E ora, qualcosa di completamente diverso.

To Breen, or not to Breen
Gira da qualche anno un termine che cercavo da tempo, ma che mi ero perso.
Il termine è “egosploitation”.
Come tutte le etichette, se googlate in giro vedrete gente fraintenderla e stirarla un po’ in tutte le direzioni, ma ora vi dò una definizione che vi darà come minimo un punto solido di partenza: il film di egosploitation per antonomasia è il tipo di progetto in cui la stessa persona figura come produttore, sceneggiatore, regista e protagonista, in particolar modo nel ruolo di un eroe fighissimo e invincibile, o di un qualche tipo di figura messianica che dispensa filosofia e saggezza.
Gli esempi sono mille: quello da manuale è senza ombra di dubbio Joan Lui di Adriano Celentano, un musical di due ore e mezzo del 1985 in cui Adriano interpreta umilmente la seconda venuta di Gesù Cristo, sceso a Milano sotto nuovo nome per salvare il mondo dall’egoismo e dall’avidità sfrenata di questi tempi moderni pieni di vizi e debolezze signora mia.
Ci si può facilmente allargare, tenendo però presente che il termine ha più efficacia quanto più il progetto è arrogante e ambizioso e i risultati lontani dalle intenzioni: viene in mente il leggendario Sfida tra i ghiacci di Steven Seagal (che così cito per la seconda recensione di fila) e il suo padrino spirituale Billy Jack, mentre roba come Cobra, che risulta diretto da George Pan Cosmatos solo per la burocrazia e fu in realtà gestito interamente da Stallone, tecnicamente rientra ma ovviamente non sarebbe divertente perché Cobra è fighissimo. Gli esempi sono davvero tantissimi e praticamente tutti maschili, ragion per cui ora mi ergo a difendere questi poveri uomini sempre presi di mira – le vere vittime!!! – e cito per ripicca anche qualche esempio femminile: i film di Barbra Streisand (anche se qualcuno li apprezza) e fortissimamente The Lady di Lory Del Santo (anche se lei non compare come attrice).
Il termine ha acquistato però popolarità soprattutto quando indicava produzioni a basso costo, cioè quel tipo di film in cui è chiaro che se il suo creatore/protagonista non ci avesse anche messo i soldi col cazzo che qualcun altro gliel’avrebbe prodotto. Esiste un numero impressionante di figli di papà velleitari che si autofinanziano il vanity project facendosi accompagnare da esperte star in preda alla noia e/o ai debiti: personalmente sono affezionato a quel giandone di Alexander Nevsky che si paga film d’azione in cui il suo goffo faccione impietrito in un’espressione poco lucida guida un team di vecchie glorie come Don “The Dragon” Wilson, Cynthia Rothrock e Mark Dacascos, ma anche a progetti violentemente improbabili come tale Phil Pitzer che dal nulla si auto-elegge a erede di Peter Fonda e, approfittando di un cavillo burocratico, gira Easy Rider 2.
Il vero eroe della egosploitation è Tommy Wiseau con il suo leggendario The Room, in cui interpreta una variante dell’eroe/messia scrivendo per se stesso il ruolo dell’immacolata vittima della crudeltà del mondo e delle persone egoiste, ingrate e disoneste.
Il vero rappresentante da manuale della egosploitation a basso (bassissimo) costo è però Neil Breen.
Ve lo spiego subito chi è Neil Breen, son qua apposta, non c’è bisogno di chiedermelo.
Immaginate l’Adriano Celentano di Joan Lui, o quello di Adrian.
Ci siete?
Ora immaginatelo senza soldi. Ok?
Ora immaginatelo anche senza uno straccio di talento, di nessun tipo, e senza una vera cognizione di come funziona un film.

Diglielo!
Non si sa molto di Neil Breen, in questo momento storico.
È nato nel 1958, vive nel Nevada e fa l’architetto.
Sembra la controfigura sbiadita e ri-fotocopiata due volte di Ron Moss.
E fa tutto da solo.
È pura “art brut“, per usare un termine francese che in Italia fa un po’ ridere. O “outsider art”, per usare un termine anglofono che in Italia lascia indifferenti. O “arte grezza”, o meglio “arte spontanea”, per dare una traduzione che comunque in Italia non usiamo.
Il punto è: facilissimo imbattersi in esempi di art brut quando riguardano la pittura, o cose che generalmente uno fa da solo nel tempo libero e richiedono un tempo variabile che può anche consistere in 30 secondi di schizzo di ispirazione volante.
È meno facile imbattercisi nel campo filmico, quando si tratta di sforzi che normalmente necessitano di più persone e di svariati giorni/mesi di lavoro.
Ma Neil Breen ce la fa. Fa quasi tutto da solo, e non ha paura di dedicarci (quasi) tutto il tempo che serve.
Non si sa molto di Neil Breen: fra le poche cose che si sanno – l’ha detto lui – è che i credits dei suoi film includono al 70% il suo nome in ogni ruolo, e al 28% finti nomi, di persone o di società, dietro cui si nasconde apertamente comunque lui. Il rimanente 2% è il cast (si vedono effettivamente altre fazze oltre la sua) e, credo, un aiuto-cameraman per quando non riesce a inquadrarsi da solo.

Pure Neil Breen ha avuto la fase viola
E di che parlano i suoi film?
È una domanda molto difficile a cui preferirei non rispondere.
In tutti i suoi film lui interpreta una variante di essere superiore: si va dall’agente segreto, all’alieno, all’hacker più potente del pianeta, al supereroe, al Dio, all’angelo della vendetta, ma soprattutto a una combinazione di queste cose contemporaneamente.
In tutti i suoi film pervade una certa malinconia: è spesso depresso o per vecchie storie d’amore finite male, o per la depressione dovuta ai mali di questo mondo dall’avidità delle grandi aziende alle bugie del governo, o per puro esistenzialismo apocalittico.
