Richard spinge Jen facendola cadere da uno strapiombo, e Jen viene infilzata dallo spuntone di un alberello. Richard se ne va, comprensibilmente convinto di averla ammazzata. Ma Jen non è morta. Si dice che quello che non ti uccide ti rende più forte, e quello diventa un momento di shock estremo che in effetti trasforma l’insospettabile Jen in… Rambo? È il parallelo più facile, ma leggermente fuorviante. Jen non diventa un supereroe, non si esibisce in chissà quali incredibili prove atletiche o impensabili trovate strategiche: sporca, poco vestita e sanguinante sotto il sole cocente del deserto del Marocco, Jen diventa semplicemente inaffondabile. C’è un certo ovvio surrealismo in ballo, ma a risultarne esaltate sono soprattutto le caratteristiche di pura sopravvivenza e indomabile resistenza, sia fisica che mentale. Il ruolo principale di Revenge non è esattamente per tutti.
Il film rivelazione di Coralie Fargeat arrivò per coincidenza insieme al movimento #metoo introducendo una serie di temi che tanti altri film nei seguenti sette anni hanno rispecchiato o rielaborato: nessuno, a mio avviso, con la stessa forza dirompente. Quando ho scoperto che per riportare Red Sonja sul grande schermo avevano scelto la sua protagonista Matilda Lutz – che dopo Revenge aveva continuato a frequentare il cinema da combattimento con A Classic Horror Story ed è ora su Netflix con Briganti – ho esultato fortissimo. Nata a Milano da madre italiana e padre americano, Matilda parla tre lingue e gira tra piccole e grandi produzioni in USA, Italia e Francia, spaziando in libertà tra diversi generi, ma senza scomporsi se c’è da faticare e sporcarsi le mani di sangue. Il suo è un profilo che dalle nostre parti non ha eguali. Ed è per questo che abbiamo voluto farci raccontare la sua storia.
Raccontaci come ti sei ritrovata introdotta nei film di genere.
Mi sono in realtà approcciata a questo tipo di film puramente per caso, nel senso che ero andata negli Stati Uniti, stavo lavorando come cameriera in un ristorante e avevo un po’ la mezza idea di iniziare a fare l’attrice, ma non era ancora una cosa concreta e non pensavo per forza di poterne fare il lavoro della mia vita. Ho preso un manager giovanissimo che stava iniziando in una compagnia abbastanza grossa (è ancora oggi il mio manager), e lui mi ha fatto ottenere il provino per The Ring 3: quello è stato il primo tuffo nel cinema statunitense. Credo dopotutto di essere un po’ lo stereotipo della donna da film horror, quella bellina, carina, pura, genuina, a cui succedono tutte le cose più terribili.
A dire la verità normalmente i film horror mi terrorizzano e suggestionano tantissimo, ma ho iniziato a guardarne per prepararmi. Poi ho avuto la fortuna di stare su un set così incredibile e vedere tutti i retroscena, ed è stata un’esperienza stupenda che ora mi fa vedere gli horror in un altro modo: ho iniziato a capire che cosa c’è dietro, quanto è importante ad esempio la colonna sonora, ecc… In ogni caso mi diverte tantissimo fare questo tipo di film, mi ritrovo proiettata in un mondo veramente lontanissimo dalla realtà che vivo, ed è come poter sfogare tante cose che nella vita non si ha occasione di vivere. È un po’ una specie di terapia. Poi diciamo che quando fai un film di genere la gente che lavora nell’industria e anche un po’ il pubblico iniziano ovviamente a vederti in quel tipo di film, quindi le proposte che ricevo sono per la maggior parte per film di genere avendo iniziato la mia carriera con quel tipo di cose. Ho dovuto dire tanti no, e adesso il percorso che sto cercando di intraprendere è appunto di fare scelte diverse che mi sfidino ogni volta, e che mi aiutino a imparare a esplorare mondi che non ho ancora esplorato.
Come sei arrivata a fare Revenge?
