Quando uno come David Cronenberg decide di chiudere un cerchio della sua impareggiabile carriera riprendendo spunti e titolo da un suo cortometraggio degli inizi, è il segnale per far partire la retrospettiva. E noi, puntualissimi, rispondiamo. A voi l’ultimo episodio del nostro imprescindibile speciale: Le basi – David Cronenberg.
A Dangerous Method (2011) di Cicciolina Wertmüller

Keira prende la rincorsa
Tutti odiano ADM perché non è il film che si aspettavano. Non ci sono i mostri, dicono. Ma è sbagliato! I mostri ci sono eccome, ma come accennavo nel mio pezzo su Inseparabili, stavolta i mostri sono tutti dentro, immateriali, ben nascosti dietro i bei corpi degli attori, dietro l’insopportabile eterno bel tempo, eppure onnipresenti. Ricordo, ai tempi, il dibattito: Keira Knightley in ADM è brava o cagna? Secondo me non è affatto cagna; commette però la scelta bizzarra di esternare la sua recitazione in un film che, appunto, si svolge tutto all’interno dei personaggi. Digrigna la mandibola, si contorce, singhiozza, mentre Fassbender e Mortensen concentrano di significato ogni sfumatura espressiva – e il contrasto in effetti lascia spiazzati. Piuttosto, pensiamo a quel monumento all’incapacità recitativa che è Sarah Gadon: perché ben due generazioni di Cronenberg la fanno recitare? C’è sotto qualcosa di losco? Non ho voglia di controllare, voglio solo vedere Sarah Gadon su uno schermo il meno possibile.
O forse tutti odiano ADM perché il cinema ci ha abituati a prendere per il culo la psicanalisi, quindi vederla trattata in modo serio ci infastidisce. Siamo quelli che durante la pandemia, pur di non fare un vaccino regolarmente e scientificamente testato, abbiamo preso vermifugo per cavalli, abbiamo bevuto disinfettante per acquari, ci siamo sparati una torcia su per il culo – eppure, l’idea di andare da un medico che ci fa stare meglio parlando di ciò che ci fa soffrire, quello no, non va bene.
E ora un po’ di kultura! La colonna sonora di Howard Shore rimaneggia temi wagneriani e fa molto uso dell’Idillio di Sigfrido; a un certo punto, Jung e Spielrein confessano di essere entrambi appassionati di Wagner, soprattutto il Sigfrido. Cronenberg ha dichiarato di avere pensato a lungo se lasciare questo scambio nel montaggio finale. Perché? In parte perché Cronenberg, vuole tracciare un parallelo fra Jung, dall’ideologia politica ambigua, e Freud e Spielrein, ebrei; e che musica vuoi che ascolti un intellettuale mezzo matto e pseudonazista? Wagner, ovviamente! Addirittura, verso la fine, Freud mette in guardia Spielrein dicendole qualcosa come “Noi siamo ebrei, non dobbiamo fidarci di un Sigfrido ariano”.
Ma perché proprio il Sigfrido? Forse perché è un titolo più facile far passare la solita minchiata di Wagner nazista (con “L’Olandese Volante” la vedo più difficile), o forse perché il personaggio di Sigfrido, lungi dal rappresentare la “belva bionda” del cui immaginario si impossessò il Terzo Reich, ha qualcosa in comune con Jung. Nell’opera onomima, Sigfrido è un ragazzo non troppo sveglio che va a caccia nei boschi; il suo grande problema è che non conosce la paura. Ma ciò non vuol dire essere un eroe, vuol dire essere un coglione temerario. Sigfrido uccide un drago, si impiastra in un guaio più grosso di lui, uccide pure il patrigno ma niente, non prova paura finché non entra in contatto con una cosa terrificante di cui non sospettava l’esistenza: la figa. E lì, finalmente, diventa un uomo.
Jung in ADM fa un percorso simile: prima si autoconvince di avere sotto controllo tutti i lati più irrazionali della vita, ogni pensiero o pulsione fa parte di un bellissimo disegno cosmico, tutto ha senso, nulla è spaventoso – mentre Freud insiste a dirgli che sì, invece, sì che la mente umana fa paura, ammettilo. Quando Jung incontra Spielrein e viene rapito dalle sue inclinazioni sadomasochistiche, il suo disegno perfetto crolla; anche Jung ha paura, anche lui diventa un uomo – e come Sigfrido, è destinato a soccombere.
