Ghostwatch cresce sempre di più, supportato da fans come Guillermo Del Toro e lo stesso sportivissimo Oren Peli di Paranormal Activity.
Sono passati esattamente 30 anni da quel giorno, e noi in via eccezionale abbiamo festeggiato in due modi: con una diretta su Twitch in cui abbiamo sviscerato sia il film che tutta la situazione; con un’intervista alla regista Lesley Manning che, insieme allo sceneggiatore Stephen Volk e alla produttrice Ruth Baumgartner, va riconosciuta come la vera madrina del genere.
A voi il filmato integrale della nostra diretta di ieri sera…
… e la nostra intervista a Lesley Manning:

Prima di Paranormal Activity
Puoi raccontarci un po’ del tuo background, e di come sei arrivata a dirigere Ghostwatch?
Vediamo un po’, la versione breve… Io sapevo disegnare. Quella era la mia abilità. A scuola ero la ragazza che sapeva disegnare. E così sono andata all’Art College. Ero molto interessata ai film, e così ho iniziato a farne, grazie a una Bolex che io e la mia migliore amica avevamo trovato in un ripostiglio. Non era una scuola di cinema, non c’erano insegnanti di cinema, per cui iniziammo a fare film nella maniera più casuale: da lì sono passata a fare montaggio in qualità di assistente, e poi con i film che avevo girato mi sono iscritta alla National Film and Television School a Beaconsfield, dove ho guadagnato sempre maggiore confidenza nelle mie abilità. Ho continuato a montare per un altro po’, poi ho ottenuto la possibilità di girare un documentario su un gruppo di street dance, di lindy hoppers. È iniziato tutto lì, poi ho fatto la trafila che a quei tempi era considerata classica: serial e poi film per la BBC. Poi di solito si fa un salto, ci si trasferisce negli USA o cose simili, ma io rimasi qua. Stavo lavorando con la produttrice Ruth Baumgartner a un altro film chiamato My Sister-Wife, quando Ruth mi prese da parte e mi disse “Ho uno script, lo vuoi leggere? È molto tecnico…” sottointendendo che era un po’ roba da uomini. All’epoca c’erano diverse donne registe: io non mi sono fatta problemi, ma molte col tempo hanno lasciato perdere, se capisci cosa intendo. Comunque: lo script di Stephen Volk mi piaceva, ed è iniziata così.
A che punto della lavorazione ti hanno coinvolta?
Lo script era ancora in fase di lavorazione. In origine doveva essere una serie, e poi è diventato un unico film di 90 minuti. Io sono arrivata quando era già un film di 90 minuti. Era ancora diverso dal prodotto finale, erano previste molte infestazioni di fantasmi, ma ci avevano incoraggiato a lavorare su una storia sola e io sono stata coinvolta durante quella transizione. Ma Stephen aveva già avuto l’idea di fingere che fosse uno speciale televisivo in diretta.

Immaginate di fare zapping e trovarvi davanti a che ne so, Corrado Augias alle prese con un poltergeist.
La parte più interessante del progetto è appunto la commistione di linguaggi, questo viaggiare sul confine tra il talk show in diretta e la fiction. Era la parte più interessante ma anche quella più difficile perché, come discutevate durante il Q&A al BFI, giocare con la fiducia del pubblico – specie per una tv di Stato come la BBC – è un tema delicato. Quali erano le preoccupazioni maggiori?
Da subito ero molto interessata a sfumare i confini. Dissi subito a Ruth che volevo che il vox pop, gli spettatori per strada, fossero gente vera e non attori. Volevo che il cameraman e il fonico fossero veri, in modo da poterli sia filmare che usare i filmati che loro stessi stavano girando. Ero concentrata sul realismo: la recitazione, ma anche il linguaggio delle riprese e della tv dal vivo. Abbiamo girato per due settimane nella casa infestata, altre due settimane per le sequenze in studio, e poi sei settimane al montaggio. Volevamo essere sicuri di non deludere con la tensione e gli spaventi.