Sono andata in Francia per fare incontri con agenti francesi perché uno dei miei sogni era lavorare da quelle parti. Tramite un’agente ho incontrato Coralie Fargeat per un caffè, e ci siamo ritrovate a parlare per quasi tre ore, quasi una chiacchiera tra amiche su musica, film, vita, persone, ecc… Coralie il giorno dopo sarebbe partita presto per cui mi chiese di andare nel suo hotel a un orario assurdo, tipo alle cinque del mattino. Sono andata e abbiamo fatto tre o quattro scene. Devo dire che avevo letto la sceneggiatura di Revenge e non ero sinceramente rimasta così impressionata perché era scritta, diciamo, in modo molto semplice, probabilmente era stata scritta in francese e poi tradotta in inglese molto alla buona. Poi però ho visto il corto di Coralie e sono rimasta affascinata perché era stato fatto con pochissimi soldi ma sembrava una produzione enorme, era una cosa sci-fi che aveva dietro un messaggio fortissimo. Ma soprattutto mi ha colpito lei come persona, la sua passione e la sua visione: sapeva esattamente quello che voleva e sapeva come comunicarlo. Mi ha fatto fare altri quattro provini in self-tape dove mi diceva cosa voleva in modo precisissimo anche a livello estetico, mi diceva tipo “puoi comprare per favore una parrucca bionda, farti le unghie in questo modo”, ecc… Poi mi chiama e mi dice “guarda Matilda, grazie mille per il lavoro che hai fatto ma ho deciso di andare con un’altra scelta”, e questa chiamata è stata sinceramente un momento che non dimenticherò mai nella mia carriera perché è molto raro che si riesca ad avere un feedback diretto dal regista dopo dei provini, quindi il fatto che lei mi avesse chiamato direttamente e che mi avesse comunque ringraziato del lavoro che avevo fatto è stata per me una cosa grandissima. Otto mesi dopo più o meno ricevo una chiamata dalla mia agente e un’email da lei che mi chiede di andare a Parigi in due giorni e insomma, per farla corta era stata presa una ragazza alle prime armi molto giovane che durante le prove si è spaventata e ha deciso di non farlo più. Coralie è stata molto onesta e mi ha detto esattamente come sono andate le cose, e per me non c’è stato un secondo di dubbio. Anzi, per fortuna che ero libera in quel periodo perché per me girare Revenge è stata una delle esperienze più incredibili della mia vita sia a livello umano che che professionale.
Come hai affrontato la parte fisica del ruolo?
Fisicamente devo dire che ho avuto la fortuna di crescere facendo sport. So fare un po’ di tutto: tennis, nuoto, surf, snowboard, scalare… Ma niente di questo a livello agonistico. Ho tre fratelli maschi e mio padre è uno sportivo maniacale, per cui ogni volta che si faceva qualcosa con mio padre era qualcosa che aveva a che fare con lo sport. Quindi diciamo che quella parte fisica di resistenza l’ho sempre avuta e mi è stata utile anche su altri set, tipo Red Sonja, dove avevo messo sei chili di muscoli e dovevo fare cavallo, combattimenti, scalate, ecc… Arrivavo la mattina, mi allenavo coi pesi, facevo tredici ore di set tra preparazione, set e smontaggio diciamo di parrucche eccetera, eccetera, e poi tornavo ad allenarmi e mi dicevano “ma come fai, sei una macchina!”. Tra l’altro le riprese di quel film sono durate tre mesi, a differenza di Revenge che erano ventotto giorni. Sinceramente, questa è una cosa che a me dà un sacco di carica. L’allenamento, la parte fisica, è come se mi togliessero l’ansia da prestazione sul set, è proprio una cosa che forse mi agevola la recitazione. Detto questo, alla fine a livello fisico la parte più difficile di Revenge è stata dover sostenere l’escursione termica che c’è nel deserto del Marocco a febbraio, dove di giorno ci sono 35 gradi e la sera -10, e io dovevo essere praticamente sempre in bikini…
Volevo parlare un po’ di più del tuo personaggio. All’inizio Jen sembra essere il classico personaggio che un film di genere tende a mettere da parte, sottovalutare o maltrattare, messo lì per attirarsi la classica sfiga letale di chi non si attiene agli standard morali più classici e conservatori. Il bello del film è quindi che trasforma questo personaggio nell’eroina della situazione senza giustificarla o inquadrarla in un qualsiasi discorso di redenzione o illuminazione. Al contrario, ti fa capire chiaramente che non importa quello che pensi di lei: quello che le succede è ingiusto e ingiustificabile in se stesso da qualsiasi punto di vista. E questo è un discorso che tantissimi film successivi hanno ripreso e cercato di portare avanti. Mi hai parlato di uno script inizialmente molto semplice: questo aspetto eri riuscita a capirlo?
