E ora un elenco in ordine del tutto sparso di cose che nella vita, secondo me, sulla carta non andrebbero fatte: diventare un vecchiodimmerda; provare per la prima volta il bungee jumping dopo aver inaugurato la mattinata con una full english breakfast (non sono i fagioli, l’ovo o la salciccia che ti fregano, sono i pomodori); organizzarsi la giornata pensando “si incastra tutto alla perfezione, basta che Trenitalia non faccia ritardi”; accettare un calice di prosecco del supermercato dopo aver trangugiato cinque gin tonic, sempre del supermercato; bere da una fontanella pubblica di Skopje senza prima assicurarsi che il bagno dell’ostello abbia una vasca proprio accanto al water closet; guardare su Netflix un poliziesco di infiltrati francesi con un brutto titolo, che oltretutto dura più di due ore; mangiare la neve gialla. Sigla!
Sono tutte cose che garantiscono pene e sofferenze assicurate a te e a chi ti sta intorno, oltre a un’iscrizione nel database dei premi Darwin. Ma è anche un elenco compilato senza metodo scientifico, che ci ricorda come il buonsenso sia un concetto inesistente e mai uguale per tutti: può essere che il sindaco di Skopje, in nome del cuore sacro di Madre Teresa di Calcutta, abbia deciso di mettere un filtro per l’acqua in ogni fontanella della città; può darsi che quella neve sia gialla non a causa della minzione di un simpatico burlone, bensì per merito di un misterioso benefattore che va in giro a spargere sciroppo di limone; may be che il regionale veloce delle 17.49 sia inspiegabilmente in orario; peut-être che un thriller francese di Netflix con un titolo cesso che da lontano sembra aver tatuato in fronte SONO INUTILE, in realtà abbia solo la fazza sporca di sangue di Eric Cantona. Nella vita non si sa mai.
E infatti alla fine viene fuori che AKA è sì un poliziesco francese di Netflix con un titolo del cazzo, ma allo stesso tempo è anche uno di quelli che non ti faranno passare la voglia di avere gli occhi. Senza contare che il protagonista (e co-sceneggiatore) del film è quel manzo selvatico tutta fronte e tricipiti di Alban Lenoir, che al terzo film di calci azzeccato (dopo Proiettile vagante e Goal of the Dead) si è guadagnato a pieno titolo un segnalibro di Val Verde e una palla di vetro con la neve finta che cade sulle placche dorsali di un mostro grosso da mettere in entrata a fianco della scodella per le chiavi. Contro sigla!
AKA inizia con un giornalista fatto prigioniero da un gruppo di guerriglieri libici, che lo portano in una prigione ricavata da un sistema di caverne nel deserto. Subito dopo essere stato rinchiuso in cella, il nuovo arrivato si cava da dentro al culo una lametta – protetta con della pellicola per evitare spiacevoli emorragie interne, e da qui si intuisce il livello di professionismo – si libera e scopriamo che si è fatto catturare apposta per liberare una donna che fa la giornalista per davvero. L’infiltrato massacra gli amici terroristi, salva la tizia, la ammazza (non prima di essersi fatto ringraziare) per impedirle di consegnare all’ONU il suo rapporto sulle ingerenze occidentali nel Maghreb e infine si appiccia una meritata siga prima di essere spedito da qualche altra parte per l’ennesima missione losca necessaria a mantenere lo stato di fatto.

Non per dire, ma oltretutto il mio amico sa anche scrivere.