Cosmopolis (2012) di Xena Rowlands

“El rata alada…”
Quando hanno annunciato che il nuovo Batman sarebbe stato Robert Pattinson (è ancora il nuovo Batman? Ho perso il conto dei Batman, e poi mi pare di aver capito che sia tornato Michael Keaton…) si sono sollevate delle – come dire? – perplessità. Pensate nel 2012 quando è venuto fuori che il primo lavoro del Pattinson post Twilight sarebbe stato un film di David Cronenberg, per di più un adattamento cinematografico di un romanzo di Don DeLillo, Cosmopolis. Non ci credeva nessuno, e non ci credeva nemmeno Pattinson, che infatti l’ha dichiarato candidamente: prima di girare Cosmopolis non pensava che avrebbe mai davvero potuto fare l’attore serio, da cinema d’autore (e invece poi non ha fatto praticamente altro, fino appunto a The Batman; okay, e Tenet, che è una via di mezzo tra autorialità e blockbuster, perché lo è Nolan).
Per Cronenberg invece si trattava di un doppio ritorno: alla sceneggiatura (era da eXistenZ che non se ne occupava lui) e alle automobili. Ma. Riguardo al primo punto, non solo quello di Cosmopolis è comunque uno script non originale, trattandosi di una trasposizione, inoltre lo stesso Cronenberg ha raccontato di averlo buttato giù in soli sei giorni (il settimo si è riposato) e di essersi sostanzialmente limitato a dividere in scene qualcosa che su carta era già praticamente perfetto in partenza (balle: leggete il romanzo – tanto è corto – e capirete quanto può essere grande la distanza tra letteratura e cinema, anche lasciando la trama quasi intatta). Riguardo al secondo punto, chi sentendo Cronenberg + automobili ha pensato a Crash si è ritrovato davanti agli occhi qualcosa di molto molto molto molto diverso da quel che si aspettava. Immediatamente dopo A Dangerous Method, con Cosmopolis il nostro canadese preferito continua nel suo percorso di “astrazione”, di “smaterializzazione”, lasciando apparentemente andare la carne, il corpo, il body horror in favore di un filosofeggiare psicoanalitico, verboso e asettico.
Solo che ovviamente no, come dice giustamente Cicciolina qua sopra a proposito di A Dangerous Method, i temi cari al Nostro non spariscono. Si spostano. Scivolano dal fuori al dentro, dalla superficie al sottopelle. Mutano. Naturalmente uno spettatore può, anche legittimamente, non accettarlo. La tripletta post La promessa dell’assassino è fatta di lavori che con un eufemismo potremmo definire bizzarri, “scarnificati” all’inverosimile, ma non si può dire che non siano coerenti.
Se in Crash con le automobili si scopava, il protagonista di Cosmopolis nella sua automobile, che poi è una lunga limousine, si rifugia, praticamente ci vive, ci scopa, certo, anche. Ma soprattutto ci si accoccola dentro, come in un bozzolo, come in un utero, del tutto separato da quello che accade fuori, mentre il fuori scorre su finestrini che sono platealmente schermi. E quello che accade fuori è il collasso della civiltà. La trama è lineare come il percorso che la limousine si ostina a voler fare nel film: c’è un multimilionario, Eric Packer (il Pattinson, appunto), che decide di andare a tagliarsi i capelli dal suo barbiere di fiducia, attraversando il traffico immobile di una Manhattan bloccata da una visita del presidente degli Stati Uniti, dal funerale di un famoso rapper (il suo musicista preferito!) e, a un certo punto, pure dalle proteste violente di un gruppo di anarchici anticapitalisti con la passione per i ratti. Packer/Pattinson non ha davvero bisogno di tagliarsi i capelli (o, come dice lui, di “farsi aggiustare il taglio”), ma è evidentemente abituato a fare tutto quello che vuole fare, quando lo vuole fare, e non ci sono cazzi. In quello che si preannuncia un viaggio inutile e inutilmente lungo, accoglie nella sua limousine una quantità di gente che lavora per lui, alcuni con impieghi vagamente sensati (Chief of Finance), altri molto meno (Head of Theory?). Eric ascolta questa gente blaterare, scopa con Juliette Binoche, si fa visitare dal suo medico, è terrorizzato dall’avere la prostata asimmetrica. Ogni tanto abbandona l’auto per incontrare sua moglie, la non bravissima attrice canadese Sarah Gadon.