Più di un suo film ruota attorno al fatto che la soluzione a tutti i problemi del mondo è uccidere i dirigenti delle grandi aziende. Puro e semplice. Sono cattivi e disonesti, è tutta colpa loro, devono morire, ucciderli riporterà immediatamente il mondo alla pace, e un bel discorsone morale finale spiegherà la semplicità e l’infallibilità di questo piano, alternata a immagini di ricchi corrotti che si pentono ma è troppo tardi.
Più di un suo film ruota attorno a come lui faccia terrorismo a fin di bene usando le sue abilità di agente segreto, o i suoi poteri di essere sovrannaturale, o i suoi poteri di hacker inarrestabile, o una combinazione casuale di tutto ciò.
Uno dei suoi tormentoni più famosi consiste nel vederlo alle prese con diversi laptop, e poi romperli senza ritegno. A volte si vede chiaramente che, mentre sta ancora pistolando sulla tastiera, i laptop sono in realtà spenti.
In più di un suo film, che lui stia interpretando un essere sovrannaturale o meno, lo si vede guarire una o più persone dal cancro o cose simili.
È ovviamente immancabile una love story di qualche tipo e non ho bisogno di confermarvi che 1) sono di un imbarazzante insostenible e 2) lui fa vedere le chiappe. Ma del resto, se paragonassimo la ricerca del film di egospoloitation definitivo a una partita di Indovina Chi, alla domanda “l’autore/protagonista fa vedere le chiappe?” mi vedreste buttare giù pochissime caselle. Uno non è che spende tutti quei soldi e quel tempo per fare un film esattamente come vuole lui e poi non ci mette una scena in cui si tromba la donna più attraente che è riuscito a truffare, e se c’è un trend positivo nei film di Neil Breen è che più si va avanti e meno trova donne disposte a simulare sesso con lui (nell’ultimo, grazie al cielo, non si va più in là di un innocente bacetto).

Giudice, giuria e boia.
Il lato tecnico/artistico è dove ovviamente risiede il succo della faccenda, e qua se ne vedono di tutti i colori.
Lo script che quando va bene è scemo e quando va male è incomprensibile è la base su cui non si può montare nient’altro che un disastro.
Il resto è la sagra dell’improvvisazione di fortuna.
Ad esempio, esistono tre tipi principali di location: il deserto del Nevada; qualche via di Las Vegas in cui girare qualcosetta al volo guerrilla style; la casa incredibilmente lussuosa prestatagli da qualche amico e/o cliente, spesso insieme a una collezione di auto altrettanto improbabili.
E poi negli ultimi film inizia a spuntarne una quarta, la più spettacolare: il green screen.
Neil, da bravo architetto, non è a digiuno di informatica e sa usare After Effects abbastanza da poter prendere una stock photo e usarla come sfondo di scene che ha girato altrove. È una soluzione che ovviamente gli para il culo in diversi momenti e gli permette di aprire le storie a più scenari.
Prima che scoprisse il green screen, il trucco di Neil era – ve lo giuro – riprendere la gente da angolazioni senza senso in modo da non avere nulla di troppo specifico sullo sfondo (spesso solo il cielo) e avere di conseguenza la totale libertà di filmare gli attori dove e quando gli venisse più comodo, indipendentemente dal fatto che dovessero interagire tra di loro nella stessa scena o meno. Ma una volta spalancatoglisi il mondo di infinite possibilità del green screen, Neil lo usa con una disinvoltura spiazzante. Non importa che i contorni dei personaggi siano sfumati alla grezza, con immediato effetto fantasma, e che le foto di sfondo tradiscano la loro natura all’istante.

Neil è talmente ricco che possiede almeno quattro Acer
Sinceramente, è il lato della recitazione che mi ha spiazzato maggiormente al primo impatto.
Non tanto il livello generale: i dialoghi sono imbarazzanti, la regia è improvvisata e, per quanto Neil sostenga che sono stati tutti pagati, da una situazione del genere non si può pretendere più del livello “pastore alla recita di Natale della scuola di quartiere”.
Quello che colpisce inizialmente – ma poi ci si fa l’abitudine e diventa a suo modo parte del fascino – è che Neil Breen stesso trasmette scarso entusiasmo.
Prendete Tommy Wiseau in The Room: può mostrare tutta l’ingenuità e la goffaggine che volete, ma ci mette una gran passione, e nelle scene chiave è – per mancanza di altri termini che non risultino fuorvianti in materia di qualità – intenso.
Neil Breen, non sapeste inizialmente che è lui l’autore di tutto, è talmente legnoso, inespressivo, fiacco e impacciato, che direste che pure lui è stato (scarsamente) convinto e (poco) pagato per fare da protagonista a questa produzione dal budget semi-inesistente.
E allora cosa affascina?
C’è che per tutto il resto, sceneggiatura, narrazione, montaggio, Neil Breen è sostanzialmente nudo.
È lì che toglie ogni filtro, e vediamo esattamente cos’ha in testa.
Tommy Wiseau, con The Room, voleva fare la sua versione dei drammi di Tennessee Williams: Neil Breen vuole fare l’art movie. Anche se la sua idea di apoteosi massima di art movie coincide probabilmente con Vi presento Joe Black.
Come da definizione di art brut, Neil Breen lascia che sia il puro istinto a guidare la narrazione e la messa in scena, senza farsi ingabbiare da generi o convenzioni.
I suoi film hanno momenti action, momenti sci-fi, momenti riflessivi. Hanno momenti romantici e momenti violenti, momenti onirici, momenti horror. Hanno un sacco di voice over, e un sacco di spiegoni filosofici, etici, morali, motivazionali.
Sono una finestra pura sulla sua mente.
Sono effettivamente la definizione stessa di “film d’autore” e “art movie”, per quanto riguarda le condizioni produttive: la differenza sta nell’assoluta, abbagliante mancanza di talento e cognizione ma anche – forse sta qui il vero fascino – nel fatto che il suo messaggio è di una semplicità e banalità imbarazzante, alla portata di tutti.