Nel mentre, a Parigi scoppia un hotel e un ministro viene svegliato nel cuore della notte. Il terrorista Moktar – signore della guerra sudanese ex alleato dei francesi – è fuggito dopo un’esplosione che ha ucciso la moglie e la figlia. Il ministro dice che va preso al più presto perché sì, e c’è anche una pista fresca: Moktar ha contattato Victor Pastore, narcotrafficante abbastanza importante da meritarsi un capo della sicurezza albanese. C’è bisogno di infiltrarsi in quella banda qui per stanare il sudanese esplosivo, e il capo della gente segreta assicura tutto ingobbito di avere a disposizione l’uomo giusto per risolvere la questione in fretta e senza tante fisime. È Adam Franco, il tizio che grazie all’incipit sappiamo essere grosso, barbuto, silenzioso, efficientissimo, veloce di mano e di mente, e soprattutto senza scrupoli quando si tratta di eseguire degli ordini necessari a implementare il bene superiore, o qualche altra cagata del genere che noi piccoli inutili pezzetti dell’ingranaggio non potremo mai capire fino in fondo.

Un milord sempre e comunque.
Per infiltrarsi il più in fretta possibile, il boss della gente segreta restituisce ad Adam Franco – e alla sua fazza in cui ogni elemento è bizzarramente scoordinato – la sua vera identità e la sua vera, desolante storia. Ovvero Digione (mmmh, senape), prigione (a 15 anni per aver ucciso il mazinga che aveva rapito, stuprato e ucciso il suo fratellino), legione (africana). Il Victor Pastore di cui sopra sarebbe Eric Cantona, elegante gangster in panciotto attorno al quale succedono molte cose. Non solo è amico fraterno del terrorista Moktar, ma è talmente malato di un generico morbo della morte da essere costretto a usare l’ossigeno quando i suoi uomini non lo vedono per non mostrare debolezza; inoltre ha seri problemi di liquidità e di ragazzini ceceni che gli vogliono fare le scarpe, e non si fa scrupoli a fare affari e a smattare davanti ai due figli, una studentessa di medicina e un bimbetto tenero che vengono serenamente presi a male parole quando sono in mezzo alle balle mentre si parla di business.
Adam Franco, con la sua espressione da Matt Damon francese con una dose extra di faccia, entra presto nelle grazie di Eric Cantona perché a nessuno dispiace avere in casa una macchina da guerra che parla poco e fa tutto quello che gli dici. D’altronde ad Adam Franco, alias il campione di scacchi norvegese Magnus Carlsen che ha perso la voglia di pettinarsi ogni mattina e si è tagliato i capelli, bastano una pistolina e un giubbotto sporco di merda per decimare una gang di spacciatori di eroina e riprendersi il figlioletto rapito di Cantona. Certo, è anche corretto dire che Adam Franco – uomo la cui arcata sopraccigliare e il cui labbro inferiore si amano da tempo, ricambiati, e sognano una vita l’una direttamente in cima all’altro – è un bruto spietato che odia la vita, la sua è quella altrui; ma è anche uno a cui il genere umano ha tolto tutto e il contrario di tutto. Gli rimangono il fantasma del fratellino che non è riuscito a salvare ma solo a vendicare, e le missioni che gli vengono assegnate e che porta a termine senza sentire il bisogno di chiedere ulteriori dettagli. Perché poi, quando quegli ulteriori dettagli finalmente emergono, succede che non puoi più guardare dall’altra parte e far finta di nulla.

Cantona non fa finta di nulla. Cantona fa l’elenco dei suoi nemici.
Nel film d’esordio di Morgan S. Dalibert – ovvero, guarda caso, il direttore della fotografia di Proiettile vagante – è tutto molto francese, ma allo stesso tempo non troppo francese. Scusate l’incredibile precisione di questo commento, so di aver perso per strada qualcuno con un tecnicismo del genere. Facciamo alcuni esempi: in AKA ci sono persone non francesi che riescono ad avere delle conversazioni con persone francesi senza essere trattate con condiscendenza; inoltre, in zona Cesarini fa la sua comparsa un montaggio tutto intenso e strappalacrime dei vari personaggi che si appropinquano verso la fine (della loro vita, del loro impero, della loro fiducia incondizionata nella superiorità morale oltre che intellettuale del primo mondo occidentale) accompagnati dalle note di un pianoforte che suona la versione eterea di Hurt – l’armonica cover di Johnny Cash, non la dissonanza originale dei Nine Inch Nails. Francese ma non troppo. Cover eterea di classe e di atmosfera – mica gli Evanescence – ma comunque non roba pretestuosa tipo Serge Gainsbourg. Orgoglio senza sciovinismo. Gente che fuma una sigaretta dopo l’altra, ma che quantomeno ti dà l’idea di sapere cosa sia un bidet. AKA, poi, è un ragguardevole bagno di sangue, che sfoggia una desolazione e una disperazione morale degne dei bei vecchi tempi andati di Hong Kong – buonanima – ed esteticamente è OK tutto in maiuscolo, nel senso che porta a termine il suo solido mestiere facendo economia di didascalismi e accumulando solo quando è necessario.