Ecco, a tal proposito: io penso che il film funzioni perché, avendo il tono realistico da live tv, anche se sai che è simulazione è talmente immersivo che bastano pochi dettagli insoliti a terrorizzare. Se uno guarda un film d’orrore, con il linguaggio del film d’orrore, è inconsciamente preparato: il film deve fare qualcosa di straordinario per sorprendere e spaventare. Ma se guardi qualcosa di completamente diverso, con un linguaggio che normalmente associ ad altro, alle vere dirette, anche qualcosa di molto piccolo può essere del tutto inaspettato e terrorizzante. Per me la parte più divertente è questa. Ne eravate consapevoli? Avevate mai paura di esagerare?
È interessante perché in realtà successe questo: Ruth ci teneva a fare tutto quasi di nascosto e mantenere il più possibile l’elemento sorpresa, per cui lo mostrammo a un solo critico, un critico francese amico di Ruth dai tempi in cui anche lei faceva critica. Lui ci disse che era molto interessante a livello intellettuale, ma per niente spaventoso. Per cui tornammo in sala di montaggio e da lì in poi ci concentrammo unicamente sul cercare di farlo il più spaventoso possibile, tagliandolo, limandolo e rimontandolo per aumentare la tensione.
Come avete coinvolto Michael Parkinson? Non è conosciuto in Italia ma so che è un vero presentatore famoso in UK. Era preoccupato di mettere potenzialmente a rischio la sua reputazione partecipando a un progetto così insolito?
Avevo un direttore di casting che provò a contattare diverse personalità televisive da parte nostra, e molte di loro erano in effetti preoccupate per la loro immagine, per il loro brand. Ma Michael Parkinson era molto preso dal concetto. Gli piacque l’idea, gli piacque proprio il nocciolo della questione. Mi ricordo che organizzammo un pranzo con Michael e il suo agente, e ci andai con Ruth. Sapevo che gli interessava ma avevo anche la sensazione che avrei dovuto venderglielo bene. Ero giovane – ed ero una donna – per cui sapevo che avrei dovuto essere impeccabile da subito. Dovetti tirare fuori tutto il mio coraggio, perché normalmente ero una persona tranquilla. Ma presi la parola e dissi “questo è quello che vogliamo fare, e questo è come lo faremo” e lui capì subito. Gli piaceva, e anche quelli che erano con lui capirono lo spirito e si espressero a favore.
Come hai gestito il mix tra attori e personaggi veri o televisivi? La parte difficile immagino sia stata mescolare i diversi tipi di impostazione…
Gillian Bevan, l’esperta di paranormale, era un’attrice affermata. La madre e le bambine erano attori. Tutte le telefonate del pubblico erano attori. Il pubblico in strada no, era tutto autentico. Lo scettico americano in collegamento era un attore. Per il resto la risposta è in due parti. Da una parte nei primi anni ’90 in generale lo stile era diverso, potevi recitare in modo più sfacciato ed esagerato e la gente non avrebbe fatto domande: ora invece la gente se ne accorgerebbe. Dall’altra parte avevo visto diversi documentari, e avevo visto gente vera, non-attori, raccontare le loro esperienze, ed ero rimasta affascinata dal modo in cui questa gente parlava di avvenimenti tragici della loro vita. I ricordi li colgono in diversi momenti durante i loro processi mentali. È una cosa diversa dal recitare. Il sottotesto li coglie prima o dopo che hanno parlato del loro trauma, per cui mantengono il controllo mentre raccontano, ma poi– o magari un attimo prima – la loro voce si spezza. Ma durante, tengono un contegno. Lo trovavo molto interessante, molto diverso dalle performance drammatiche a cui siamo abituati. Mi ricordo di aver chiesto a Brid [Brennan, che interpreta Pamela, la madre che vive nella casa infestata, ndr] di guardarci e pensarci, e anche a Gillian. Mi intrigava la sfida di adattare questa sensazione, mi intrigava come la gente non parli in modo perfetto, di come inciampi nelle parole. E sapevo che anche Brid era colpita da questa cosa. Il suo lavoro era molto diverso dal solito. Era un’attrice eccellente, e conosceva lo script parola per parola, mentre non volevo invece che Michael imparasse lo script, perché non gli usciva giusto. Michael usava l’auto-cue, come in televisione, o improvvisava facendo affidamento al suo splendido, cordiale modo di condurre le interviste per cui era famoso. Per cui dovevamo mischiare questi diversi modi di approcciarsi al materiale. Dovevamo ricordare a Michael quali erano i punti chiave dello script, le posizioni intellettuali che andavano espresse per portare avanti la storia, ma a parte quello gli avevamo dato libertà totale. Tutto questo era stato discusso con me e Stephen durante le prove, gli avevamo detto che questo era ciò che volevamo da lui e lui era completamente d’accordo e a disposizione.

