Prima gli amici statunitensi del cinema ci hanno insegnato come si fa a sognare: ci hanno detto che se ci crediamo abbastanza siamo tutti portati a fare grandi cose; che in ognuno di noi c’è un piccolo americano pronto a spiccare il volo verso il proprio destino come un’aquila testabianca telecomandata da Elon Musk. Forza, sogniamo tutti insieme. Nessun sogno è troppo distante da non poter essere raggiunto e afferrato con forza e contro la sua volontà, insistevano gli americani. Hai la sindrome delle caviglie di vetro e le mani di ricotta però il tuo sogno è quello di diventare un campione di pallacanestro? Anche i grattacieli sono fatti di vetro e contengono ricotta in qualche frigorifero al loro interno, eppure guarda le altezze che raggiungono pur di avvicinarsi il più possibile a Gesù. Vai cuordileone, provaci. Hai una passione magari creativa – tipo essere riconosciuto come il nuovo messia del progressive rock – in cui credi talmente tanto da non riuscire ad accettare il fatto che non ti riesce proprio o che non è assolutamente il caso visto che siamo nel 2024?
Ebbene, sappi che nessuno ha il diritto di sbatterti in faccia che fai schifo o che sei matto o, eventualmente, entrambe. Quella è una roba da bulli maleducati prepotenti screanzati, e al massimo te la puoi dire da solo. Ma il più delle volte, invece di prenderti da parte e farti il discorsetto complicato, la gente che ti sta attorno preferisce evitare il confronto e fomentare il sogno perché la buona educazione, il sostanziale menefreghismo e gli USA ci hanno insegnato così. E adesso che c’è una generazione e mezza di scappati di casa cresciuti con ambizioni e aspettative irrealizzabili e frustrate, gli Stati Uniti sono pronti a cristallizzare in topos cinematografico anche questo post-post-sogno americano, popolato di tante persone conciate in maniera miserabile a cui nessuno ha mai detto un sonoro e tempestivo “datti all’ippica”. E a un certo punto, dopo tutto quel tempo passato a dire che è colpa degli altri se non ce la fanno, alla fine per i sognatori sul lato sfigato della curva si è fatto troppo tardi, la spirale ha cominciato la sua inesorabile discesa, la vita ha iniziato a esigere il conto di tutte le volte che si è evitato di guardare in faccia la realtà e i fucili automatici adesso si comprano anche al supermercato: fare una strage non è mai stato così semplice.
Destroy All Neighbors è un adorabile splatter che sperava di essere un po’ più divertente e cool di quello che effettivamente è, ma che in assoluto se la cava discretamente bene. Soprattutto, è un’agile commedia horror pensata per lo streaming che non accampa alcuna pretesa; una di quelle che se rimane da sola in ascensore con un collega elevated, per principio si sforza tantissimo di emettere un peto fragoroso e, si spera, anche puzzolente. Nonostante tutto, però, è un film che grazie a un minimo sindacale di sale in zucca ha l’accortezza di andare a puntare su alcuni nervi scoperti della generazione di disagiati fra i 30 e i 45 anni a cui si rivolge come tematiche e stile – volendo citare un papabile nume titolare, butterei nella mischia il solito Sam Raimi. Una generazione di spompati ben rappresentata dal protagonista assoluto, William Brown, ingegnere del suono sottopagato e frustratissimo, che vive con la fidanzata Emily sul pianerottolo più sozzo di un condominio fatiscente e male in arnese. È pur vero che nella vita William è lievemente iellato, ma ha anche una soglia del fastidio piuttosto bassa e mal sopporta tutto ciò che lo circonda, sfruttando ogni dettaglio sfavorevole del proprio contesto come scusa per procrastinare la conclusione del progetto più importante e irraggiungibile della sua vita: l’opus magnum del progressive rock, ovvero l’album definitivo che sarà intitolato Epitaph for the Fallen Circus e porterà il genere a livello platinum.