Anche così, consapevoli che ora siamo in rapporti d’amicizia con un thrillerone solido come un paracarro che scivola via come una bella puntata doppia di Jack Reacher, due ore abbondanti continuano a sembrare un po’ troppe. Ma si fanno sopportare, e per lunghi tratti anche apprezzare, creando un discreto ed equilibrato frullato proteico composto mixando: le tragiche storiacce personali di Adam Franco, che vorrebbe smettere di sembrare sempre corrucciato ma gli è fisiologicamente impossible; uno status quo iniquo, crudele e dipinto come nei polar più cinici e rassegnati, che lascia addosso un amaro senso di impotenza; un discreto feeling per il racconto cinematografico e, soprattutto, un coordinatore degli stunt che ha deciso di guadagnarsi bene la pagnotta mettendoci una dose ragguardevole di entusiasmo e competenza.
Social Media Manager di Netflix quote:
“Si chiama AKA perché il tizio è un infiltrato, però usa comunque il suo vero nome. Zeniale”
Toshiro Gifuni, i400Calci.com
Notato solo perchè nella clip su Netflix si vedeva il dialogo di Cantona con Franco e provato subito sulla fiducia. Che dire, un ottimo action, con base polar e un pò di neo-noir. Insomma il classico film Netflix che sembra anonimo e invece è una grande bella sorpresa. Da vedere sicuramente.
Faccio notare che ad usare i bidet sono solo i poliziotteschi italiani.
Nessun poliziotto americano (o inglese o tedesco) ha mai visto un bidet in vita sua.
Ma il locale col neon celeste si chiama “Minchia”?
È il blue oyster
Dettaglio, questo film è tratto dalla stessa serie di libri da cui avevano preso per The Gray Man.
Ma molto meglio
visto e dimenticato..ma la descrizione dell’inizio me lo ha rievocato…ha il suo perchè, come quasi tutti i film di genere dei mangiarane…da noi si potrebbe provare con un Totti mafioso..sarebbe meglio dell’attorame medio nostrano.
Visto, bello.
Un solido e robusto film d’azione in cui (e non capita spesso) regia e sceneggiatura vanno di pari passo e alla fine ti trovi a fare i complimenti ad entrambe.
A voler cercare proprio il pelo nell’uovo forse si, se fosse durato 10-15 minuti meno sarebbe stato meglio a livello di ritmo ma non si può aver tutto dalla vita. Forse ormai un pò trita e ritrita la morale per la quale più o meno tutti i problemi del terzo mondo sono colpa dell’occidente, ma ormai è un tropo del genere “film su gente segreta che fa cose brutte” e poi al riguardo immagino che i francesi abbiano sensi di colpa da riempirci un hangar.
Ma un tempo in una recensione il raccontarci tutta la trama non costituiva “spoiler” ?
Concordo, un po troppo spiegata in effetti..
Mi basta sapere se è bello, e quali elementi ci sono dentro meritevoli..
La trama sempre meglio a scatola chiusa..
Visto perchè avevo apprezzato Proiettile vagante, mi è garbato più di quanto mi aspettassi – Lenoir dal nome sembra un morbidone ma è ruvido il giusto, Cantona credibile come boss criminale con un proprio codice, l’azione c’è