La famiglia infestata
Parlando delle scene horror: eri consapevole di quanto tu stessi creando un nuovo stile? In Italia siamo fieri di ricordare ogni volta che Cannibal Holocaust è stato il primo “found footage”, ma era completamente diverso da questo, simulava il girato grezzo di un documentario e non una formale diretta televisiva, e non ti poteva aiutare. Avevi dei punti di riferimento per quanto riguardava la messa in scena dei momenti horror?
Innanzitutto all’epoca non avevamo mai sentito parlare del termine “found footage” [è diventato di uso comune dopo il 1999, quando Blair Witch Project ripescò lo stile e lanciò una serie di imitazioni, ndr]. Vidi Cannibal Holocaust solo dopo, quando qualcuno mi disse appunto che era stato il primo e che io ero in quella categoria, in quel filone. Per cui sì, mi interessava recuperarlo. Ma non ho preso nessun horror come riferimento, a parte Nightmare. E ho preso quello come riferimento perché volevo approfondire il linguaggio della paura. Non conoscevo niente che fosse simile a Ghostwatch. Non ricordo di aver fatto ricerche particolari ma nessuno mi aveva nemmeno detto “hey, devi controllare questo o quest’altro perché stai per fare qualcosa che ci assomiglia”. Parlammo ovviamente della Guerra dei Mondi di Orson Welles, ma quello era uno spettacolo radiofonico. In generale mi sono sempre piaciuti Spielberg, o i fratelli Coen, o Hitchcock, e quel tipo di linguaggio: Lo squalo fu un film molto importante per me quando ero teenager, ho sempre amato quel tipo di film. Ma ricordo che all’epoca uscivano i film della serie di Nightmare, e mi ricordo che li guardavo e pensavo: “cosa mi sta spaventando, e perché mi sta spaventando?”. Per cui era una questione di misurare tutto col proprio “spaventometro” e usare quel tipo linguaggio all’interno del nostro contesto. Non era poi così impossibile: alla fine è sempre una questione di cose che sai ma non vedi. Ero sempre consapevole di quello e lo trovavo molto interessante.
E 15 anni dopo esce Paranormal Activity e il filone esplode. Sono venuto a conoscenza di Ghostwatch soltanto dopo aver visto un buon numero di film di quel genere, quando si iniziò a fare delle ricerche e venne a galla come avevate anticipato tutto quanto di parecchi anni. E quando l’ho visto sono rimasto colpito specialmente da come certi trucchetti erano già presenti anche nel tuo film, come il linguaggio fosse appunto già lo stesso e si cercasse già di spaventare nello stesso modo, con le stesse convenzioni formali che avevate anticipato. Quali sono stati i tuoi pensieri quando te ne sei accorta?
Di solito faccio caso a quando mi si rizza il pelo sul collo, e penso “Oh… quella sensazione era simile!”. Penso che sia un grande complimento quando la gente guarda Ghostwatch e pensa che sia interessante, per imparare o quant’altro… Non dico che qualcuno l’abbia effettivamente guardato e usato coscientemente come riferimento per il linguaggio. Se l’hanno fatto, sia io che Stephen siamo lusingati.
Qual è stata la scena più complessa da progettare o da girare?
Non riesco a pensare a qualcosa in particolare che fosse difficile. Anzi, in realtà una scena è stata difficile, ma è stato in post-produzione: è la scena iniziale, in cui vediamo le immagini universitarie di repertorio del fantasma in azione che spaventa le bambine. Non era stata difficile da girare, ma non era abbastanza spaventosa. E allora ho dovuto manipolarla per renderla più spaventosa. Quello fu un piccolo shock per me, perché avevo scritto questo linguaggio di riprese per me stessa, sapevo cosa volevo fare, come volevo usare le telecamere, e in questa situazione avevo dovuto infrangere le regole. Come filmmaker devi infrangere le tue stesse regole, non puoi insistere a mantenerle se non funzionano, e in quel caso non stavano funzionando per cui le ho infrante. E le ho infrante di nuovo in una scena successiva, quando vediamo una delle bambine colpire i tubi.
