Walter Hill ha segnato indelebilmente l’immaginario del genere action con uno stile inconfondibile: non ha bisogno di introduzioni ma di celebrazioni. In occasione del suo ultimo film, per la rubrica Le Basi, a voi il nostro speciale più ambizioso a lui dedicato.
Sul finire del XIX Secolo si consumò in America una delle pagine più imbarazzanti della storia dell’esercito degli Stati Uniti, quando la più grande potenza militare al mondo fu tenuta per anni sotto scacco da uno scalcagnato gruppo di ribelli, un manipolo di guerrieri Apache capeggiati da uno dei più famosi condottieri mai vissuti. Questo capitolo delle Guerre Apache prende il nome da quel condottiero, è la cosiddetta “Campagna Geronimo”, e questa è la storia degli uomini che l’hanno combattuta.

Se cerchi su Google “campagna Geronimo”
Salve amici, sono Quantum “Tastiera Tonante” Tarantino e voglio mettere le mani avanti: questo genere di western non è la mia tazza di tè. Sono un uomo semplice, un americano come tanti: mi piacciono una birra ghiacciata, il Super Bowl e uccidere per sbaglio il mio vicino di casa mentre pulisco il fucile d’assalto che ho il diritto di possedere, ma il mito della frontiera non ha mai fatto presa su di me. Del western amo altre cose – le risse nei saloon, le rapine alla diligenza e le storie di vendetta e redenzione in una terra senza legge o quasi – ma tutta la roba che ha a che fare con la scoperta e la conquista delle grandi praterie, la guerra tra i soldati americani e gli artisti un tempo noti come indiani, insomma, la Storia con la s maiuscola e i suoi Protagonisti con la p maiuscola, quel punto di intersezione in cui la cronaca si confonde con la leggenda… mah! Non so perché, non mi ha mai attratto.
Se era questo che cercavate, è il vostro giorno fortunato, perché di Geronimo – Una americana leggenda ne aveva parlato a suo tempo il mio ottimo collega Darth Von Trier nel corso del nostro approfondimento su John Milius. Lui (Darth, non Milius) sì che va pazzo per questo genere di cose: leggete il suo pezzo, non ve ne pentirete. Poi tornate qua. Io, da parte mia, mi sforzerò di dire qualcosa di diverso e comunque interessante, con il piglio distaccato e professionale che da sempre mi caratterizza.
È la fine degli anni 80 e corre voce che il western, dopo essere rimasto in castigo per quasi 10 anni per colpa dei Cancelli del cielo, stia tornando di moda. Carolco, lo studio che ha prodotto in tre anni tre film di Hill perdendoci ogni volta una marea di soldi (Ricercati: ufficialmente morti incassa la metà di quello che è costato; Danko va bene, ma non bene quanto ci si aspettava, quindi male; e Johnny il bello è un autentico disastro), gli dice “senti un po’, facciamo un western, così magari a questo giro non ne usciamo più poveri di come eravamo entrati”. Hill, che ha il western che gli scorre nelle vene, dice sì, cazzo, sì, ovvio che sì. Ogni suo film è un western in incognito, figuriamoci se si tira indietro quando ha l’occasione di farne uno esplicito.
L’idea è di fare un film storico (forse ispirati dal successo di Young Guns, del 1988, che drammatizzava l’adolescenza di Billy the Kid) ma, tanto per provare qualcosa di nuovo, raccontare la storia dal punto di vista degli indiani. Per un po’ si baloccano con l’idea di fare una biografia di Cavallo Pazzo, il capo Lakota che aveva umiliato l’esercito americano e schiacciato il generale Custer, poi cambiano idea e optano per Geronimo, capo e medicine man Apache altrettanto famoso, ma la cui leggenda è molto meno limpida.

