Quella di A Quiet Place è forse la saga più pessimista che il cinema americano abbia mai espresso. Già nel primo film avevamo parlato del cambiamento tra l’eroismo classico (dal western all’action anni ’80) e quello di questi film, in cui nessuno vuole cambiare nulla, nessuno vuole sovvertire nulla, nessuno vuole battere nessun altro e la forma di eroismo che viene promossa è difensivista, cioè mirata a sopravvivere, non farsi sbranare e cercare di continuare a esistere in un mondo postapocalittico dominato da alieni con l’udito sensibile. Ora, questo prequel che racconta il giorno in cui gli alieni sono arrivati e i tre successivi va nella stessa identica direzione e la cosa è ancora più impressionante visto che si tratta del momento in cui l’invasione è iniziata.

L’ultimo possibile nemico degli alieni quando invadono la terra: una donna, malata, con la tote bag e un gatto al guinzaglio
Intuiamo che nel momento in cui arrivano gli asteroidi (meteoriti?) con gli alieni, la razza umana in un certo senso si organizza, anche con buona tempestività. Il luogo scelto per l’invasione è Manhattan (ovviamente, dove altro potrebbero mai atterrare?) e subito dopo ci sono raid aerei, ponti fatti saltare per isolarli e blandi tentativi di portare via le persone rimaste sull’isola. C’è tutto il campionario umano di “quelli delle catastrofi”: dal matto che sembra cercare la morte agli altri sopravvissuti che lo eliminano per non essere trovati, dai traumatizzati a quelli che prendono il comando, ecc. Ma noi, contrariamente al solito, non seguiamo loro, bensì una donna malata di cancro che non vuole salvarsi e un avvocato che la segue senza un motivo ben chiaro.
In questa scelta di trama sta un po’ tutto. Con questi protagonisti di certo non vinceremo mai. Non sono i personaggi da seguire per una storia di lotta attiva contro gli alieni. Questi sono personaggi che, invece di andare a sud, dove vanno tutti perché lì partono i battelli silenziosi pieni di gente silenziosa, se ne vanno a nord, verso quella che era la casa di lei, per prendere un pezzo di pizza. Ora, il presupposto è chiaramente risibile, ma la cosa è anche voluta. Nel mezzo di un evento incredibile, questa persona preferisce prendersi l’ultimo pezzo di pizza piuttosto che salvarsi. C’è uno statement in questo. Non che faccia troppa differenza, ma ecco, non è il tipo di eroe che ci si potrebbe aspettare. A meno che per l’appunto la saga non sia A Quiet Place, nei cui precedenti capitoli il punto era riuscire a partorire e poi a gestire un neonato senza attirare gli alieni con l’udito sensibile.
Sia chiaro, poi, il film funziona: il meccanismo di “non fare rumore che sennò ti sentono” è infallibile, crea tensione e lavora bene. Certo, non c’è John Krasinski alla regia, che aveva dimostrato un controllo, un’inventiva e una voglia di fare cinema pazzeschi, ma Sarnoski (Pig) si difende. E c’è Lupita Nyong’o che ha deciso di trasformare questa parte in un ruolo da Oscar. Però ecco, questa è la storia di una persona che, vista la sua malattia, visto che sa che morirà, decide di arrendersi all’invasione e sopravvivere fino alla pizza. Ha senso per lei, ma meno per l’idea classica di cinema catastrofico. La sorpresa (come già detto) è che poi A Quiet Place: Giorno 1 è venuto abbastanza bene, ma siamo sempre più di fronte a una serie in cui i personaggi raccontati sono quelli che fanno il minimo storico per respingere gli alieni.
Succede quindi che, invece di avere un intreccio che favorisce l’azione, ce n’è uno che dovrebbe osteggiarla. Cioè, è chiaro che se voglio combattere la minaccia, ci saranno diverse scene d’azione; se invece sto fuggendo dalla minaccia, mi arrendo alla sua presenza e voglio solo evitarla, in teoria le scene di tensione e d’azione saranno il meno possibile. Anche per questo viene inserito nel film il personaggio più scemo, ma anche il più funzionale: il gatto. Con il gatto e l’assurdo attaccamento dei protagonisti a questo animale che non si cura degli alieni (ma almeno è silenzioso), diverse scene d’azione hanno un senso e possono esistere. Ma è un pretesto abbastanza evidente e ben poco celato.