Trovo che quell’aspetto sia una cosa importantissima, che io stessa quando ho accettato l’ingaggio non ero forse conscia al 100% che questo film volesse raccontare. Ho capito pian piano durante le riprese e l’ho capito ancora di più quando ho visto per la prima volta il film al Toronto Film Festival, proprio una realizzazione da spettatrice. Ci tengo a dire che questo film è stato scritto ed era in pre-produzione prima che nascesse il movimento #metoo, e che quindi si trattava semplicemente di una cosa che Coralie era molto determinata a raccontare.
Dal lato mio invece, per le circostanze che dicevo, avevo avuto poco tempo per prepararmi. Tenendo presente che la mia esigenza era raccontare come una donna sopravvive a un evento traumatico, la mia sfida era trovare qualcosa di veloce che mi aiutasse, sia mentalmente che fisicamente, a interpretare Jen prima e dopo.
Per la prima parte mi sono ispirata moltissimo a una figura a cui mi ispiro quasi sempre in realtà, che è Marilyn Monroe. Marilyn è una donna che ha rivoluzionato il cinema con la sua forza, la sua ambizione, la sua sensualità ma anche con la sua fragilità. E per me Jen era inizialmente un po’ questo, con il suo continuo cercare attenzioni e accettazione, questo suo modo di farsi vedere e di comportarsi, anche quando è da sola, come se avesse sempre un pubblico intorno. Qualsiasi cosa Jen facesse all’inizio del film non era solo per se stessa ma era per gli altri, e questo si riflette nel modo in cui cammina, o in come mangia la mela, come apre il frigo, come ascolta la musica, ecc…
Per la seconda parte si trattava invece di cercare un qualcosa che appunto desse una grande forza interiore, perché è vero che quando fai un film di genere si tratta per lo più di una recitazione molto tecnica, ma è anche vero che se trovi una motivazione interna che ti aiuta a muovere il personaggio il senso di quello che fai diventa ancora più forte. Per me è stato fondamentale quindi immaginare che Jen fosse incinta e non avesse solo se stessa come persona da proteggere, ma anche qualcun altro. Ho letto un libro di Viktor Frankl, il padre della logoterapia, che si chiama Man’s Search for Meaning. Parla dei prigionieri nei campi di Auschwitz, e in generale nei campi di concentramento, e di come un uomo che magari era sano, giovane e forte e non avesse magari un obiettivo per sopravvivere, che sapeva ad esempio che la sua famiglia gli era morta, si lasciasse morire a sua volta e non sopravvivesse, mentre un uomo che magari aveva sessantacinque anni e non era altrettanto in forza ma sapeva che la sua famiglia era ancora in vita, trovava le forze per andare avanti. Quindi il trucco che mi ha aiutato era stato quello, il trovare per lei un significato oltre se stessa e quindi un cucciolo da proteggere: questo era ovviamente un segreto mio che non condividevo con nessuno ma che mi ha orientata per interpretare il personaggio.
Facciamo un salto e, visto che l’hai citato, parliamo subito di Red Sonja. Cosa ti ha attirato di questo personaggio e qual è stato il tuo approccio per interpretarlo?
Mi hanno attirato tantissime cose. Innanzitutto ovviamente il fatto che fosse un personaggio iconico, anche se devo dire per essere sincera che non lo conoscevo bene e non avevo letto fumetti suoi in particolare. Poi mi ha attirato il poter lavorare con MJ Bassett che è una regista incredibile, che per certi versi mi ricorda tanto Coralie nel senso che aveva una visione molto specifica del personaggio, della storia che voleva raccontare. È una persona appassionata, umana e veramente profonda, che per me è fondamentale quando si lavora. E poi la cosa che mi aveva veramente colpito era il fatto di raccontare una solitudine di una donna. La storia racconta di come questa donna si ritrova sola, a dover sopravvivere in un mondo austero e a cercare di capire chi è, di fare un percorso per diventare una donna vera e propria, e questo mi aveva molto affascinato della sceneggiatura.
Poi ovviamente c’è la parte di costruzione fisica del personaggio che è stata un’esperienza indimenticabile e tostissima. Ho dovuto mettere su sei chili di muscoli, che per me che ho un metabolismo molto veloce è stato molto difficile. Mi ricordo la prima settimana, ogni volta che dovevo mangiare mi veniva da vomitare… Era una dieta veramente tosta. E poi c’era l’allenamento: tutti i giorni tra arrampicata, cavallo, combattimenti. Una cosa tostissima ma che allo stesso tempo mi ha dato tantissimo.