Il vero Geronimo in una foto del 1887
È a questo punto che le strade (di fuoco) di Hill e John Milius si incrociano per la seconda volta. Non è che tra i due esista un vero e proprio rapporto di collaborazione, quanto un’affinità elettiva che li porta a lavorare, con approcci diversi, a progetti simili, quando il progetto non è letteralmente lo stesso: negli anni 70, Milius aveva scritto per Carloco la sceneggiatura di Ricercati: ufficialmente morti con l’intenzione di dirigerla; poi aveva cambiato idea, e i Ricercati erano rimasti a prendere la polvere finché nell’87 il progetto non era finito in mano a Hill, che, prima di dirigerlo, lo aveva fatto parzialmente riscrivere da Larry Gross. La cosa si ripete quasi uguale un paio di anni dopo: Carolco commissiona uno script su Geronimo a John Milius, Walter Hill non sa che farci, con uno script di John Milius, e ancora una volta lo fa mezzo riscrivere a Larry Gross. In mezzo però passano degli anni e in quegli anni succede una cosa molto importante.
Ora io lo sto che Balla coi lupi è un argomento molto polarizzante perché da un lato è il film preferito di mia mamma ma dall’altro la critica lo ha fatto a pezzi sia per motivi di destra (“è una cagata hippy intellettualoide che vuole farti vergognare di essere bianco”) che di sinistra (“è un ritratto dei nativi americani ingenuo e paternalista fatto da un megalomane col complesso del salvatore bianco”). Non entrerò nel merito del film, che comunque è un bel film, la cosa che ci interessa è un’altra. In anni in cui i produttori iniziavano timidamente a vagliare la possibilità che forse piano piano e per favore si poteva magari provare a dare un’altra possibilità al genere western, Kevin Costner entra a cazzo duro dirigendo e interpretando un’epopea di TRE ORE del costo di 22 milioni di dollari che ne incassa più di 400, viene nominata agli Oscar in 12 categorie e ne vince 7, tra cui miglior film, miglior regia e miglior sceneggiatura. Che piaccia o no, è un game changer, una roba che rivolta come un calzino il paradigma produttivo di Hollywood: tutto d’un tratto non solo tutti vogliono di nuovo fare western, tutti vogliono fare western “progressisti” che mettano in discussione l’idea classica dell’eroe e possibilmente il rapporto tra l’uomo bianco e i nativi americani.
Due anni dopo escono Gli spietati di Clint Eastwood e L’ultimo dei Mohicani di Mann (vincono rispettivamente 4 e 1 Oscar), a sancire questo breve ma intenso revival del genere, all’interno del quale trovano posto persino progetti matti, impensabili fino a qualche anno prima, come Pronti a morire di Sam Raimi o Maverick con Mel Gibson.

Kevin Costner nell’atto di fare jackpot
Morale: nei 5 anni che passano tra quando Milius scrive il copione di Geronimo e Hill si decide a girarlo (nel frattempo non è rimasto fermo, ha fatto Ancora 48 ore e I trasgressori) è cambiato tutto. È cambiato lo studio che produce il film, non più Carolco, che è prossima alla bancarotta (chiuderà i battenti nel 1995, ma non prima di aver infilato ancora diverse bombette), ma la Columbia, che vuol dire più soldi ma anche più pretese. E sono cambiate, soprattutto, le esigenze e le aspettative rispetto a un’epica western, per di più ispirata a fatti realmente accaduti su un personaggio nativo americano realmente esistito.
Ora, io lo script originale di Milius non l’ho letto, ma così su due piedi mi viene da pensare, così eh, che non doveva essere una cosa proprio super conciliante. Né revisionista, nel senso di “ammettiamo i nostri errori e chiediao scusa”, e di sicuro non progressista. Lo stesso Milius dice (per la sorpresa di assolutamente nessuno) che Geronimo gli piaceva perché era un ribelle, un emarginato, un pazzo che non dava retta a nessuno, neanche alla sua gente, e creava problemi a tutti.
I like Geronimo just as he was, a human predator […] he was the essence of a misfit rebel and he would never give up. He was a troublemaker and I understand that. Even among his own people he was a troublemaker.
Decisamente non il ritratto del buon selvaggio o dell’indiano magico che probabilmente sarebbe piaciuto a chi si era spellato le mani guardando Balla coi lupi.
E Hill si trova tra l’incudine e il martello. Voleva solo fare un cazzo di western di quelli che piacciono a lui e ora sente addosso la responsabilità di mettere in scena un affresco storico accurato ma di grande intrattenimento (dirà in un’intervista che la Storia è interessante, ma raramente è una brava drammaturga), un film politico, giusto, maturo, complesso ma solo quel tanto che il pubblico è disposto a digerire. E tutto a partire da un personaggio che, al di là di cosa poteva avere o non avere scritto Milius, era stato un valoroso condottiero, su questo non ci piove, ma anche un grandissimo figlio di puttana. Un uomo dal carattere volatile, con cui era impossibile ragionare, che viveva per la guerra e che non andava esattamente per il sottile nel corso delle sue sortite e soprattutto delle sue rappresaglie – quello che oggi, a torto o ragione, nell’opinione comune sarebbe un terrorista.
Quindi da un lato abbiamo Geronimo che ha ragione a essere incazzato, ma è un tipo veramente difficile. E questo conflitto è reso efficacemente, sia attraverso lo script – che si concentra su un momento specifico della vicenda Apache, quella in cui Geronimo si arrende e consegna all’esercito USA, passa 15 minuti in una riserva, cambia idea, pianta un casino, organizza la resistenza e si arrende di nuovo – sia grazie all’interpretazione magistrale di Wesley Studi.
Gran caratterista dalla faccia di granito e dalla carriera lunghissima che lo aveva già visto, negli anni precedenti, impegnato in parti minori proprio in Balla coi lupi e L’ultimo dei Mohicani (e un anno dopo, per qualche motivo, in Street Fighter!), Studi è un attore Cheroke, il primo del suo popolo a ricoprire un ruolo da (co)protagonsita in una grande produzione hollywoodiana. E la scelta di usare un nativo americano per il ruolo di Geronimo, racconta Hill, non era affatto scontata: la produzione era perfettamente a suo agio con l’idea di prendere un attore bianco, possibilmente famoso, e pitturargli la faccia ed era stato proprio lui a spiegare che una roba del genere non era più accettabile, che il pubblico li avrebbe massacrati se l’avessero fatto.
Sorta di doppio oscuro di Graham Greene, Studi non ha mai veramente fatto il grande salto, e ancora oggi quello di Geronimo resta il suo ruolo più importante e più famoso, ma non ha mai smesso un secondo di lavorare, riuscendo a emanciparsi dal ruolo di “indiano nei film di indiani” e ottenendo parti anche importanti non definite dalla sua nazionalità. Per quel che vale, nel 2019 ha ricevuto un Oscar onorario “for career achievements”, qualunque cosa significhi, insieme a David Lynch, Geena Davis, Lina Wertmuller e il pupazzo Gnappo.