Succede così che stavolta ci siano una serie di scene di tensione, ben congegnate e ben realizzate, svuotate di un senso, di un fine e parallele alle finalità dei personaggi. E poi ci sono scene in cui i personaggi portano avanti il punto del film (assaporare i momenti, vivere intensamente i ricordi e i piaceri). La sensazione è di stare a guardare un gran bel primo film, uno di quei film fatti per mostrare le potenzialità di un regista, che hanno una trama pretestuosa, che si tengono in piedi un po’ con debolezza ma tanto il loro fine è dimostrare qualcosa. Ed ecco, A Quiet Place: Giorno 1 dimostra tutto quello che già avevano dimostrato gli altri due quanto a tensione, uso del silenzio e via dicendo: lo ribadisce, e lo rimette in scena in un’altra avventura con altri personaggi inutilissimi.
Dvd-quote suggerita:
“Ottimo per amanti dei gatti e della pizza”
Jackie Lang, i400calci.com
Quel cazzo di chiodo nella scala (piantato all’insu’!!! e di cui mai nessuno si e’ accorto!!!) nel primo film per me e’ un’ossessione. Per quato mi riguarda rimane l’emblema della sgrammaticatura del cinema moderno, tanto di chi “scrive” che di chi “legge”. Perche’ costruendo scene di suspence totalmente gratuite, dove cause ed effetti sono totalmente irrilevanti, ma spogliandole dall’eleganza distaccata di un Hitchcock o del ghigno cinico di un De Palma, si passa dall’affabulazione narrativa allo spettacolo da circo.
Hitchcock & co la sospensione dell’incredulita’ la creavano, i Krasinski (o anche i Shyamalan) la chiedono urlando al pubblico “adesso vale tutto!”. Come i bambini nei cortletti quando il gioco si e’ incartato e tutti si annoiano.
Comunque, venendo a questo prequel, non me ne fotteva niente, ma l’idea di base (il personaggio indifferente alla catastrofe) e’ tanto stramba quando potenzialmente interessante. Quindi contro ogni mia previsione credo che prima o poi lo vedro’.
non voglio gettare all’aria la tua invettiva ma se mi ricordo bene il chiodo finisce con la punta all’insù perché poco prima si impiglia qualcosa.
La storia del chiodo l’ho scoperta qui, visto che la voglia di vedere il film, che potenzialmente mi intrigava molto, mi è passata già tutta vedendo la scena iniziale. Come ha scritto tommaso, la sospensione dell’incredulità te la concedo se mi dai qualcosa in cambio. E una famiglia di imbecilli che lascia il bambino ultimo della fila doveva venire sterminata tutta in quella scena. Poi il film doveva cominciare seguendo qualcuno più sveglio. Invece continua con quelli, quindi saluti e buon pro.
ma qua ci sono i dietologi di Godzilla…
comunque film di cui non si sentiva il bisogno dato che già il secondo era moscio e dimenticabile..
il primo al netto dei puntalcazzisti era più che guardabile.
Per sfizio mi sono rivisto la scena iniziale, e così mi sono ricordato l’altra cosa per cui gli ho dato zero credito: predatori che fanno affidamento sul suono ma solo se è sufficientemente forte per le necessità di sceneggiatura. Roba nemmeno da Asylum, proprio da asilo.
Ok, ammetto che non ricordavo il particolare, ma non ha comunque senso che ci sia un chiodo piantato in quel modo in una scala e che, in una realta’ di quel tipo, nessuno ci avesse mai fatto caso. Volendo si puo’ sostutire il chiodo col bambino piccolo lasciato in fondo alla fila all’inizio e il dicorso non cambia. E’ sempre un buttar li’ la causa piu’ stronza e indifferente perche’ quel che conta e’ solo l’effetto.
Il secondo film mi pare giocasse meno sporco su quel piano e mi era sembrato migliore.
Pardon, doveva essere una risposta a Cristofaro Columbu qui sopra.
PS le verifiche per postare stanno diventando un piccolo incubo
Ma il chiodo era piantato in una scala di legno come in miliardi di scale di legno. Il bambino viene lasciato per ultimo perché è il più lento, come miliardi di bambini che restano indietro.
Io capisco se il film non ti è piaciuto, ci sta tutta, ma il tema è proprio che qualunque dettaglio banale della vita banale di tutti i giorni diventa mortale in un contesto di sopravvivenza. Non è un’incoerenza, è proprio il film
Cristofaro, guarda che io sto dicendo che la totale gratuita’ di quel chiodo e’ assolutamente voluta e sbandierata dal film. Sono convinto che chi ha scritto quella scena abbia giocato proprio al riancio per renderla piu’ illogica possibile: “Siori e siore, attenzione! Ora entra in scena un chiodo! Piantato all’insu’! Nella pedata di uno scalino! Per diversi centimetri! Senza che nessuno ci abbia mai fatto caso! Cosa accadra’ mai?!”. E’ proprio un passaggio di sceneggiatura voluto e sottolineato, una strizzatona d’occhio “postmoderna” degli autori allo spettatore: “il chiodo di Krasinski” come “la pistola di Cechov” e “i McGuffin di Hitchcock”. E in effetti i film di pura suspence degli Hitchcock e dei De Palma sono stracolmi di particolari simili. Ma loro creavano un contesto cinematografco per renderli coerenti (e non sempre De Palma c’e’ riuscito). Qui, come dicevo, bisogna accettarli perche’ “vale tutto”.