Pistola in mano = possiamo parlarne
Tutto ciò che Neil vuole raccontare è che il mondo è brutto e pieno di ingiustizie, che sarebbe bello se ci amassimo invece che litigare, e che smettessimo di essere egoisti. La soluzione è ammazzare le persone egoiste in posizione di potere, proprio con la morte, per eliminarle dal quadro: sgombrare il campo dalle mele marce di negatività e lasciare che di conseguenza il resto del mondo possa ricominciare da capo perché sicuramente, a ricominciare da capo dopo avere ammazzato i grandi dirigenti corrotti, poi va tutto bene garantito. Zero complessità. Non voglio dilungarmi troppo su questo lato, ma Neil Breen traduce così spesso tutto questo in veri e propri attentati terroristici “per il bene” che, non so come dire, ma non lo farei incazzare.
I film di Neil Breen sono come quell’episodio dei Simpson in cui un magnate “illuminato” dà totale carta bianca a Homer per progettare la sua automobile ideale, nella speranza che le idee di Homer rispecchino in pieno i desideri dell’uomo medio; ne usciva al contrario un trionfo di pacchiana incoerenza e impraticabilità che però era davvero, in effetti, una fedelissima rappresentazione di come gli funzionava il cervello.
In confronto ai film di Neil Breen persino il famigerato Manos sembra una produzione professionale, perché al di là di tutta l’ingenuità e l’inesperienza se non altro il loro obiettivo era imitare e mescolarsi nel sottogenere degli horror da drive-in, e questo metteva loro dei parametri, dei riferimenti, dei freni. Neil Breen non ha niente di tutto questo: è puro flusso di coscienza. I suoi film non sono comodissimi da mandare giù se non ti fai affascinare dall’occasione rara di vedere una persona semplice esprimersi in assoluta libertà, come se gli avessero fatto credere di essere l’unione divina e onnipotente tra David Lynch, Jim Jarmusch e il Kubrick di 2001.

Bravo Neil!
Difficile separare i film di Neil Breen l’uno dall’altro, visti i numerosi temi che hanno in comune.
Doveste riuscire a recuperarli, sconsiglio fortemente di guardarli in binge: pur essendo assolutamente ipnotici, sono piuttosto densi ed estenuanti, e io stesso ho fatto passare ogni volta almeno un mesetto di distanza prima di sentirmi pronto ad affrontare quello successivo.
Ma li ho visti tutto, e proverò a sintetizzarli.
- Double Down (2005): Neiil è un agente segreto / hacker che vive nel deserto in preda a crisi mistiche e alla scoperta di poteri altrettanto inspiegabili, mentre rimugina malinconicamente su una vecchia storia d’amore iniziata quando lui e lei erano bambini. Molti classici di Neil sono già qua.
- I Am Here… Now (2009): siamo appena al secondo film e già Neil sembra voler girare la summa definitiva del suo pensiero, scrivendo la storia di un robot alieno che sbarca sulla Terra e decide di fare strage di persone avide e corrotte, in un capolavoro di ambiziosa rarefazione inetta. La sua idea di metafora cristologica è presentarsi con stigmate e schede RAM infilate nelle maniche. I dialoghi contengono perle di imperscrutabile ridondanza come “Humans must learn to love and respect other humans, and humanity”.
- Fateful Findings (2013): forse il suo film più noto, e il punto di ingresso più efficace nella sua filmografia. Le mire sembrano essere un pelo più modeste: Neil è uno scrittore di successo, ma anche (di nuovo) l’hacker più potente del mondo, capace di penetrare i sistemi governativi e scoprire i più importanti segreti. Un evento misterioso lo ha separato, da bambino, dalla morosa che aveva ai tempi, ma gli ha anche donato superpoteri. Finito all’ospedale da adulto, incontra di nuovo la bambina, ora cresciuta, da cui era stato separato all’epoca (sul serio, immaginate di avere ancora una cotta violenta per la vostra morosa delle elementari che non rivedete da allora), ma c’è anche da gestire il rapporto deteriorante con la sua morosa attuale. Una collezione inarrestabile di scene allucinanti ha il suo apice in una pirotecnica strage finale in cui, di nuovo, risolve tutti i problemi del mondo come un mistico angelo vendicativo.
- Pass Thru (2016): come un Sam Raimi o un Robert Rodriguez, Neil gira una specie di remake “evoluto” di se stesso riprendendo lo stesso spunto di I Am Here… Now e interpretando di nuovo l’alieno robot (“intelligenza artificiale”) che sbarca sulla Terra per risolverne i problemi una volta per tutte dividendo ogni persona in buona o cattiva, e uccidendo con la morte quelle cattive. Neil sembra avere qualche spicciolo in più: assume più comparse, sperimenta con droni e gopro, inizia a rinunciare a location fisiche che non siano il deserto del Nevada e a sperimentare col green screen.
- Twisted Pair (2018): Neil scopre il potere di qualsiasi equivalente di After Effects gli sia capitato per le mani, e ci si ubriaca. Di nuovo interpreta un’entità aliena come metafora divina, ma stavolta sono due gemelli: Cade (standard Neil) e Cale (Neil con barba finta comprata al tabacchino). Di nuovo, lo scopo è salvare il mondo dividendo le persone in buoni e cattivi ecc… ma c’è ambiguità nel rapporto tra i gemelli. C’è, soprattutto, un uso del green screen tanto inetto quanto massiccio, e per la prima volta l’ambizione di annunciare un sequel.