Il virus, la mutazione, la contaminazione, la malattia, la deformità non stanno più nella carne, tant’è che Packer sembra affetto da un’insensibilità patologica, e se vogliamo possiamo pure ironizzare sulla cronica inespressività di Pattinson (quanto meno in questa fase di carriera), ma ciò non toglie che sia esattamente quello che a Cronenberg serve, quello che vuole. Packer/Pattinson si muove come spinto da una pulsione di morte, dal desiderio di scalfire questa marmorea indifferenza, verso l’automutilazione, verso l’annientamento. Ma, nello stesso tempo, è lui stesso il vampiro (ahah) che sta prosciugando il mondo, l’emblema del capitalismo finanziario che contamina e avvelena e accelera il collasso. Infatti, fuori, il mondo appunto collassa, e intanto, una tappa dopo l’altra, Packer perde tutto, si disfa, si sfalda, lui e il suo impero. «Uno spettro si aggira per il mondo: lo spettro del capitalismo» urlano i rivoluzionari e le breaking news di Wall Street. Ora della fine, quello spettro è proprio lui. Tutto il resto, ai topi (è la peste, la stessa che Freud e Jung dicevano che avrebbero portato con la psicoanalisi? Quella che si porta dietro, ovunque vada, il vampiro?).
Maps to the Stars (2014) di Xena Rowlands

Sì Julianne, mi dispiace ma anche tu ti becchi un film con Robert Pattinson.
Hollywood ha sempre fatto film su Hollywood. In certi momenti di più, in altri di meno, per esempio quest’anno di più: Elvis, Nope, The Fabelmans, Blonde, Babylon, perfino a suo modo Top Gun: Maverick. Se togliete Tom Cruise, che è in fondo l’ultimo dei romantici, tutti gli altri citati s’impegnano tantissimo a mostrarci il lato oscuro della fabbrica dei sogni. Sì, perfino Spielberg, fa questa cosa nostalgica dell’infanzia, del cinema artigianale, dei trucchi del mestiere, ma in realtà sta raccontando di un’arte, un “dono”, che ti strappa dentro, un talento che è anche una maledizione, perché ti porta a vedere tutto, sempre, ma con gli occhi di un altro. In Babylon ci sono la merda, il piscio e il vomito se non ricordo male già nei primi dieci minuti. In Nope il cinema è un alieno che ti mangia (semplifico). Insomma, ci siamo capiti, però tutti quanti, nonostante tutto, nonostante apparentemente si crogiolino nello schifo che può fare quest’industria che mastica e sputa, che ruba l’anima e la trasforma in immagini eterne e in “morte al lavoro”, nonostante tutto, dicevo, non riescono mai a immunizzarsi davvero contro la meraviglia, a rendersi indifferenti al potere dello spettacolo. Stanno lì, spaccati in due, a guardare il più grande spettacolo del mondo con la loro bella Spielberg face.
Cronenberg invece no. Innanzitutto Maps to the Stars non è Hollywood che fa un film su di sé, ma un canadese che fa un film su Hollywood. Per fare Maps to the Stars Cronenberg ha girato effettivamente a Hollywood, per la prima e unica volta in vita sua, ma solo per un totale di cinque giorni (il sesto e il settimo si è riposato). In Maps to the Stars per Hollywood non c’è alcuna fascinazione, alcuna tenerezza, alcun feticismo, alcuna meraviglia, alcuna nostalgia. Con lo sguardo asettico e impassibile del chirurgo (il suo, preciso e inconfondibile, quello che è diventato l’aggettivo “cronenberghiano”), Cronenberg guarda questa manica di stronzi e di poveretti che compone “l’industria dello showbusiness”, poi prende il bisturi e li fa a fettine.
Ci si chiedeva in redazione se potesse qualificarsi come film di menare, Maps to the Stars, e giustamente Cicciolina notava che, beh, forse non sarà proprio un vero film di menare, però c’è diversa gente che muore malissimo, e questo qualcosa dovrà pur contare. Come in una mutazione da Cosmopolis, abbiamo di nuovo il Pattinson in una limousine, solo che questa volta sta davanti invece che dietro. Guida, e obbedisce agli ordini, non il contrario. Accoglie una ragazza misteriosa dalle mani guantate, che, nonostante sia appena arrivata in città, diventa – grazie all’intercessione nientemeno che della principessa Leia – l’assistente di una diva narcisista, insicura e nevrotica (immaginate una combinazione peggiore), a sua volta ossessionata dal confronto con la madre, celebre attrice del passato morta (male), e dagli abusi che le ha inflitto. La ragazza misteriosa è invece ossessionata da un’altra famiglia hollywoodiana, composta da un attore ragazzino appena uscito dal rehab, da un padre guru-terapista viscidissimo, una madre crudele. La ragazza misteriosa ha delle cicatrici da ustione che, mano a mano che il film avanza, diventano sempre più visibili, come se riaffiorassero sulla carne a contatto con quest’universo infernale. A un certo punto qualcuno prende fuoco e qualcun altro viene ammazzato (male) con un bel premio contundente.
