Ce l’avete presente la pasta al pomodoro, no? Un classico italiano. Ignorate quella della foto qui sopra, è troppo raffinata e condita per il mio discorso. Parlo proprio della versione base: prendi la pasta che più ti piace (cioè gli spaghetti, ma non vi giudicherò troppo male se ne scegliete un’altra, sempre pasta è), la butti in acqua bollente, scaldi un po’ la salsa di pomodoro e unisci le due cose in un trionfo di sapori che poi in realtà non trionfa e non ha neanche troppi sapori, tipo due, ma è la pietanza ideale per quando non hai voglia di manicaretti ma non vuoi neanche lasciarti andare alla porcheria industriale strafritta. La pasta al pomodoro è un po’ la pasta al pomodoro della cucina: esiste, e se non ci fosse il nostro pianeta sarebbe un posto peggiore, e una volta alla settimana, o al mese, ti capita di mangiarla e sei contento così, pur sapendo di non avere esperito il massimo che il mondo del cibo possa offrire, ma godendo del fatto di avere trangugiato roba sana e dal sapore familiare.
Founders Day è un po’ una pasta al pomodoro. Ci prova, eh, a essere qualcosa di più, ad aggiungere magari una fogliolina di basilico per decorare e un paio di spezie per insaporire quella salsa un po’ sciapa che vendono al mercatino sotto casa. Ma di base è uno slasher dritto come un coltello, classico come un libro dell’Artusi ma neanche lontanamente raffinato o ricercato allo stesso modo. Vorrebbe tanto essere satirico, politico, un po’ black comedy un po’ horror un po’ commedia romantica, e invece è un thriller da streaming come se ne fanno a bizzeffe da quando esiste lo streaming e che, nel dubbio che vi possa capitare di metterlo su senza sapere di cosa si tratti, ci tiene a comunicarvelo con questa delicatezza:
Che poi è pure ingannevole! È un film ambientato (necessariamente) nel presente, dove ci sono gli smarfoni e tutto il resto dell’armamentario della modernità, per cui il font da slasher anni Ottanta è piazzato lì con l’intenzione di essere piacione più che di anticipare qualcosa (un tono, un’atmosfera, un tema) che vada al di là di “e questo è il genere di riferimento del film che state per vedere”. D’altra parte avete mai visto una pasta al pomodoro ricoperta di una spolverata di tartufo grattugiato? Certo che no, perché la pasta al pomodoro sa cos’è, conosce i suoi limiti. Founders Day non sembra conoscerli, e la cosa non sembra interessargli granché, il che in un certo qual modo è affascinante. Ma anche un po’ frustrante. Come quando è piena estate e ti offrono il melone. Il melone fa schifo alla merda, e io (e qualsiasi persona sana di mente e di naso) gli preferisco di gran lunga la pasta al pomodoro.
Temo di essermi perso dietro alla metafora culinaria che quindi abbandonerò subito per andare invece a dedicarmi alla descrizione e recensione della pellicola del cinematografo Founders Day, scritta, diretta e interpretata da Erik Bloomquist (con la collaborazione del fratello Carson in fase di scrittura), e che a quanto leggo doveva essere addirittura il suo film d’esordio! Arriva però a sei anni – e diversi film che qui sopra non abbiamo coperto – dal suo primo lungometraggio, per cui tu Fabrizio giustamente dici, con la bocca sporca di salsa di pomodoro, “avrà imparato, studiato, raffinato la sua arte”. EH! Di sicuro ha visto un sacco di slasher, da Halloween a Venerdì 13 arrivando a Scream ma anche, ci scommetto, a robe più contemporanee tipo Fear Street. Oltre ovviamente a quelle elezioni americane, che nella sua testa tutta piena di satira dovrebbero essere uno dei Temi del film. Lo sono davvero? Lo scopriamo dopo la SIGLA!
Dunque: nella ridicola cittadina di Fairwood, che sembra costruita a partire da un testo di ChatGPT generato con il suggerimento “typical small town rural white picket fence America”, ci sono le elezioni per il nuovo sindaco. Quella uscente, Blair Gladwell, invita a votarla con il motto CONSISTENCY: vi ho governato per gli ultimi tot anni, dice, e non vedo perché non dovremmo continuare su questa strada. Lo sfidante, Harold Faulkner, vuole invece il CHANGE, e togliere il posto a una che tra l’altro, dice lui, fa spesso e con gran gusto un uso privato dei fondi pubblici. Blair è tutta sorrisi e atteggiamento da mamma amorevole che vuole solo il bene dei suoi sudditi; Harold è… boh raga, io credo che l’idea di Founders Day sia che lei è Hillary Clinton e lui Donald Trump.