- Cade: The Tortured Crossing (2023): è l’ultimissimo, è appena uscito, ed è (ad oggi) il fondo del barile. L’ipotesi è che Neil abbia girato in qualche modo durante la pandemia, o con il minor budget in assoluto mai avuto a disposizione, ma che non abbia voluto rinunciare a uno spunto che chiedeva locations abbastanza specifiche non esattamente a portata di mano. Il risultato è che l’ha girato al 100% in green screen. È l’annunciato sequel diretto di Twisted Pair: Cade è ora un filantropo che decide di finanziare un ospedale psichiatrico, nel quale però vengono condotti a sua insaputa esperimenti genetici sui pazienti, di cui il gemello malvagio approfitta per crisi personale. L’inizio è ambizioso: include subito un combattimento alla Matrix in cui cloni di Breen menano diversi assalitori mascherati, e poi addirittura una lotta contro una tigre bianca digitale. È tutto talmente pacchiano da farti pensare che Neil stia accettando il suo ruolo di barzelletta vivente e giocandola sul camp, ma presto scopri che è tutto pura, disperata emergenza che campa di inerzia sull’inizio pirotecnico. C’è di tutto: scene ripetute incollate su sfondi diversi, attori che “dialogano” senza guardarsi in faccia, video stock platealmente comprati a catalogo (o freeware?), brutali fermo-immagine usati come pezza per rimediare a scene girate diverse da come effettivamente servivano, loop narrativi per aumentare il minutaggio. Breen sembra aver passato gli ultimi due anni a sincronizzare i movimenti con le foto sullo sfondo, ma a tratti rinuncia, scazza, incolla attori l’uno di fianco all’altro e si fa sfuggire di mano le proporzioni. Usa foto di sfondo che includono persone. Usa probabilmente le stesse scene con gli stessi attori ma per intendere personaggi diversi – non lo so, è un casino. Alla fine inscena una megabattaglia tra supereroi dove le due persone che si stanno picchiando sono state filmate separatamente a fare mosse a caso, e poi montate una di fronte all’altra. Siamo davanti a qualcosa di piuttosto notevole. A seconda di come la pensiate, Cade: The Tortured Crossing è il più insensato accumulo di immagini che sia mai stato spacciato per film completo, o la sua opera più spettacolare.

Double Impact
Dico spesso che il film più brutto mai girato è quello talmente brutto che non esce dalla cameretta di chi l’ha girato, perché stroncato sul nascere, per compassione, già dagli amici più cari.
Arrivati a questo punto dell’articolo, se già non conoscevate Neil Breen, vi starete chiedendo “Nanni ma perché ce ne stai parlando? Ma chi è Neil Breen? È un tuo amico? Da come ne parli i suoi film sembrano appunto la classica cosa che non dovrebbe uscire dalla sua cameretta…”
Sono tecnicamente d’accordo con le tue perplessità Fabrizio, e non ho la risposta a tutto, ma ti dico questo: ho visto Cade: The Tortured Crossing giovedì scorso, in anteprima europea, al Sci-Fi London Film Festival.
Era – ve lo giuro – il film di apertura del programma.
Era il film di apertura proiettato in una sala del centro da 400 persone, che ha fatto il sold out.
E ha fatto il sold out talmente in fretta, in una sala da 400 persone con prezzo del biglietto extra-costoso causa festival, che hanno dovuto organizzare una seconda proiezione straordinaria, qualche giorno dopo, a ridosso della chiusura. Sempre in una sala da 400 persone. Sempre a prezzo extra-costoso. E ha fatto il sold out pure quella.
Il pubblico era fomentatissimo: cori continui di “Breen! Breen! Breen!’, risate, applausi, battutacce.
Era davvero il bordello delle grandissime occasioni. Ed era prevedibile, visto che poco tempo prima il film era stato bersaglio di un rarissimo review-bombing al contrario, ovvero positivo.
Il cult di Neil Breen non è facile da ricostruire: sostanzialmente inizia con lui che bypassa il buon senso e inizia a mandare la sua roba ai Festival, finché qualcuno di lungimirante non intravede la perla rara e gli dà visibilità. I film si iniziano a trovare online per vie più o meno legali (l’unico modo legale è acquistarli da Neil stesso) e il passaparola è travolgente.
Di lui quindi va detto questo: al contrario di quanto un’operazione come la sua lasci sospettare, tende a non sovraesporsi e a non cercare di diventare un personaggio pubblico. O forse ha capito l’aria che tira e semplicemente preferisce esprimersi nel safe space dei suoi film, dell’occasionale video su Youtube o post tecnico su Twitter, di qualche Q&A controllato, e di quell’opera incredibile che un giorno farò la pazzia di acquistare che si chiama Neil Breen 5 Feature Film Retrospective e consiste in un cofanetto di dvd con cinque ore di lui che approfondisce i suoi primi cinque film e il modo in cui li ha girati. Il prezzo, $175, è a prova di ironia post-moderna e anzi, sa di vendetta.
Se i film fossero vestiti, lo spettatore medio sarebbe quello talmente abituato a capi eleganti industrializzati che considera belli i migliori esempi di abiti firmati, e giudica vecchie tute sgualcite e scolorite come la cosa più brutta che gli sia mai capitata davanti agli occhi.
In questo scenario, Neil Breen è quello che si presenta con i pantaloni infilati nelle braccia, i calzini spaiati nelle orecchie, e senza mutande.
È un altro livello.
A seconda dei gusti può risultare esilarante o inorridire, ed è sicuramente poco pratico in primo luogo per lui stesso.
Ma non lo fa per stupire o spiazzare: è semplicemente il meglio di cui è capace, e ciò che gli suggerisce il cuore.
E il suo cuore è mille volte più interessante di qualsiasi cosa l’algoritmo di Dwayne Johnson stia progettando per i suoi prossimi step di carriera.

Poesia.