La sceneggiatura di Maps to the Stars è di Bruce Wagner, romanziere losangelino che da sempre satireggia Hollywood con la competenza di chi conosce molto bene l’argomento, visto che fa pure l’attore e sceneggiatore. Tra le altre cose, ha firmato lo script di Scene di lotta di classe a Beverly Hills e ha tratto dal suo romanzo Wild Palms l’omonima miniserie. Ha fatto anche l’autista di limousine, e infatti nel ruolo di un autista appare (non accreditato) in Maps to the Stars. Questo per dire, tra le altre cose, che Maps to the Stars è anche uno dei rari film di Cronenberg in cui c’è dell’ironia scoperta, cercata, forse l’unico vero canale di “vicinanza” allo spettatore di un film che sostanzialmente è una tragedia greca filmata come fosse un’operazione chirurgica. Dove pure la luce dorata della California è virata in un chiarore livido e sinistro, e l’intrinseca nostalgia del cinema si esplicita in spettri (eccoli qua di nuovo), o allucinazioni, che in fondo fa lo stesso.
Sì, Maps to the Stars è un film di fantasmi, pure più letterale e diretto dei precedenti due, visto che sia Havana (una pazzeschissima Julianne Moore, talmente straordinaria che vien davvero difficile credere possa esser figlia della non bravissima Sarah Gadon) sia Benjie (un ragazzino senza spalle) sono perseguitati da apparizioni angoscianti, la prima della madre e il secondo della piccola fan morta di tumore. È che tutti sono già dei fantasmi, a cominciare da Agatha/Mia Wasikowska, che riemerge dal passato come si fosse trascinata da sola fuori dalla propria tomba, e incontra come dicevamo lo spettro Pattinson “reincarnatosi” direttamente dal film precedente. Come Mulholland Drive quasi tre lustri prima, anche Maps to the Stars sembra trasfigurare la fabbrica dei sogni in sostanza onirica, quei puzzle irrazionali e incandescenti che appena sveglio non riesci più a ricomporre con la logica, ma ti lasciano in bocca comunque il sapore di un senso, di un significato. E per Cronenberg, ancora una volta, come sempre, è un senso che sa di metallo e malattia.
Sinceramente la tripletta finale su Cronenberg poteva essere recensita in maniera più approfondita…
Mi spiego, se A Dangerous method è un archetipo che il canadese usa per parlare della mutazione della mente, da una parte porta il regista ad analizzare la psiche umana come una sorta di trasformazione dell’io. Dall’altro Cronenberg mostra il rapporto epistolare tra Jung e Freud, il loro rapporto a distanza, che poi diventa incontro-confronto. In cui Morteson-Fasbender chiacchierano dei rispettivi metodi e studi. Poi diciamo che c’è anche Vincent Cassel un Otto Gross che afferma di non reprimere nulla… ed è in cura da Jung. La Gadon rimane sullo sfondo, come moglie di Jung non interessa molto. Comunque il film ha il suo perchè, anche se forse mette troppa carne al fuoco si lascia più che guardare è affronta temi complessi come la psicanalisi riuscendo a coinvolgere il pubblico. Il film è comunque stato un flop. Cosmopolis è sicuramente il mio film preferito del trittico, arriva addirtittura un anno dopo l’altro, riesce a dare un senso al romanzo di Delillo che non è un narratore semplice,ma l’unica pecca o valore aggiunto è che il finale è MONCO. si chiude sul confronto con la pistola tra Giamatti e Pattison e punto, ovviamente anche per Cronenberg il finale vuole dire qualcosa, o forse no. Interessante l’interazione del protagonista con gli altri personaggi che passano tutti attraverso la sua auto-casa. Tutto sa di straniamento, distanza, allucinazione, ma soprattutto c’è un cast impressionante. Attrici di grido che vengono usate giusto per una scopata (la Binonche)altri che attraversano letteralmente l’auto per una manciata di minuti: Jay Baruchel. Poi è fuori che avviene la fine del capitalismo, è l’auto è solo uno spettatore muto e in parte inosservato. Si parla molto, come succede spesso nei romanzi di Delillo e ovviamente il film è un floppissimo, anche perchè con la sua ricerca di Star il canadese spende buona parte del budget, comunque il film a me personalmente piace molto.