Caso vuole tra l’altro che il giorno del voto coincida con il trecentesimo anniversario della fondazione di Fairwood, il Founders Day del titolo; per cui festa doppia, ritorno alle radici, colonialismo e genocidio dei nativi, America FUCK YEAH!. Capite quanto è sottile la metafora? Come un grissino, che è ottimo per fare la puccia dopo aver mangiato la pasta al pomodoro.
(scusate, vado a mettere qualcosa sotto i denti e torno a scrivere)
Non è che io non prenda sul serio questo tentativo di Erik Bloomquist di dare una virata satirico-politica al suo slasher d’ordinanza, eh: ci ho provato durissimo fin dall’inizio. Vi ricordate The Hunt? Mutatis mutandis ma Founders Day fa l’impossibile per convincerti che andrà a muoversi in quei territori: pensate per esempio che la figlia di Faulkner, Melissa, è LESBICA :-o e sta insieme a una ragazza NERA :-o :-o che peraltro insieme al padre costituisce l’unica coppia non bianca di tutta Fairwood. Mentre la figlia di Blair, la dolce Lilly, ha mollato il fratello di Melissa, Adam, per mettersi insieme al bullo della città, il ragazzaccio, il delinquentello Rob. Quali intrecci! Quanti amorazzi! Quante volte hai visto Scream e l’intera film-e-tv-grafia di Kevin Williamson prima di scrivere Founders Day, amico Erik!
Poi però a un paio di giorni dalle elezioni la dolce Melissa viene brutalmente assassinata a colpi di martelletto da giudice da un tizio con una maschera rossa da Padre Fondatore però rosso, e ovviamente incazzato. E questo non solo sconvolge il pacifico clima di Fairwood, ma anche il film stesso, che all’istante si dimentica la politica e la satira per dedicarsi al genere puro.
Pensare che cominciava così bene in quel senso: i due candidati, per esempio, sono un buon canovaccio su cui costruire dei personaggi stuzzicanti e provocatori; il problema è che Founders Day non fa neanche finta di provarci, non sappiamo nulla dei loro programmi, della loro visione del mondo, del motivo per cui la gente dovrebbe amarli oppure odiarli. C’è un’ottima sequenza poco prima dei titoli di testa nella quale la povera Allison, dopo aver assistito all’omicidio della sua amata Melissa, corre in cerca di aiuto e si imbatte in una doppia manifestazione tra sostenitori dell’una e dell’altra fazione; la prima cosa che succede è che entrambe fanno il possibile per accoglierla e farla sentire al sicuro, urlando “lei è nostra!” “no, è nostra!”. Ci sarebbe tanto da aggiungere a partire da questo spunto, ma fidatevi se vi dico che sul tema ha lavorato meglio persino coso là nel penultimo remake di Halloween (Kills? Ends? Stronz? non ricordo i titoli).
Anche l’idea dei Padri Fondatori, e del killer vestito come uno di loro, si rivela essere un trucchetto estetico senza alcuna profondità, perché ancora una volta, nel momento in cui cala il primo colpo di martelletto Founders Day smette di interessarsi a quello che ci ha fatto annusare fin lì, perché c’è una roba molto più urgente: metterci di fronte alla domanda “chi nasconde quella maschera?”.
Da Scream, Founders Day prende soprattutto questo: costruisce un piccolo ecosistema di provincia (c’è persino il giovane vicesceriffo con i baffetti, giuro), ci fa conoscere gli stereotipi che lo popolano e poi li fa morire in ordine sparso, spostandoli in giro per quel grosso tabellone di Cluedo che è Fairwood in modo da mascherare (ah ah AH) il più possibile le loro posizioni, e quindi in ultima analisi l’identità del killer. Voglio dire che ogni volta che c’è un omicidio Bloomquist gioca a far comparire in scena questo o quel personaggio con l’unico scopo di farci pensare “ah, allora è lui/lei!”, salvo poi magari ribaltare tutto nella scena successiva (magari ammazzando il sospetto in questione). Per cui oltre a essere uno slasher Founders Day è anche un whodunit, e maledizione al pantheon se almeno in questo non è efficace.
Perché alla fine cosa ci interessa in uno slasher nel quale non conosciamo l’identità dell’assassino? Ci interessa vedere chi ammazza, come, perché e quando per giocare a fare ipotesi nella nostra testolina su chi possa nascondersi dietro alla maschera. E per quanto i personaggi di Founders Day siano, come detto, stereotipizzati con violenza, o forse proprio per questo, potrebbero essere tutti colpevoli, e quindi a ogni nuovo omicidio nascono nuove ipotesi e interpretazioni e in questo modo il film si tiene in vita pur procedendo quando va bene con il pilota automatico, quando va male con una serie di prove di recitazione che mi fanno pensare che Erik Bloomquist abbia studiato direzione degli attori da George Lucas.