P.S.: penso di essermi già lamentato su queste pagine di chi sembra ridere come riflesso pavloviano per motivi imperscrutabili. A volte sembra che certa gente vada al cinema con l’idea che riderà, e porcocazzo niente e nessuno impedirà loro di ridere se è questo che vogliono fare, nemmeno il film stesso. Prendono il ritmo, e iniziano a ridere a intervalli regolari qualsiasi cosa stia succedendo sullo schermo. Sentire ridere a battute che non fanno ridere lo metto in conto, amen, ma nella mia carriera ho visto ridere anche a pezzi di dialogo che non erano umoristici, perché la gente si faceva fuorviare dalla costruzione di una scena e inconsciamente si aspettava che in quel momento ci sarebbe stata una gag, e ormai la risata era lì e andava buttata fuori. Ma il tizio di fianco a me, giovedì scorso, si è superato. Rideva, letteralmente, a ogni cambio di inquadratura. Le prime volte ok: sai che Neil Breen non ha un centesimo, se piazza un green screen brutto con un castello sullo sfondo ridi perché è improbabile. Ma più il film andava avanti, più il tizio scoppiava ridere istericamente a ogni pezzo di dialogo e a ogni singolo stacco di montaggio, non importa cosa stessero dicendo o inquadrando. A un certo punto è diventato un caso clinico che attirava la mia attenzione tanto quanto il film. Era come assistere a un master di riflessologia in diretta. Ma è grazie a gente come lui che ti rendi conto di cosa azzecca Neil Breen nonostante tutto, rendendo i suoi film sostenibili: un certo ritmo regolare, la capacità di far succedere qualcosa a intervalli sufficientemente calibrati per non farti perdere la concentrazione. Meglio ripetere una scena che hai già mostrato che non far succedere niente. Basi istintive, probabilmente, e che sembrano stra-ovvie, ma non tutti i film sono così e chi ha bazzicato il mondo dei film amatoriali (e non per forza solo quelli) lo sa benissimo. Il tizio di fianco a me ha riso letteralmente per tutto il film, facendo una pausa soltanto in quelle due o tre inquadrature che facevano eccezione e si trascinavano senza eventi per qualche secondo in più del solito. Io in ogni caso già alla mezzora volevo chiedere se c’era un medico in sala.
@Nanni “black tank-top movie” non copriva già la “egosploitation”? o hanno sfumature diverse?
Io conosco Breen solo vicariamente (tramite RLM), ma non penso reggerei dal vivo “l’effetto Troll 2” che descrivi alla fine (che io chiamo più sinteticamente effetto “ahahahahahha ahah ahahahhah BROOO! ahahah ahhhh ahahahha ahahh it’s too funny! ahah AHAHHAH AHAHAHAHAHH AHAHAAHAHH AHAH AHHHHHHH[muore asfissiato]”).
NO MORE BOOKS! :)
È più o meno la stessa cosa, se non si vuole essere stretti sul fatto che il protagonista indossi o meno una canotta nera. Lo trovo più buffo come diffusissima coincidenza che particolarmente utile come termine.
Dal frammento che ho visionato di The Cade: The Tortured Crossing mi sembra di intuire che il buon Neil non conosca l’uso del campo e del controcampo nel cinema.
Che dire, personaggio incredibile che mi suscita un mondo di domande, e a me ha fatto venire in mente Nanni Moretti.
Anche lui è un autore, per sua fortuna con meno ambizioni cristologiche, di puro egosploitation.
I suoi film a livello di regia sono quanto di più elementare si possa immaginare. Insomma, siamo anche qui poco sopra ai filmini dell’estate automontati. E io a Moretti gli voglio bene.
A Cannes mentre gli altri membri della Commissione insistevano per dare un premio a Caro diario, Clint Eastwood che era il presidente se ne venne fuori con qualcosa del tipo: “Ma stiamo scherzando, ha fatto un film che è assolutamente dilettantesco…”. Be’, effettivamente siamo poco sopra al piazzo la telecamera qui e tu fai cose mentre ti riprendo. Insomma, nel 1994 hanno dato la Palma d’oro a Tarantino per Pulp Fiction, dare il secondo premio a Moretti e al suo film per certi versi sembrava quasi una provocazione.
Possiamo allora forse dire che Moretti è un Breen che ce l’ha fatta? Forse perché è stato più intimo e politico nella sua visione di cinema e non si è lanciato in derive da film di azione?
Moretti è elementare, non amatoriale, e quello che fa la differenza non è essere intimo di per sé ma avere effettivamente delle cose interessanti da dire e saperle un minimo raccontare.
la tua domanda ci fa guardare dentro l’abisso. grazie.
Dal momento che parliamo di ego oltre alla qualità del prodotto secondo me contano anche l’onestà intellettuale e l’autocritica. Fa differenza se il protagonista/autore esprime solo una fantasia di potere irralistica o se invece si racconta in modo (per quanto possibile) obiettivo con dubbi, tic e difetti.
Nello specifico il personaggio Nanni Moretti a volte è insopportabile nei suoi film.
Ma infatti. Nell’egosploitation non c’è autocritica, c’è al massimo vittimismo. Se proprio, c’è “sbaglio per troppo amore”, o “soffro troppo per amore”.
Su Moretti OT vorrei riferire un aneddoto raccontatomi da un amico di un amico, e che va preso come tutti gli aneddoti di questo tipo per quello che è. Allora, questo tipo anni fa riesce ad avere il numero di telefono di Moretti, lo compone e alla cornetta sente una voce che dice: “Questa è la segreteria telefonica di Nanni Moretti, lasciate un messaggio dopo il segrale acustico ecc. ecc.”.
Allora il tipo che è un entusiasta parte dicendo “Nanni per me sei un grande… Sei il miglior regista italiano… Sei l’unico…” e così via per un paio di minuti. Poi quando si lascia uscire dalla bocca “per me sei il Woody Allen italiano… “sente un risolino dall’altra parte della cornetta e una voce che fa: “… be’, adesso non esageriamo”.
Voglio tantissimo credere che sia vero.
Questo “culto di Green”, al netto dell’onestà del tizio che ci crede davvero, mi sembra solo un modo paraculo per ridere alle spalle del freek con la scusa che lui è felice della cosa. Oltretutto con il sospetto che qualcuno stia provando a usarlo per tirarci su due spicci. A me fa solo molta tristezza. Limite mio, probabilmente.
Breen ovviamente. Refuso, sorry. O forse anche rigetto.
Beh no, è in gran parte vero. Io non sono neanche sicuro di sapere quanto lui sia felice della cosa, al di là che è il prezzo per continuare a mantenere vive le sue velleità e che lui, in questo aspetto, effettivamente rimane sincero (non come Tommy Wiseau che sapendo di essere un meme vivente si mette a fare i film sugli squali, per esempio). Detto questo, rimane vero il fatto che lui si esprima in modo molto libero e personale, e questo lo rende di svariate spanne più interessante di chi fa le stesse cose ma cercando di imitare generi pre-esistenti (e là fuori è pieno zeppo di ultra-50enni che vogliono semplicemente pagarsi una specie di Total Recall in cui fanno Rambo/Bond).
nel suo DVD con le “5 ore di scuola di cinema”…
SPOILERS
in un punto Breen sottolinea più volte che quando propone i film ai festival pretende sempre screening “normali” e non “midnight screenings / indie movies”: quindi pare almeno consapevole del rischio.
