Non rivedo Il caimano di Nanni Moretti da quel dì, ma c’è una cosa che mi è rimasta impressa: la parte – mi pare sia all’inizio – in cui vengono mostrati spezzoni tratti dai film immaginari prodotti dal protagonista, Bruno Bonomo, noto produttore di cinema di serie B. Moretti tenta di ricreare spezzoni di cinema di genere d’epoca, ricordo che c’erano di mezzo anche i poliziotteschi, fallendo miseramente. Dall’alto del suo ben noto disprezzo per la materia, che derubrica a pura spazzatura, Moretti non riesce assolutamente a evocare lo spirito, lo stile, la grana di quel cinema. Una delle cose più maldestre mai fatte da Moretti, che con quella scena vorrebbe dimostrare la sua superiorità a certo cinema alimentare e invece finisce solo per rivelare al mondo intero i suoi limiti – tecnici, critici, di pura capacità di osservazione. Poi il resto del film non è che ne risenta particolarmente, eh? Il caimano funziona per tutt’altro e questa è solo una piccola parentesi malriuscita.
Diverso è il problema se fai di questa ricostruzione il fulcro del tuo progetto. Gli Astron-6 hanno rotto i maroni abbastanza presto, per quanto mi riguarda, ma The Editor era obbiettivamente impressionante per come riusciva a farti credere di essere un giallo italiano anni ’70 di cui nessuno aveva sentito parlare, ritrovato miracolosamente dentro una cassapanca. Se non sei capace di fare una ricostruzione così meticolosa, non ti ci mettere nemmeno: vedi le imbarazzanti distanze tra un Tarantino a mezzo servizio e un Eli Roth entusiasta. Ci vuole talento anche nel copiare, specialmente se il copiare assume l’aura di quella cosa che per un paio di decenni tutti bramavano fortissimamente: il post-moderno.
In questo calderone ci mettiamo anche Black Dynamite, film del 2009 scritto e interpretato da Michael Jai White che faceva il verso, come saprete, alla blaxploitation, altrimenti nota come il cinema per un pubblico di neri prodotto e diretto da bianchi. Si noti il fatto che era scritto e interpretato, non diretto, da White: a quello ci aveva pensato tale Scott Sanders, un bianco*! Giusto per rispettare le tradizioni. Sono occorsi a White altri quattordici anni per realizzare finalmente il sequel spirituale di quel film, Outlaw Johnny Black, e stavolta il Michael Jai se l’è scritto, interpretato e pure diretto. E qui casca l’asino.
È arrivato il momento di parlare dei massimi sistemi: che cos’è un film? È una domanda che ci siamo posti altre volte su queste pagine, ma che oggi cade nuovamente a fagiolo: cosa distingue il cinema da una sequela di immagini messe l’una accanto all’altra in modo da raccontare a grandi linee una storia? I filmati casalinghi della vacanza a Bibione sono da considerarsi un film? Ovviamente no. Ma è sufficiente montare insieme riprese di gente che recita dentro set per due ore e un quarto (due ore e un quarto!) per dire di aver fatto un film?
Secondo me la risposta è “No”, e Outlaw Johnny Black ne è la prova. È indubbiamente costruito con tutti gli strumenti con cui si fanno i film: ci sono dei set, dei costumi, degli attori, delle macchine da presa che riprendono questi attori in costume, sul set, mentre recitano dei dialoghi scritti in precedenza e stampati su dei blocchi di carta noti come “copioni”. Eppure, come quando andate a sentire la cover band di vostro cugino in cui tutti suonano per i cazzi loro, questi elementi non riescono ad amalgamarsi nel modo giusto per creare un tutt’uno coeso. C’è poi una fotografia livello “telenovela argentina di Rete 4 primi anni ’90”, un digitalone piattissimo che illumina tutto senza il minimo contrasto e aumenta la sensazione di recita tra amici, sottolineando in maniera spietata quanto tutto sia posticcio, quanto i costumi siano costumi e non “abiti”, quanto i set siano set e non “luoghi”. Sembra stupido, ma in realtà fotografia e illuminazione contribuiscono in maniera determinante a dare l’effetto cinema, a nascondere l’artificiosità del tutto donandogli un tono iperreale. Pensate a tutte le volte che vediamo le foto del costume di un supereroe rubate sul set, fa cagare, poi al cinema no (ok, fa meno cagare). Qui tutto questo manca e trasforma la messa in scena in una poverata amatoriale che desta un imbarazzo abbacinante.