(no davvero: chiunque abbia più di 25 anni in Founders Day recita malissimo)
Il problema di puntare così tanto sul mistero è che, avendo a disposizione un parco personaggi limitato, più passano i minuti più diventa facile indovinare e rovinarsi un po’ le scene successive – anche perché ci si ritrova a pensare a quelle precedenti e a chiedersi se siano coerenti e a provare a ricollocare la gente in giro per il tabellone per dare un senso a questi omicidi anche se questi omicidi un senso non ce l’ha. E giunti al momento della Grande Rivelazione, boh, no spoiler et cetera ma è una tale paraculata, un tale scarto improvviso e inaspettato in senso negativo, che la mia prima reazione è stata “la mia soluzione era migliore”. Avrebbe tra l’altro potuto essere l’occasione perfetta per riprendere le fila del discorso politico iniziale, ma indovinate?
Ma la gente che muore? È tanta! E se i primi omicidi mi hanno fatto pensare “oh no, anche le morti mosce”, con il passare dei minuti e il salire del body count la creatività comincia a farsi strada, e ci sono almeno un paio di persone che fanno una fine degna di una cinquina dei Sylvester. Perché oh, è meno furbo di quanto lui stesso creda, ma il signor Bloomquist è quantomeno un regista stiloso, che conosce il genere e che sa metterlo in scena.
E in qualche modo questo fatto è sufficiente a salvare Founders Day dall’oblio. Non è lo slasher migliore dell’anno e neanche del mese, ma è ben confezionato e azzecca le cose giuste – magari non tutte le cose giuste ma un numero più che dignitoso sì. Non è neanche lo slasher peggiore dell’anno e neanche del mese, nonostante provi con tutte le sue forze a farsi odiare mascherandosi da satira e qui e là provando invano a fare la black comedy piena di sangue. È una pasta al pomodoro, diciamo: ogni tanto, quando non hai voglia di sbatterti, va anche bene, e non dirai mai di averla odiata.
In pratica il riassunto di quanto scritto finora è: se vi piace il genere, Founders Day potrebbe stuzzicarvi q.b.; solo non aspettatevi di ricordavene ancora tra un paio di mesi.
Giallo zafferano quote
“Una pasta al pomodoro”
(Stanlio Kubrick, i400calci.com)
Ma intendevi anguria o proprio proprio melone?
Lo vedrò sicuramente assieme a scalpera che ho spizzato stamane.
Ma mi sa di fregnaccia.
*scalpers.
Il melone fa schifo al cazzo. Con il prosciutto crudo poi è come mangiare direttamente dal sacchetto dell’umido
Non parliamo poi di mia moglie che lo lascia in frigo tagliato a fette… all’apertura c’è da sentirsi male.
Il melone verde/arancione in effetti non è un granché, anche perché 90 secondi dopo aver passato la maturazione inizia a puzzare di discarica.
Già meglio il melone giallo/bianco.
Il prosciutto e melone è la dimostrazione matematica che i gusti e le tradizioni culinarie sono esclusivamente questione di moda e abitudine. Se qualcuno lo proponesse oggi verrebbe lapidato.
Il melone magari fa schifo, ma il popone (magari bello diaccio marmato) d’estate è l’apoteosi
Dialetto aretino..
Aretino un pardi…popone diaccio marmato è sulla cosa
Beh popone lo dicono in toscana soprattutto nella provincia di Arezzo
Mamma mia che recensione. Peccato che sia probabilmente più bella del film.
Dalla trama sembra Thanksgiving, ma girato un altro giorno (i padri pellegrini si davano parecchio da fare evidentemente….)
“Il melone fa schifo alla merda”
Certo, quelli che compri al market tirato giù verde e che marcisce prima di riuscire ad avere un sapore. Tiralo giù maturo e mangialo diretto, ed è una favola. Tipo le fragole che compri: materiali da imballaggio. Prova a mangiarle mature dall’orto. Nemmeno parenti alla lontana.
Ok, come metafora per questo film non funziona bene come la pasta al pomodoro. Ma un minimo. E comunque prosciutto e melone è come pizza con l’ananas. Chi inventa queste cose merita un posto speciale all’inferno. Quello di Benni: la coda in autostrada in agosto, però eterna.