Saprai sicuramente che c’è già stato un film su Red Sonja, ma mi immagino – e mi auguro – che il tuo sia parecchio diverso…
So ovviamente che c’è già stato un film, e normalmente l’avrei guardato anche prima di fare il provino, ma in questo caso la regista mi ha chiesto esplicitamente di non guardarlo…
Ha assolutamente senso.
Parliamo di A Classic Horror Story. Tentiamo periodicamente di rilanciare il cinema di genere italiano, e trovo che questo sia il nostro migliore esempio degli ultimi anni. Cosa ti ha attirato del progetto?
Era molto tempo che non lavoravo in Italia, per cui se fossi tornata in Italia sarebbe stato per una cosa a cui tenevo, e questo è un progetto che ho voluto fortemente prima per la sceneggiatura e poi perché ho conosciuto Roberto De Feo e Paolo Strippoli. Paolo non aveva fatto lungometraggi ma avevo visto i suoi corti, mentre di Roberto invece avevo visto il primo film, The Nest. I loro lavori mi erano piaciuti e ho trovato che anche loro avessero una visione molto precisa di quello che volessero fare. Sono stata molto contenta di farlo perché mi hanno fatto un’ottima impressione sia come registi che proprio come esseri umani. È stata un’esperienza umana stupenda: c’era un cast di attori bravissimi ma anche persone proprio belle, e lo dico perché non è sempre così, non è assolutamente scontato.
Quello che mi piaceva era proprio un po’ la parodia che c’era dietro questo film, il voler raccontare come in Italia – ma anche, ho scoperto, in altri paesi europei – è appunto difficile fare film di genere. A me sinceramente divertono, trovo anzi che la maggior parte dei registi che ho conosciuto che vogliono fare film di genere siano i cineasti più preparati che abbia mai conosciuto, sia a livello di tecnica che di passione e di conoscenza cinematografica. È un mondo che mi piace e mi diverte.
L’aspetto interessante ovviamente era anche come questo film trovasse il suo modo di fare quello che un po’ tutti cercano di fare in Italia quando si tratta di progetti di questo tipo, ovvero un equilibrio tra una parte commerciale e possibilmente vendibile all’estero e una sua impronta fortemente italiana, il rifarsi a mitologie nostrane come in questo caso le leggende sulle origini della mafia. Abbiamo un patrimonio culturale esagerato in Italia e mi fa sempre piacere quando vedo qualcuno che cerca di usarlo per resuscitare a modo nostro i film di genere.
Sì, mi è piaciuto anche questo fatto di utilizzare questo mito all’interno del film per poi raccontare tutto quello di cui in Italia invece ci lamentiamo. Per me una delle scene più belle è quella dove io sono inchiodata alla sedia, lui mi parla attraverso il monitor, io gli dico che è un regista che fa schifo e lui dice “ma in Italia guardate i telegiornali, la madre che ha ammazzato il padre, il figlio che ha ammazzato la fidanzata, ecc… però poi vi spaventate davanti ai film horror”. A me tutta quella parte era piaciuta tantissimo, trovo che sia estremamente vero e sicuramente sarebbe bello che in Italia si facessero questi film e che si utilizzasse il nostro patrimonio culturale. Purtroppo – e penso che sia una cosa che in realtà succeda ovunque e non solo in Italia – si ha paura di rischiare. Si cerca di fare una cosa a metà tra il commerciale e qualcosa che possa essere venduto all’estero perché, soprattutto con le piattaforme, c’è stata una specie di omologazione, si sono creati dei punti fermi su cosa può avere successo e cosa no, che secondo me è la cosa più sbagliata che si possa fare perché quando c’è una visione forte su un argomento è difficile che si sbagli. Lo capisco da un certo punto di vista, perché non fa piacere a nessuno perdere milioni di euro, ma dall’altro lato purtroppo si tende molto a rendere rendere i progetti tutti uguali, con una stessa estetica, lo stesso tono, ecc…
Ci colleghiamo quindi a Briganti perché ovviamente è un progetto abbastanza simile, nel senso che è un’altra opera che pesca da un patrimonio di storie che abbiamo sfruttato poco come le primissime reazioni all’unione dell’Italia, per fare di nuovo il genere, stavolta l’action. Tu qui interpreti uno dei pochi personaggi che sono realmente esistiti.