Maps to the stars non è che mi abbia invece colpito più di tanto, Croneneberg ne fa una sorta di critica del modello Hollywood ma in parte secondo me canna alla prova della narrazione. Affronta troppi temi, non riuscendo a gestirli, il rapporto tra genitori e figli. La pellicola di Cronenberg, dietro alla vicenda dei due attori bambini, ha come obiettivo quello di criticare e ridicolizzare con una vena satirica il rapporto tra il mondo dello spettacolo e la cultura occidentale nel suo complesso, oltre che la vita privata delle celebrità, rivelando le ombre che si celano dietro la macchina da presa. Un accusa a quel mondo di cui lui è sempre scivolato via, che crea star che molto spesso finiscono distrutte dai loro drammi e fantasmi personali. Purtroppo il film si trascina verso una neanche tanto velata tragedia finale che se nelle intenzioni del canadese doveva essere un finale quasi catartico diventa invece ne più ne meno quello che si è già visto in altri film sulle star sul viale del tramonto, the Knight of caps di Malick affronta il tema in maniera diversa ma anche più coinvolgente. Comunque poi Cronenberg si è ampiamente riscattato con Crimes of future, tornando in parte alle origini. E speriamo che continui ancora.
Sarò in disparte, ma per la Keira in ADM è perfetta, ennesimo esempio nella filmografia di un regista che prende attori di poca qualità e li usa nel modi migliore. Un mostro dal corpo deformato dalla mente e che si evolve e “guarisce” divorando l’eroe che era giunto a salvarla. Il film comunque sono anni che mi riprometto di guardarlo perché da quando l’ho visto sono passati anni e il mio interesse per Jung e Freud è cresciuto, li ho studiati di più, e quindi vedere quanto sono stati attinenti alla realtà e quanto invece si sono presi delle libertà.
Ma infatti lei e’ perfetta, quel tipo di disturbi si presenta proprio cosi’. E si’, anche se non e’ politicamente corretto notarlo, anche nella realta’ le persone che soffrono quei disturbi sembra che recitino una parte grottesca e “finta”.
E’ la regola di Simple Jack: nei film “non si fa il completo ritardato!”
Vorrei precisare che tra Cosmopolis e The Batman, oltre all’altro Cronenberg, Pattinson ha interpretato altre pellicole degne di nota: Civiltà perduta, Good Time e The Lighthouse. Ritengo soprattutto queste ultime due le sue migliori interpretazioni. Comunque, tre mini-recensioni molto carine.
Aggiungo High Life tra i suoi film compresi in quell’arco di tempo che mi sono piaciuti. E anche Tenet, citato nell’articolo da Xena.
Al Graham Norton Show, la Knightley ha dichiarato di essersi collegata su Skype con il Maestro, che le ha chiesto “fammi vedere le facce che fai quando godi”. In quel momento l’immagine si è frizzata in una smorfia orgasmica. Da lì pare siano nate le nuovacarnissime, mostruose smandibolate del film
Cosmopolis mi aveva sorpreso sia per le scelta del vampiro (che è un attore per me bravone) sia per la trama bizzarra..Maps to The stars visto e credo rimosso…Keira non l’ho mai sopportata granchè e gli unici film che ricordo con lei sono il pochissimo calcista Love Actually e il poco più calcista The Jacket..ma era giovane e gnagna (lo è ancora ovviamente) e le faccette non erano ancora uno standard.
Faccio la domanda con assolutamente nessuna ironia, voglio solo capire: ma Keira Knightley non era una brava? Normalmente in recensioni e riviste si parla bene di lei
vaccino “regolarmente e scientificamente testato”? a casa mia si dice “ofeltee fa’ el to’ mestee”: meglio parlare di cinema ed evitare di dire vaccate.
as far as the rest is concerned: Julianne Moore è fenomenale. fifty is the new thirty.
Cosmopolis secondo me è un film gigantesco. Asciutto e glaciale, è una delle migliori allegorie della società capitalistica occidentale. Per dirne la sua grandezza basterebbe analizzare la straordinaria direzione degli attori che via via entrano nella limousine: cosa e come lo dicono, che posizioni assumono, i loro movimenti.
E Pattinson con la sua inespressività è totalmente funzionale all’assunto.