«Magari il titolo Bitch Ass non è abbastanza esplicito, suona criptico. Magari ci serve qualcosa di più per chiarire subito le cose. Magari chiamiamo Tony Todd e gli facciamo dire “black horror” almeno sette volte prima dei titoli di testa».
Bitch Ass è un black horror. Proprio nel senso che si apre con un narratore nero che introduce questa serie antologica dell’orrore a tema black horror con le parole “Conoscerete certamente le vecchie storie dell’orrore” e qui mi si presenta un problema, come si traduce “hood”? Non “cappuccio”, intendo proprio “the hood”, abbreviazione di “neighborhood” in teoria ma nella pratica una parola etnicamente connotata, tanto è vero che Tony Todd nei panni di TITUS DARQ procede a citare proprio Tales from the Hood, e poi Candyman, La casa nera… all’argomento abbiamo dedicato un’intera serata con ospiti speciali. Il punto è che Bitch Ass si presenta con una grande faccia tosta, annunciando la sua stessa natura di operazione nostalgica e puntando il dito senza vergogna verso tutta la roba a cui si ispira.
Che è una cosa un po’ antipatica, di solito, no? Un po’ paracula. Ooooh guarda, la nostalgia, ti ricordi quanto si stava meglio quando si stava peggio? I vecchi film di una volta! Se non che se parliamo di black horror questo discorso un po’ si sgonfia, perché quando mai c’è stato un revival del black horror? Al di là del discreto remake di Candyman che esiste perché nel nostro universo si sono incrociate le storyline del franchise a tutti i costi e quella dell’Oscar a Jordan Peele. Ecco, Jordan Peele. Lasciate stare chi è venuto poco prima ma non è arrivato fino alla statuetta e quindi automaticamente viene dimenticato. Quella cerimonia è stato il Nuovo Anno Zero del genere. Se oggi si parla di black horror il merito è al 99,99% di Jordan Peele. Non me ne voglia Spike Lee!
E questo ha, inevitabilmente e anche fortunatamente, orientato la bussola del genere in una direzione precisa. Bitch Ass invece se ne frega, ed è una cosa altrettanto splendida! Non perché abbia qualcosa contro Jordan Peele e la politica, anzi, voglio sicuramente più bene io a Jordan Peele che chiunque di voi, ma perché il fatto che Bitch Ass scelga con decisione di non essere un black horror politico è a suo modo una scelta politica, che lo fa staccare dal panorama generale e che indica una strada alternativa a quella dominante, diversa ma non per questo meno potente. È la strada che guarda l’uomo bianco in faccia e gli dice “non mi servi. I film dell’orrore possiamo farceli da soli senza bisogno di usarti come metafora, ricettacolo o catalizzatore dell’orrore stesso”.
Bitch Ass è un black horror fatto da neri, per neri, sui neri e senza l’ombra di una persona bianca, neanche sullo sfondo, neanche di passaggio. Direte “vabbe’ mica sarà una novità! Tipo, che ne so, Blacula…” e no vi fermo subito, guardate qui. E poi non è quello il punto, non è una gara a chi ha meno bianchi. Il punto è che l’approccio peele-iano al black horror, e quindi quello dominante in questi anni, è costruito anche/soprattutto sulla c.d. questione razziale, sul rapporto tra persone bianche e persone nere quasi sempre nello specifico contesto degli Iu Es of Ei. Bitch Ass invece se ne frega di problematizzare perché vuole solo far soffrire male più gente possibile, e quindi elimina i bianchi dall’equazione.
Quello che ne risulta è… un bello slasher! Non completamente privo di questioni politiche ovviamente, e anche facilmente prevedibili nel momento in cui vi dovessi dire che la sua ispirazione principale è La casa nera. Bitch Ass è un film di ricchi contro poveri, ma dove il film di Wes Craven metteva due bianchi che più bianchi non si può nei panni dei primi, quello di Bill Posley (comico, sceneggiatore di una decina di episodi di Cobra Kai, nonché autore di svariati corti con titoli che vanno dallo stuzzicante all’insostenibile) li sostituisce con nonna e nipote neri, come neri sono i rapinatori che entrano nella casa degli orrori ignari del loro destino. Dopo ve lo racconto. Intanto SIGLA!
Non è vero, non ve lo racconto il loro destino, scopritelo voi.
Bitch Ass comincia con molta più prudenza di quella dimostrata nel resto del film.
Prima l’intro-cornice con Tony Todd, che ci spiega che stiamo per assistere alle vicende del primo serial killer nero a indossare una maschera (ammetto che non ho controllato ma mi fido di Tony Todd). Poi il classico cold open dove ci viene introdotto detto serial killer, Bitch Ass appunto. E secondo me la sua natura ci viene anticipata per evitare confusione: la prima volta che lo vediamo si presenta tutto bello mascherato sul luogo di una rapina e possibile stupro ai danni di una giovane fanciulla. Bitch Ass riesce a fermare il tragico evento e, ignorando le minacce di ritorsioni che gli vengono rivolte dal criminale, lo stordisce e lo porta nella sua GAME HOUSE.