In realtà William è terrorizzato all’idea di mettersi in gioco sul serio e non solo per finta; è paralizzato dalla paura di non essere apprezzato, trincerandosi dietro la complessità del prog, ovvero il genere che più è fatto alla perfezione e più è inascoltabile e viene apprezzato dal minor numero di persone; e si difende nascondendosi dietro una facciata passivo-aggressiva che vuole evitare a tutti i costi il confronto, ma in realtà peggiora solo la situazione. Potrebbe serenamente andare avanti così tutta la vita – finché il reflusso non gli lascerà un buco nell’addome da parte a parte come un Alien diretto da Noah Baumbach – ma non ha fatto i conti con il nuovo vicino di appartamento Vlad, generico est-europeo di mezza età che sembra uscito dalla versione sovietica de Gli Sporcelli e ascolta musica tunz-tunz a tutto volume a ogni ora del giorno e della notte, impedendo a William di concentrarsi abbastanza da riuscire a creare la magia del prog.
Vlad, però, fa anche una cosa che nessuno aveva mai fatto: costringe William a non fuggire dal confronto. Va talmente bene, questa cosa di confrontarsi con chi ha passato la vita a evitarlo come la peste, che a un certo punto del diverbio Vlad scivola e finisce impalato su un tubo di ferro. Fin qui niente di male, più o meno. Il problema vero sorge quando William si rende conto che il vicino di casa non ne vuole sapere di morire, persino dopo essere stato decapitato e smembrato. Il re incompreso del prog ora ha un nuovo amico che lo segue ovunque pezzo per pezzo, un satanasso personale che lo assiste e gli dà la spintarella giusta anche per i successivi omicidi ambiguamente colposi, che si risolvono tutti in un nuovo non morto per amico. Ora che William ha una band al completo, tanto vale cogliere l’occasione per finire di registrare il più grande capolavoro che la storia del prog ricordi, il pezzo che completa l’album e che riesce a mettere nella stessa canzone un gong, un basso leggendario, una chitarra a tre manici, un flauto traverso (ovvio), uno yodel con teste mozzate, un mantello, il teschio di uno sciacallo unicorno e un gigantesco demone polistrumentista.
Prog God Quote:
«Ricorda, prima di suonarlo sul basso devi mimarlo con la voce. Budubaskibidibapbapbapbapbap»
“Swig” Anderson, bassista dei Dawn Dimension e autore della popolare serie di tutorial prog Rockin’ in the Fifth Dimension.
Ho il sospetto che questa bella recensione (di cui non si capisce un cazzo) sia meglio del film.
ormai non sono più recensioni, ma puri e semplici sproloqui dettati da temporanei umori e livelli alcolici
1) Si sappia che io a novembre andrò finalmente al concerto di Steve Hackett che fa il repertorio dei Genesis “”VERI”” (cioè pre 1976). Oh, di nicchia di nicchia ma intanto erano anni che ci provavo ogni volta che arrivava in Italia e i biglietti erano sempre esauriti. Prevedo una proporzione maschi-femmine di 95-5, un’età media sui 67 e l’avvistamento di almeno una t-shirt che sfotte la trap. Comunque, l’importante è che ascolterò Supper’s Ready dal vivo ahah!
2) La caption in russo mi ha fatto ridere, la somiglianza in effetti c’è.
Preparati, che Steve Hackett dal vivo con la sua band è TANTISSIMA ROBA 😎
Invidia abbestia per Hackett!
Sulla proporzione maschi / femmine sono d’accordo, sull’età no dai, io ne ho 43 e nella mia annata di fan dei Genesis, Jethro Tull, King Crimson ecc ecc ce n’erano tanti…
Chi è Gianluca? :D
“… la FUSIONnnnn…. ÉÉÉÉÉÉ COMPLICATAHHHhhh” (cit.)
Per me vendutissimo!
Comunque buffo che sia il secondo film consecutivo che “parla di musica”… vi siete messi d’accordo per una verticale sull’argomento?