Poi però si vede anche uno spezzone di una sua proiezione con la folla che lo acclama, e gongola (“2000 persone acclamano il mio film!”).
Quindi boh, il dubbio se “ci è (ci crede)” o “ci fa” è aperto (magari un po’ tutte e due, in misura variable)
Sono d’accordo, e’ l’equivalente del pubblico che, nei vecchi circhi, rideva dei “freak”, non capendo o fingendo di ignorare che le loro beffe contribuivano a peggiorare vite gia’ di per se’ difficili.
Ho un punto forte di accordo e un punto discreto di disaccordo, Nanni.
Accordo: il discorso sul RIDEREEEEEH. E’ un discorso di cui qui si è parlato ai tempi di Troll 2 o di Birdemic. “I DID IT FOR THE LULZ” sembrava già un concetto stantio nel 2011, dodici (minchia) anni dopo è… Boh, immaturo? Non lo so, penso che guardare qualcosa di fatto male perché SAI che è fatto male secondo i tuoi criteri (sto dando del tu a Fabrizio in questo caso) e allora ti farà RIDEREEEEEEH sia uno spreco di tempo e anche una forma di malcelato senso di superiorità nei confronti di chi almeno qualcosa sta cercando di farlo.
Disaccordo: la chiosa finale sul cuore. Basta davvero il cuore da solo per essere interessanti? Alla fine probabilmente vincerebbe anche per me contro un film fatto in provetta/catena di montaggio, perché giudicare un film alla fine non è un discorso quantitativo e si tratta di soppesare pro e contro secondo i propri criteri (possibilmente formati & informati, ma questo è un altro discorso) e allo stesso tempo mi chiedo se, nella situazione in cui potessi guardarli, avrei davvero voglia di mettere su uno di questi disastri in galleria che hai gentilmente visto e recensito per noi.
E’ il motivo per cui non ho ancora visto The Room, il cuore e il fattore produttivo intorno a un film lo possono rendere davvero interessante come film in sé?
Mi viene lo stesso dubbio in ambito musicale per deformazione professionale: ho partecipato ad un contest in un circolo artistico e le proposte performative/concettuali (non c’erano solo musicisti tout-court) spesso e volentieri era art-brut. C’era cuore? A pacchi. Avrei preferito vedere altro? Eh, non sono sicuro di voler sapere la risposta.
Se volessi a fare un esercizio mentale di trovare questo principio in contesti diversi, paradossalmente anche Zack Snyder ha cuore da vendere allora se penso ad un prodotto bolso e iperpubblicizzato come lo Snyder Cut: immaginario fascista fino al midollo senza vergogna o buonsenso, scelte tecniche tra 4:3 e slow-motion prive di misura, inserimento forzoso di qualsiasi idea sembrasse cool (lamento greco a strafottere quando compare la Gadot) o narrativamente intelligente (“hey, facciamo vedere che Miller tra un reato e l’altro pensa velocissimo a soluzioni ai suoi problemi facendolo innamorare proprio mentre sposta un wurstel dalla faccia di una donna”), organizzare un fandom per bullizzare dei professionisti, pagare qualcuno che programmasse e sfruttasse bot per falsare i numeri, etc.
Dà proprio l’idea di qualcuno che ha poco buonsenso, poca etica e poco gusto, ma che CI CREDE.
La differenza tra lui e Breen è tutta nel budget e nei collaboratori.
Alla base però vedo un essere così “out of touch” che quasi mi spaventa, ma almeno nello Snyder Cut vedo qualcosa che ha una forma e una presentazione credibili.
Breen ha il fascino dell’underdog e non sono sicuro che mi basti.
No, in realtà infatti concorre tutta una serie di elementi. Innanzitutto The Room non va visto (solo) per il cuore ma perché Tommy è un marziano, è come vedere un alieno che cerca di riprodurre quello che ha capito degli umani, è una roba unica. Neil Breen è quasi il contrario, è un uomo più o meno medio che si lancia a fare qualcosa di più grosso di lui – l’art movie puro – senza averne troppa cognizione ma comunque mettendoci tutto il coraggio e la sincerità necessaria. È uno che spalanca la mente cercando di seguire il puro istinto e nessun genere predefinito, perdendosi praticamente all’istante ma regalando anche qua un oggetto unico (sei oggetti unici, raggruppabili). Neil e Tommy spiccano di spanne in mezzo a tantissimi che vengono accumulati a loro per goffaggine, ma che spesso stanno solo cercando di replicare le solite fantasie e formulette e semplicemente non gliela fanno. Ce ne sono anche di simpatici, ma è un’altra cosa.
Ci sta. Il cuore di crearti uno sport tutto tuo in un certo senso.
Più o meno sì. Le sfumature volendo sono tante, ma sai che a suo tempo respinsi fortissimo roba come Birdemic, per dire. Provai addirittura ad assaggiare il secondo, ma spensi dopo la prima scena: un tizio inquadrato fermo dall’altra parte della strada, un autobus che passa in mezzo, la cinepresa che si muove a destra e a sinistra come a cercare di ritrovarlo. La commedia volontaria che si spaccia per commedia involontaria.
Minchia, l’orrore.
Ahahah, post epico!
Non guardero’ mai neanche un trailer di costui, troppo bello immaginarsi tutto sulla scorta di quanto letto qui.
PS temo di essere stato almeno un paio di volte quello che rideva in modo imbarazzante in sala. Una volta con “Il Grande Lebowski”, e va beh, l’altra con… “Happiness” di Solondz. Oh, non so cosa mi prese, non ero ne’ bevuto ne’ fumato, ma per me fu qualcosa come il film piu’ esilarante mai visto, ero piegato in due anche nelle scene che agghiacciavano il resto della sala. L’amico che era con me un po’ lo contagiavo, un po’ avrebbe voluto cambiar posto e fingere di non conoscermi.