Sulla questione del bambino, perdonami ma un film (e in particolare un film come quello) non deve essere realistico, ma deve essere coerente con se stesso. Non puoi iniziare un film presentando una famiglia di survivalisti, gia’ pienamente dentro la logica di una sopravvivenza perennamente al limite, gia’ pieni di trucchi ed escamotage, il tutto immerso in una realta’ annichilente… e poi la prima cosa che ti inventi per creare la “scena del trauma” e’ mostraceli che lasciano a chiudere la fila un bambino piccolo (che nella scena precedente ci e’ stato PROPRIO introdotto come incosapevole del pericolo)? Minchia, un bambino piccolo lo tieni sempre d’occhio anche solo se passeggiado sul marciapiedi c’e’ piu’ traffico del solito, altro che mostri assassini dietro ad ogni angolo.
E proprio perché il bambino è quello che rimane indietro, non lo lasci mai indietro. Da sempre, quando si cammina in gruppo, la regola è che il più lento dà il ritmo. Se per di più è quello con meno esperienza, lo tieni per forza a vista continua.
Per favore, quel minimo. Ma proprio il minimo.
mi sono quasi addormentato solo leggendo la recensione (e non certo a causa della prosa…)
contento di non averci speso 13.50€ lo scorso weekend.
a lato: l’ultima puntata di “Like Stories of Old” elabora sul fatto che il cinema odierno sembra sempre meno personale ed interessante (anche) a causa di un’ossessione per la “relatability” come strumento di marketing estremo: “se lo spettatore si identifica, viene a vederlo, altrimenti sceglie altro”
in quell’ottica, una protagonista 1) rassegnata 2) gattara 3) senza spinta/motivazioni/futuro e 4) “basta che mi lasciate in pace, voglio solo della pizza” potrebbe essere la “relatability machine” definitiva
(però cheppalle)
Discorso interessante questo dell’eroismo difensivista. Tirando fuori un attimo gli occhialetti e la pipa in radica, mi vengono in mente due spunti:
1) il collasso della Pax Americana; gli americani si sono un po’ rotti il cazzo di fare il gendarme del mondo e vogliono ritirarsi a vita privata instaurando entro i confini di casa loro le prove generali di una spumeggiante dittatura fascista. La soluzione? Nessuna, il nemico è interno ed è potenziato da algoritmi inscrutabili a cui non puoi solo sparare prima di lanciare un beffardo one-liner, e da qui la morte dell’eroe action hollywoodiano classico, che al limite può usare le sue doti survivaliste per tirare a campare.
2) La crisi climatica. Discorso tutto sommato simile al punto uno; un problemone amorfo, inumano, e imbattibile. I millennial avevano quasi creduto agli anni ’90 e alle loro promesse di futuro radiose e con i problemi concentrati al massimo solo nel cyberspazio, invece il disastro è arrivato ed è qui per mangiarci la fazza. La soluzione? Nessuna, abbiamo perso, tanto vale andare a prendere una pizza, concentrarsi sul proprio gatto, e se proprio vogliamo continuare la specie umana, farlo in punta di piedi senza disturbare.
3) La Gen Z è fatta di bestie ignave, drogate di protagonismo e di narcisismo costante.
Come scriveva qualcuno più su, per vendere a questi golem basta la relatabilty. Tanto, la soglia dell’attenzione finisce dopo trenta secondi.
Prima o poi qualcuno riuscirà a fare la genialata: un film con scene “relatable” di trenta secondi, intervallate da rumore bianco. Poi, all’uscita, si chiede agli spettatori cosa hanno visto.
Per me otto su dieci reagiscono con “è proprio quello che avrei fatto io, cioè bella roba”
Non se ne può più di questi “socialisti, miscredenti non binari”.
(Cit.)
Un gadget della Vought a chi indovina.
Ma te sei lo stesso che ce l’aveva a morte con i millennial o sei un altro ancora? No perché vorrei collezionare tutti i rompiballe con idee ridicole che girano sul sito
“Ottimo per amanti dei gatti e della pizza”
Peccato non ci sia di nuovo Emily Blunt, altrimenti sarebbe il pacchetto perfetto.