Ti riferisci al momento in cui usi lo zoom?
Sì è quello.

Stephen Vok, Lesley Manning, Gillian Bevan e Ruth Baumgartner intervistate durante il 30esimo anniversario di Ghostwatch venerdì scorso al BFI
Passiamo a quanto è successo dopo la messa in onda. Ricordi le reazioni della BBC?
Penso che la BBC non avesse la più pallida idea di cosa avessimo fatto. Posso sbagliarmi, ma ho anche il sospetto che – prima di trasmetterlo – abbiano guardato i primi dieci minuti, non li abbiano capiti e abbiano spento. È un mio sospetto, eh? Ma davvero: non sapevano che cos’era. C’è uno show che è andato in onda 15 anni fa, una commedia, chiamata The Royal Family, molto di basso profilo, molto realistica, e anche di quello si dice che i responsabili della programmazione non l’avessero veramente capito, e posso vedere come non avessero capito il linguaggio drammaturgico – o la mancanza di esso. Per cui semplicemente pensarono che avevo fatto un grosso errore, e pazienza, era solo una grossa svista. Per loro il problema era che non fosse abbastanza interessante, e che semplicemente non aveva funzionato. Penso fossero stati colti completamente alla sprovvista, e che non avessero capito le reazioni.
Pensi che questo ti abbia ostacolato la carriera?
È molto possibile, ma è difficile da dire. È molto difficile poter dire cosa succede alla carriera di chiunque in un qualsiasi momento… Per dire, Stephen e io abbiamo lavorato ad altre storie di fantasmi negli anni seguenti. Penso che fosse più una questione a livello di singoli produttori: o si schieravano a favore, o contro. Michael Parkinson dichiarò che, nel gestire le reazioni a Ghostwatch, la BBC fece sfoggio del suo peggior lato aziendale. Ma insomma, è impossibile dirlo.
Cos’hai pensato invece della forte, e direi anche eccessiva, reazione del pubblico?
Come filmmaker sei talmente assorbito dal cercare di fare quello che stai facendo in un modo che pensi che il pubblico possa apprezzare… Tutto quello che ricordo è di come fossi immersa in questo tunnel del cercare di limare e ripulire e far funzionare il film il più possibile, esaminare tutto ciò che pensavo non funzionasse ancora al suo meglio… Tutto quello su cui un filmmaker rimugina all’infinito, mentre lavora con il montatore e prende le decisioni. Quando alla fine esce, è difficile cambiare focus. La produttrice Ruth era ovviamente fin troppo consapevole di quanto stava accadendo, l’aveva messo in conto, e anche Stephen a certi livelli, perché l’aveva scritto ma poi l’aveva affidato alle mie mani e stava attendendo il risultato. Loro erano preparati, ma io no. Io ero troppo emozionata al semplice pensiero che qualcuno l’avesse guardato e non sapevo cos’altro pensare. Specialmente per quanto riguarda i prodotti televisivi, che escono e per certi versi spariscono, nel senso che hanno una sola “proiezione” e non puoi assistere dal vivo alla reazione del pubblico…
Specialmente perché appunto a seguito delle reazioni furono proibite le repliche…
È stato bandito per dieci anni, e poi il BFI l’ha distribuito in dvd ed etichettato come un classico della tv. Ma sì, devo ammettere che io e Stephen abbiamo sofferto un po’ quel periodo.
Arriviamo a oggi: stai ancora lavorando e non hai fatto solo horror. Cos’hai in programma?
Fremo dalla voglia di tornare all’horror e ho un altro script per cui stiamo cercando finanziamenti, una cosa a cui abbiamo lavorato io e Stephen. Sono sempre piena di script a cui mi piacerebbe lavorare.