PPS “[…]il trucco di Neil era – ve lo giuro – riprendere la gente da angolazioni senza senso in modo da non avere nulla di troppo specifico sullo sfondo (spesso solo il cielo) e avere di conseguenza la totale libertà di filmare gli attori dove e quando gli venisse più comodo, indipendentemente dal fatto che dovessero interagire tra di loro nella stessa scena o meno.”
Cioe’ esattamente come Orson Welles giro’ quasi tutto il suo “Otello” e molte scene di altri suoi film. Con risultati lievemente diversi, ma si riconferma che la scena dell’incontro tra Wood e Welles in “Ed Wood” di Burton resta una delle piu’ belle intuizioni di sempre sul raccontare lo strano mondo della regia cinematografica.
Leggere di questo Neil Green mi ha ricordato di quel mio amico che ai tempi in cui si iscrisse a ingegneria disse che stava costruendo l’armatura di Iron Man nel suo garage. Nella sua fase da religioso credente lasciava le feste con la scusa che doveva difendere la chiesa dal male.
potrebbe essere considerato al limite dell’ egosploitation un film come Will Hunting dove Matt Damon si scrive, sceneggia e interpreta il saputello tutto figo con la battuta pronta?
Secondo me sta fuori. In primo luogo perché il film si concentra sul raccontare un protagonista umano e “debole” dietro il suo talento, e in secondo luogo perché era chiaro che la priorità fosse fare un buon film molto più che uno strumento per solleticare la propria vanità – è un lavoro in coppia con Ben Affleck in fase di scrittura, e per il quale cercarono un regista esperto.
Secondo Louis CK sì.
Me lo ricordo il suo sketch, spaccava. Ma è talmente lontano dalla definizione classica che si possono citare migliaia di esempi più divertenti prima di arrivare a quello.
Quel pezzo secondo me fa particolarmente ridere perché ti mette in una nuova prospettiva un film “serio”, un cult di enorme successo di pubblico e critica, diretto da un grande regista e che per di più lanciò la carriera di due futuri pilastri dello star sistem hollywoodiano. Ecco, in un film così importante c’è un aspetto così infantile e patetico e tu (io) che lo conosci non ci avevi mai fatto caso.
Da escludere, visto che in quel film i dialoghi migliori li hanno scritti per Robin Williams, dialoghi in cui distrugge l’ego del saputello figo. E infatti sono i pezzi del film più iconici.
Robin Williams fa un figurone e “non è colpa tua” non ce lo scorderemo più ma anche la scena “how do you like them apples?” è rimasta famosissima.
Poi anche secondo me Will Hunting non rientra in questa particolare categoria.
1) Complimenti per l’articolo, è interessantissimo, al solito scritto ottimamente, mi ha insegnato cose nuove e ci sarà voluto una vita per scriverlo e documentarsi.
Haters gonna hate, Fabrizio gonna fabrizio, ma questo sito è ancora e sempre un faro.
2) Anche se c’entra solo tangenzialmente mi ha ricordato un concetto che citavi qui
https://www.i400calci.com/2017/01/last-action-hero-schwarzenegger-rischio-diventare-davvero-lultimo-eroe-dazione/
riguardo al tipo di progetto che un regista e/o attore sceglie quando ha il massimo del potere contrattuale, tipo Pinocchio di Benigni o Cobra.
1) Grazie mille!
2) Sì, sono concetti che si incrociano. Là ragionavo su cosa fa un attore/regista/autore quando ottiene sufficiente reputazione da poter chiedere i soldi che vuole e fare quello che gli pare. Tanti si buttano sull’egosploitation per direttissima, Arnold è invece l’esempio di uno che provò semplicemente a seguire con maggior indipendenza e responsabilità il proprio fiuto commerciale (fallendo, anche se in buona parte non per colpa sua).
Aaargh! Grande Nanni, già dalla preview, o come cazzo si chiama, del pezzo mi ero preparato a ridere; ho iniziato e mi son trovato davanti una parata di battute e di cazzate da paura, ormai sono piegato, devo già commentare, scrollo giù per per postare il presente mex, e scopro che sarò sì e no a un quinto della rece.
È paragonabile ad un Uwe Boll?
Ma ti pare? Uwe Boll a confronto è Michael Mann.
Però ha una mimica facciale che lo rende anche Richard Gere , altre ancora Roger Waters e altre ancora Caprotti se avesse avuto i capelli (soprattutto nella foto della fase viola). È un bell’ uomo? Ni. Lo trovo affascinante.
volevo solo chiedere se il termine “tabacchino” è di uso comune anche a chi è nato e cresciuto fuori Carpi.
grazie
#DomandeCheDimenticoDiFarmi
uso comune ormai no, ma in Veneto si portava.
Boh. Io l’ ho sempre chiamato Robertino. Anche quando dentro non c’è Robertino, chè lui a volte sta a casa, non dico “Vado dal tabaccaio”, ma dico “Vado da Robertino”. Però se non c’è lui e chiami la moglie “Robertino”, col cazzo che ti dà le cicche. Le cicche qui da noi sono le sigarette, in altri posti sono i chewing gum, a Carpi sono le paglie. Ho fatto due estati a Carpi e questa cosa della paglia non la sapevo e una tizia un giorno me ne ha chiesto una e io le ho detto che “non capivo”, e allora i ragazzi di Carpi le hanno detto che ero un forestiero e lei ha iniziato a farmi mille domande sulla mia città. Che secondo me da dove vengo è un posto molto ambito dai turisti, ma per me la piazza di Carpi è sempre stato qualcosa di meraviglioso dove passeggiare e fare entrare un camion con rimorchio e centinaia di motorini per festeggiare la vittoria sulla Spagna ai mondiali del 94. Se Nanni era presente lo ricorderà e se non ricorda o non c’era, è la cosa più simile a Mad Max Fury Road che io abbia mai visto, quindi spero ci fosse.