Mettiamoci anche il fatto che il film sembra realizzato da uno che non ha mai visto gli originali, ma solo le citazioni fatte negli anni da Tarantino e cloni vari. Non è così, e chiaramente l’intenzione di Michael Jai White era quella di omaggiare gli spaghetti western e non solo, proprio la deriva comica del genere ideata da Enzo Barboni con Lo chiamavano Trinità: c’è una sequenza che cita direttamente il film, e in generale la trama (fuorilegge opportunista si scopre un eroe quando, dopo essersi spacciato per il pastore di una cittadina, finisce per difenderla da un riccone che vorrebbe comprarsela per sfruttarne il giacimento di petrolio) è un omaggio a tutto quel filone col cuore in mano. Il problema è che White non sa scrivere la comicità e non sa dosare i toni. Ho fatto il fioretto di citare Boris il meno possibile, altrimenti non ne usciamo, ma stavolta me la tirano proprio fuori: l’idea di comicità di White è la stessa dell’episodio in cui Stanis e Martellone discutono la linea comica de Gli occhi del cuore e Stanis arriva alla conclusione che per far ridere bisogna pronunciare i dialoghi in maniera buffa. In Outlaw Johnny Black non c’è una singola battuta che faccia ridere, lo straccio di una punchline, ma nemmeno la comicità tutta fisica di Bud Spencer e Terence Hill, solo gente che dice cose normali facendo però le faccette e le vocine tutte matte.
Oltretutto, White non sa decidersi su che film vorrebbe fare, non ha rigore e butta dentro tutto quello che gli viene in mente. Outlaw Johnny Black è una parodia alla Mezzogiorno e mezzo di fuoco? È quello che sembra suggerire la trovata di far interpretare gli indiani a dei bianchi, che White ha spiegato, appunto, come una scelta “tipica del periodo”, quello dei western classici americani (“Ma non era una parodia degli spaghetti western?”, vi chiederete. “Allora sarebbero serviti, che ne so, degli abruzzesi!”) e una sorta di proclama politico. Ci sono momenti di comicità surreale alla Mel Brooks, intervallati ad altri più epici/badass alla Black Dynamite, e l’impressione è che White avrebbe voluto mescolare le due cose per fare un western/commedia post-moderno leggero e intelligente, ma non c’è riuscito. E quindi, non riuscendo ad amalgamare i toni, li ha suddivisi in parti distinte: ci sono le scene slapstick, le scene citazioniste, le scene western, le scene blaxploitation.
Outlaw Johnny Black, più che un film, è un racconto ammonitorio su cosa succede quando uno che non sa fare il regista decide di farlo comunque, senza avere dietro gente capace di tappare i buchi. Dispiace, perché Michael Jai White ci sta simpatico ed è evidente quanto gli stia a cuore la materia. Ma la prossima volta dovrebbe fare un passo indietro e cercarsi come minimo un vero regista.
VHS in allegato a Nocturno quote:
“Più che post-moderno, posticcio”
George Rohmer, i400Calci.com
* Sono consapevole dell’ironia per cui il regista nero di Outlaw Johnny Black si chiama “Bianco” di cognome, non distraetevi!
Peccato per il fatto che qui non sappia usare la commedia, perché in “As Good As Dead”, scritto da lui, tira fuori un Ram-bro che per me è diventata se non la battuta dell’anno, almeno quella del mese…
Oh, io insisto nel creare la rubrica “risparmia due ore di vita” nella quale mettere tre o quattro film che magari forse meglio non vedere, con una spiega del perché/percome. Tipo Violenza Domestica, ma con ancor più utilità sociale.
Così resta più spazio per le recensioni dei film che meritano, no?
(Cioè, vivo su un isola dove non succede un cazzo, non uso social networks, per me le recensioni dei 400 calci sono un momento importante… capitemi…)
La trama è Occhio alla penna
Il discorso sul “cosa è un film” mi ha ricordato prepotentemente il paradosso della nave di Teseo