Finora potrebbe essere l’intro di un film su un supereroe ultraviolento e un po’ scrauso. Ma noi sappiamo che in realtà Bitch Ass è un serial killer: ce l’ha detto Tony Todd. E quindi ecco che l’inquadratura cambia formato un’altra volta, si allarga fino ai limiti del sopportabile arrivando a deformarsi agli estremi, e Bitch Ass ci porta a gamba tesa nella vita di Q, il nostro protagonista.
Bitch Ass gioca tantissimo con i formati, e con il montaggio, e con la composizione e scomposizione delle immagini, è tutto pieno di trucchetti tipo questo
ma anche di scrittone didascaliche in sovrimpressione
e di… qualsiasi cosa sia questa roba qui.
Insomma, Bitch Ass fa tutto il possibile per mascherare il suo risicatissimo budget (dovrebbe essere costato intorno ai 200.000$) sperimentando e soprattutto giocando, perché il gioco è uno dei temi centrali di un film che è in debito con Saw almeno quanto lo è con La casa nera.
Lo scheletro è lo stesso del film di Craven: c’è questo gruppetto di adolescenti aspiranti criminali tra cui il nostro protagonista che lavora un po’ controvoglia per la gang locale per tirare su qualche soldo per aiutare la madre single che fa due lavori perché vorrebbe pagargli il college, che entrano nella casa di una ricca appena defunta per derubarla. Purtroppo nella casa abita anche il nipote della vecchia, Bitch Ass, che non è solo grossissimo ma è anche un killer mascherato assetato di sangue, che cattura le sue vittime e le sottopone a giochi sadici nei quali c’è in palio la loro stessa vita.
La scelta di puntare così forte su omicidi crudeli, elaborati e spettacolari rende Bitch Ass un film sadico ma anche statico: non c’è la quantità sindacale di azione che ci si aspetta da uno slasher, perché il cuore del film non è la sopravvivenza dei nostri protagonisti e le prove che devono superare per arrivare vivi alla fine dell’ordalia, ma l’ordalia stessa. È un’opera che ruota tutta intorno a queste scene, e il resto del film si divide tra flashback esplicativi, che contestualizzano meglio le figure di Bitch Ass e dei criminali e rendono il tutto ancora più personale, e sprazzi di costruzione dei personaggi che sono rari, brevi ma abbastanza ficcanti da portarti a vedere il cast (o almeno parte di esso) come qualcosa di più di semplici sacche di carne da torturare.
E alla fine va bene così, sapete perché? Perché questo Bitch Ass è bravissimo a torturare e ammazzare la gente. Il tema del gioco da tavolo offre infinite possibilità creative, e Bill Posley, be’, non le sfrutta tutte e infinite, solo quattro o cinque, ma che da sole valgono il prezzo del biglietto: ci sono più idee crudeli qui (e quindi anche più tensione nel vederle svolgersi) che negli ultimi tot capitoli di Saw. C’è anche un po’ il difetto di, appunto, Saw ma anche di molti horror che fanno pornografia della violenza, quello cioè di vedere personaggi che rinunciano ad agire preferendo rimanere immobili a urlare e regalare reaction shot a valanga; ma ancora, Bitch Ass non è granché interessato all’azione, più che altro a prendere un branco di personaggi tutti in qualche modo collegati tra loro, sbatterli in un frullatore domestico e godersi lo spettacolo della carnazza che vola.
Bitch Ass non è un film perfetto, e ci mancherebbe visto quanto è costato. È anche un film che ha puntato gran parte del suo ridicolo budget su una manciata di omicidi creativi, e che fa l’impossibile per celebrarli a dovere. È scritto con più attenzione ai suoi personaggi di quella che di solito si dedica a un film di questo genere anche a fronte di budget più alti, ed è girato con un entusiasmo che filtra poi fino in sala montaggio. Poteva essere antipaticissimo, invece è già, quantomeno, in corsa per i Sylvester nella categoria Miglior omicidio. Mi voglio rovinare: se davvero, come promette esplicitamente il finale, dovesse arrivare un sequel, sarò lì in prima fila ad applaudirlo sulla fiducia.
Quoto suggerito
«La caSaw nera ah ah l’avete capita?»
(Stanlio Kubrick, i400calci.com)
Qualcuno ha detto black horror?
Lo spizzavp da mesi e mi convinceva affatto.
Me lo hai venduto già dalla terza riga.
“Bitch Ass è un black horror fatto da neri, per neri, sui neri e senza l’ombra di una persona bianca, neanche sullo sfondo, neanche di passaggio”
Questa frase mi ha fatto venire in mente “Moonlight”, penso il film meno calciabile degli ultimi 50 anni ma che personalmente ho trovato meraviglioso. Anche per il voler evitare i soliti cliché triti e ritriti del Bianco contro il Nero, per parlare solo, esclusivamente fortissimamente, di Neri
per “the hood” proporrei IL QUARTIERE (detto con la voce di J-Ax dei primi Articolo 31)
nota a margine: se penso allo Spike Lee degli ultimi 15 anni (film e dichiarazioni mediatiche varie) “black horror” è esattamente quello che mi viene in mente.
Solo quattro commenti (+1): che sfiga NERA.