@Dumbolik: per i mondiali del ’94 ero purtroppo altrove, ma per quelli del 2006 ero ancora lì. Per tutto il girone eliminatorio la piazza di Carpi era effettivamente la post-apocalisse di Mad Max Fury Road, per la finale invece ero a Bologna che era direttamente l’apocalisse.
Credo sia abbastanza diffuso in tutto il nord Italia, l’ho sentito molto in Liguria
E non dimentichiamo Jack Ma
https://www.i400calci.com/2017/11/un-miliardario-semplice-mi-piacciono-le-arti-marziali-mi-faccio-un-film/
Bravissimo.
Gesù questa me l’ero persa. Che pena.
Articolo stupendo. Ho riso molto, e mi sono interessato tantissimo a una cosa di cui non mi frega nulla. Magia della bella scrittura. Sei il più bravo, Nanni.
Grazie! Non dico che arrossisco perché a Val Verde è proibito dalla legge arrossire, ma siamo lì.
A tratti mi sembra di leggere la recensione di FUBAR con Schwarzenegger, tra egosploitation, incompetenza e povertà generale, forse questo Neil è il regista dietro le quinte.
SPOILER per condividere la sofferenza con chi come me, per fedeltà, si è sorbito la visione:
“La tortura è un po’ sbagliata, ma poi no, se viene adoperata con criterio può essere la soluzione migliore”
“idem per il prelievo forzato di midollo in un garage ad uso ridere”
“La famiglia è molto importante per me, per questo dopo aver promesso al mio figlio adottivo di salvarlo, lo lascio crepare in mezzo ad un esplosione nucleare perché quello che conta sono i legami del sangue”
Che vergogna. Per una volta mi dispiace il tabù dei calci sulle serie tv perché forse una recensione delle vostre avrebbe permesso di esorcizzare l’orrore.
A me sembra la versione cinematografica di Richard Benson, specie la parte in cui fa il sold-out al festival allo Sci-fi London Film Festival..
Questo capita quando fai talmente cagare da fare il giro e diventare geniale, o comunque talmente assurdo, che la gente vuole vederti, toccarti, conoscerti (nel caso di Richard Benson volevano soprattutto insultarlo, i suoi concerti erano 2 ore di insulti, minacce e sputi)
Richard Benson sapeva suonare (almeno da giovane).
Nanni, leggo sull’internet che Cade: The Tortured Crossing ha vinto il premio come Miglior Film Fantasy all’Hollywood Reel Independent Film Festival.
Era per percularlo o per qualche ignota ragione cinematografica?
Probabilmente era un voto aperto al pubblico.
Un ringraziamento per un signor articolo che mi ha aperto un mondo. Non sono sicuro che avrei voluto conoscerlo ma ormai e’ troppo tardi.
Primer di Shane Carruth, altro esempio di film realizzato praticamente in piena autonomia (mi pare di ricordare che anche la colonna sonora sia opera sua) e in questo caso anche con due spicci, a mio avviso e a parità di gusti é un lavoro molto affascinante anche se non pienamente riuscito. A modo un lavoro che ha sicuramente ispirato tanti altri film di maggior successo (ma anche molto meno intriganti) e con budget egostellari, giusto per rimanere in tema.
Nel mio caso specifico, dopo averlo visto ho subito cercato info su internet un po’ galvanizzato e un po’ per avere un aiutino nel cercare di decifrare alcune sequenze e nel farlo mi sono imbattuto per la prima volta nei 400… credo che all’epoca l’unico che avesse dato un minimo di credito a Carruth fosse filmperevolvere, e così é tuttora.
Se non fosse che rientrava nel tema non lo avrei citato neanche io, ma visto che ci siamo, buona visione…
Ci rientra nel senso che Carruth fa tutto da solo e a basso costo ma non saprei se definirlo un film vanitoso, e di sicuro non lo definirei brutto (e all’epoca della sua uscita non eravamo ancora aperti, per la cronaca)
Primer è un signor film, girato con mezzi limitati ma in cui funziona tutto, recitazione dignitosa, buona scrittura (non facile per un tema già molto sfruttato e in cui è un attimo farla fuori dal vaso), regia e montaggio di tutto rispetto. Visto che anche l’ultimo Trasformer conferma il trend pigro del format Marvel (anche basta), vorrei ce ne fossero molti di più, di film come Primer, a far vedere che con due spicci e un pò di coraggio si può fare dell’ottimo cinema.
Secondo me la domanda é, per l’appunto, se Primer é classificabile come un prodotto della egosplotation. Secondo me, già in partenza l’aver concepito un film dove lo stesso soggetto si occupa praticamente di tutto é già sintomatico di un ego smisurato. Nel senso che non si può saper fare tutto (bene) o almeno crederlo e piuttosto presuntuoso. Certo che uno può essere un geniaccio, ma le due cose spesso vanno a braccetto. Comunque la mia non era una critica al film, che anzi, ho apprezzato molto ma mi rendo conto di essere un nerdone che ama anche le intenzioni e il film in questione non ha avuto lo stesso apprezzamento da parte di molti (tra cui professionisti del settore a vario titolo). Forse non ho ben inteso la semantica della parola egosplotation ma so per certo che come accade nelle relazioni umane l’ego é il peggior veleno ma anche il più virtuoso.
La semantica è corretta, ma se ci si limita a quella si finisce per inserire quasi mezza produzione cinematografica mondiale in blocco. Nel pezzo dico “il termine ha più efficacia quanto più il progetto è arrogante e ambizioso e i risultati lontani dalle intenzioni”, con enfasi su “risultati lontani dalle intenzioni”. Il termine è nato per identificare più precisamente non tanto i prodotti guidati dall’ego, ma quelli deragliati dall’ego (e più a basso costo sono meglio rientrano, perché identificano maggiormente quel tipo di progetti a cui magari già in partenza credeva solo l’autore stesso – qui Primer magari rientra, ma si smarca su tutto il resto, notevoli risultati in primis).