Che ne pensi dei complimenti che arrivano da altri filmmaker affermati che continuano a parlare bene di Ghostwatch? Qualcuno di loro vi ha effettivamente contattati?
Sì, ad esempio Rob Savage, regista di Host, è stato molto carino nei nostri confronti, sia lui che il suo produttore Jed Shepherd. Sappiamo che Oren Peli ha citato Ghostwatch come film che ama e questo ci lusinga – non ci sta finanziando niente ma sarebbe bello… Guillermo Del Toro ha espresso apprezzamenti… Penso che forse questo sia dovuto un po’ anche al fatto che è un film difficile da trovare, forse quando la gente lo scopre pensa di aver trovato un tartufo!

Lesley Manning, a destra, anticipa anche la moda dei registi che si fanno fotografare mentre puntano il dito
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Salve, sono la mamma del bambino di 8 anni a cui ieri avete spiegato come farsi fare la matita nei bagni della scuola. Volevo ringraziarvi e se permettete chiamarvi amorevolmente Zio 1, Zio 2 e Zio 3 , perchè noi Genitore 1 e Genitore 2 non avremmo mai avuto il coraggio di spiegarlo al nostro amato orecchioni a sventola. Lui si era fatto l’ idea che solo la parte della diretta in cui si collegano nella casa fosse registrata, mentre il resto (ossia presentatore, medium e telefoniste) fosse in diretta veramente. Poi hanno unito tutto e ci hanno fatto il film da vendere in vhs. Insomma, non ci aveva capito una favə. Ma grazie a questa intervista, il mio piccolo ha capito finalmente mooolto bene com’è andata. Scusatelo, ma è rincoglionito come il suo vero padre, Genitore 3, e maledetta la volta che mi son fatta l’ amante. Con affetto, signora Dumbolika Veruska.
P.s: scusate la fretta, avreste meritato maggiori ringraziamenti, ma sto digitando dai bagni di un autogrill. Complimenti ancora!
Stavolta avete fatto il botto, cavolo.
Bomba di titolo, che in effetti non avevo mai sentito nominare, gran presentazione e splendida intervista.
Un altro oggetto filmico poco indagato dalle nostre parti che vive ai confini tra finzione e realtà è “The Legend of Boggy Creek” del ’72, di quel soggettone di Charles B. Pierce. È sostanzialmente un documentario che ricostruisce tutto e non finge mai di essere vero, ma che allo stesso tempo racconterebbe cose “vere”, con la splendida fotografia e la cura antropologica dei dettagli che trasmettono un tale senso di realismo da creare un bel cortocircuito: tanto la finzione è più evidente (il mostro è chiaramente un tizio con un costume peloso addosso) tanto si ha l’impressione di vedere qualcosa di “onesto” e quindi credible.
“Innanzitutto all’epoca non avevamo mai sentito parlare del termine “found footage” (…) Non conoscevo niente che fosse simile a Ghostwatch. Non ricordo di aver fatto ricerche particolari ma nessuno mi aveva nemmeno detto “hey, devi controllare questo o quest’altro perché stai per fare qualcosa che ci assomiglia”. Parlammo ovviamente della Guerra dei Mondi di Orson Welles, ma quello era uno spettacolo radiofonico”
Almeno un’eccezione pregressa insediatasi tra Welles e Manning c’è: trattasi dell’ottimo Special bulletin di Zwick classe 1983, che è praticamente Ghostwatch in diretta CNN col fantasma immanente della guerra atomica (peraltro sentitissimo in quegli anni) e del terrorismo nucleare al posto dei trascendenti fantasmi formaggino; vedendolo, facile immaginare gli incubi che deve aver causato ai ragazzini dell’età giusta per inquadrare o percepire la gravità del problema ma non abbastanza cresciuti per capire che si trattava di fiction, e quanto avrà mandato in bambola anche non pochi adulti non ancora avvezzi a questi rari esperimenti-espedienti che in termini cognitivi e percettivi reinventavano la ruota e il cric per cambiarla, e incrinavano/stravolgevano i precetti rappresentativi prima ancora che il foundfootage accorresse a viziarci e renderci via via insensibili bocca mente occhi anima sguardo tutto.