Sì, vuole essere una serie di intrattenimento più che una serie storica, quindi ovviamente ci si è ispirati al brigantaggio molto liberamente – ci tengo a dirlo perché ci sono state tante critiche rispetto alla storicità della serie. Non avevo studiato il fenomeno del brigantaggio a scuola per cui è stato bellissimo andare a scoprire libri soprattutto su Michelina Di Cesare, leggere quello che le era realmente successo. Non avevo neanche idea che nell’Ottocento una donna potesse avere una posizione così prevalente all’interno delle bande di briganti. Se vai a leggere quello che succedeva in quel periodo storico, la donna era schiacciata a meno che non fosse una brigantessa o comunque una ribelle. C’era questa duplice posizione sociale della donna, ed era incredibile leggere come la donna all’interno delle bande di briganti avesse una posizione quasi più forte di quella dell’uomo.
Ti capita, al di là dei film che fai, di vedere altri film di genere e farti un’opinione su come vengono trattati i personaggi femminili? C’è qualche esempio recente che ti è piaciuto?
In generale vedo sicuramente un cambiamento per quanto riguarda come vengono scritti i personaggi femminili, e la cosa che secondo me mancava era che il personaggio femminile potesse esistere a sé senza essere di supporto a nessuno. Secondo me la cosa più bella da vedere è che iniziano a crescere i ruoli e le opportunità per vedere sullo schermo personaggi femminili che siano forti perché forti di per sé e non grazie a qualcun altro. Un film che ho amato di recente è Midsommar: trovo lei incredibile e il film spettacolare. Amo il regista, quindi è uno dei film diciamo di genere che mi è rimasto più impresso negli ultimi anni. Come ad esempio Parasite, che mi ha scioccata e fatta uscire dalla sala che avevo l’adrenalina a duemila. Per tre giorni non ho fatto altro che parlare di questo film. Per me Bong Joon-Ho e Ari Aster sono due registi di genere pazzeschi che in questo momento ammiro tantissimo.
Un’ultima domanda: Marvel o John Wick? (giuro che non è un trabocchetto)
È difficile rispondere a questa domanda nel senso che ovviamente dipenderebbe anche, come ti dicevo prima, da regia e cast e tanti altri aspetti. C’è una parte di me che ama fare gli stunt. In Red Sonja ho fatto cavallo, spada, ecc… tutti stunt di un periodo storico non contemporaneo, quindi mi piacerebbe tantissimo poter provare stunt moderni, tipo non so, andare in moto. Dall’altra mi affascina anche tutto il mondo Marvel e la possibilità di utilizzare green screen piuttosto che live action. Quindi è veramente difficile rispondere.
“[…] bellina […]”
Capo, aggiungiamo una categoria ai Sylvester 2025 per “Miglior Understatement” ?
Ho sempre trovato curioso il fatto che attori e modelli nelle interviste evitino accuratamente di autodefinirsi attraenti nonostante sia un dato (tra virgolette) oggettivo, e anzi una componente necessaria a un certo tipo di carriera. Ovviamente la ragione è che non sta bene sottolinearlo in pubblico. In questo senso la risposta è stata molto sincera.
La Matildona Nazionale! Ben fatto Boss ;)
Matilda Lutz, patrimonio da difendere! Sana subito! (Scherzi a parte, è pazzesca la naturalezza con cui recita e come abbia abbracciato il genere intercettandone le possibilità e gli stimoli per una professionista del settore…per lei solo amore, e via dai ruoli di donna fragile e instabile di troppo cinema italiano…).
Che bella iniziativa! Grazie Capo e grazie Matilda.
Sicuramente la migliore nella serie “Ils étaient dix”, che ho visto di fatto solo perché c’è lei.
Spero che vengano molte altre interviste.
Che invidia.
Breve storia nerd
Vidi Revenge al Torino Film Festival, con Matilda Lutz presente il sala. Mi piacque un casino – ne scrissi una recensione entusiasta per un altro sito – e quindi fui molto sorpreso dagli applausi tiepidi degli hipster festivalieri presenti in sala. Mi avvicinai a Matilda Lutz per dirle “non dare retta a questo branco di idioti è un film fichissimo e intelligente” ma tipo effetto medusa non riuscii a parlarle perché, pur essendo lei tranquilla e non snob, vista da vicino era semplicemente troppo bella e mi paralizzavo come un tredicenne. Una delle pochissime volte che mi è successo in vita adulta. Comunque credo che se ne sia fatta una ragione diventando una star mentre gli hipster sono tornati a fare i video “come Wes Anderson avrebbe girato il Signore degli Anelli” nelle loro camerette.
Grazie al cielo di sono estinti…
Povera la Lutz, brava è brava e ad oggi solo filmini di merda.