Wes Studi nei primi anni 90: indiano cattivo, indiano cattivissimo, indiano così così, Sagat di Street Fighter
Ma tornando al nostro racconto di genocidio in nome del destino manifesto, dall’altro lato della barricata ci sono invece gli americani, che hanno torto marcio, eppure sono trattati con l’ammirazione e la reverenza che si riserva di solito agli eroi tragici (spoiler: la guerra l’hanno vinta loro). C’è il generale Crook, interpretato da Gene Hackman, un concentrato di carisma e saggezza, così rispettato persino dagli avversari da essersi meritato un nome indiano; Robert Duvall nel ruolo di Al Sieber è semplicemente lo scout migliore del mondo; il tenente Gatewood, con la faccetta pulitina di Jason Patric (il figlio di Jason Miller, padre Karras dell’Esorcista), dilaniato dall’impossibilità di conciliare i suoi obblighi nei confronti dell’esercito con una profondissima conoscenza e stima delle popolazioni native; persino il pivellino Britton Davies, un giovanissimo Matt Damon praticamente agli esordi, fa immediatamente simpatia, mostrandosi un soldato volenteroso che rispetta la catena del comando ma che sa anche quando mettere in discussioni decisioni palesemente ingiuste.

Americani buoni
Il motivo per cui, a discapito delle ottime intenzioni e dell’ottimo cast, Geronimo non decolla mai veramente è che, secondo me, Walter Hill non è molto bravo quando i contorni delle cose si fanno un po’ sfumati.
Quando c’è da raccontare “Il West”, nel senso più assoluto e archetipico, non è secondo a nessuno. La sua messinscena trasuda johnfordismo e, inquadrato da lontano, è tutto meraviglioso: i paesaggi, gli uomini a cavallo, le scene di massa e soprattutto le battaglie — da mozzare il fiato, se vi piace il genere. È quando l’obiettivo si avvicina e cerca di mettere a fuoco gli uomini che, per la prima volta, ho visto Hill incespicare. Del resto i suoi film più riusciti sono quelli più stilizzati, più netti nella caratterizzazione dei personaggi; è vero che i suoi eroi sono più spesso che no anti-, ma agiscono puntualmente in situazioni in cui alla fine della giornata sono loro i buoni e gli altri, senza possibilità di errore, i cattivi. Hill non è scemo, lo sa che in Geronimo non c’è spazio per questo approccio, la Storia non è stilizzabile e molto raramente può essere ridotta a uno scontro tra buoni e cattivi. Lui ci prova, a restituire quella complessità, ma non è il suo. Forse ci riuscirebbe anche, se non cercasse di tenere il piede in due staffe: indignato per le angherie subite dai nativi, ma affascinato dalla guerra; fedele alla Storia, ma innamorato di figure leggendarie; amico degli oppressi come Kevin Costner e amico delle guardie come John Milius.
Blu-ray quote:
“In che cosa mi sono cacciato”
Walter Hill, regista
Non avevo mai capito perchè questo film avesse floppato all’epoca, a me piacque tantissimo.
Ora l’ho capito. Grazie.
Nel cv di Wes Studi direi che manca poliziotto cazzuto nella squadra di Vincent Hanna / Al Pacino nel capolavoro manniano Heat….giusto per capire il peso della sua fazza nei 90’s….
“Ci vuole la bianca rapita dagli indiani, altrimenti con chi avresti parlato?! Mica si possono sottotitoli per tutte le tre ore di film!”
“Ma soprattutto, con chi avrei scopato?! Va bene l’amicizia tra popoli, ma fino ad un certo punto…”
(cit.- anche se vado a memoria)
In che occasione avrebbe detto quelle frasi?
Perché a https://youtu.be/slMmz4NCBxI?si=Blb3kerDEdyTQV7M questo link dice qualcosa che è incompatibile con ciò. Parafrasando in sintesi: “Il colore della pelle non fa differenza per me, infatti mi ero innamorato di Diana Ross ed è per questo che c’è Whitney Houston in The Bodyguard”.
Per me questo Wes Studi sarà sempre solo Sfinge (in Mystery Men).
He who questions training only trains himself at asking questions
Capolavoro
Cosa mi hai ricordato
Giuro che non sapevo che Wes Studi fosse in SF.