Per una volta voglio cominciare scrivendo una di quelle robe da sito generalista che hanno poco senso e mi danno anche un po’ fastidio perché sembrano fatte apposta per creare una divisione tra i potenziali spettatori, ma tant’è: All You Need is Death non è un film per tutti (in realtà non è un film per nessuno ma per qualcuna sì, poi ve la spiego). Capito perché mi dà fastidio? Io ne parlerò bene perché mi è piaciuto molto, e se a voi dovesse fare schifo potrebbe sembrare che il mio discorso volesse nascondere una certa aria di superiorità, tipo “ah ma se non lo capite è perché non siete all’altezza”. No! È che è proprio un film… strano?
Uff, un’altra banalità. “Strano” nel senso di destrutturato e allucinato, con una spina dorsale molliccia diciamo, un film che si spiega quasi solo per immagini che a loro volta sono volutamente oniriche, stranianti, psichedeliche, suggestive. È un folk horror, forse il più folk horror di tutti i folk horror di questi ultimi dieci e qualcosa anni nei quali sembra che il genere sia tornato in qualche inspiegabile modo di moda. Non un folk horror da consumo di massa, di quelli che “eccoti una foresta, eccoti un villaggio, eccoti un’antica tradizione, eccoti l’anziano che ti spiega le leggende locali sul terribile demone sculacciabuchi”; non una di quelle storie di gente moderna che va a infilarsi in un’antichità cristallizzata e ne esce con un tremendo caso di morbo della morte.
Al contrario, è un film (quasi) tutto ambientato in non-luoghi contemporanei, periferie misteriose, edifici abbandonati, e qui e là qualche pub per motivi che tra poco andrò a spiegarvi. È una storia che parla di tradizione ma anche dell’importanza in certi casi di dimenticarsela e lasciarla nel passato, perché se riesce a invadere il presente sono cazzi bodyhorror per tutte le persone coinvolte. Una faccenda di segreti sepolti nei villaggi dell’Ulster e a buon diritto, che parla anche, obliquamente, di appropriazione culturale e di come il consumo di massa possa pervertire il folklore con conseguenze inimmaginabili. Lo dice esplicitamente un personaggio che poverino ha uno screentime limitato per motivi che scoprirete se lo guarderete: la protagonista gli spiega che “non abbiamo intenti politici” e lui risponde che “non esiste nulla che non sia politico”.
Per cui è anche una storia di donne e di uomini e del posto che ambedue hanno nella società, o avevano, insomma una storia di radici e di gente che le strappa dal terreno per venderle al miglior offerente. E vi sto dicendo quello che ho intuito io, eh, perché come dicevo prima, non voglio farne un discorso di “capire o meno il film”: sono il primo che ha finito la visione pensando “che cosa cazzo ho appena visto?”. All You Need is Death è un film di antropologia culturale, una roba che mi ha fatto venire voglia di conoscere cose che non conosco, che mi ha – magari non respinto, ma sicuramente lasciato con la sensazione di averne sfiorato solo la superficie, o poco più sotto. D’altra parte è il primo film di Paul Duane, un tizio che finora ha dedicato la sua carriera a girare documentari su oscure composizioni folk da ogni parte d’Europa: vederlo mi ha fatto venire voglia di recuperare il suo While You Live, Shine, che parla di un musicologo che vaga per i villaggi sperduti della Grecia rurale in cerca di una canzone d’amore vecchia di millenni e che si dice che solo alcuni grandi antichi del posto ancora ricordino.
È anche un film scritto, diretto e montato dallo stesso Duane con un budget che credo copra a malapena l’abbonamento alle partite casalinghe del Cork City F.C., e come tale ha tutti i difetti e i limiti che potete immaginarvi, oltre a qualche scelta creativa per me inspiegabile ed evitabile (tipo quella di dare a uno dei due protagonisti, che di cognome nella vita fa “Maher”, un improbabile accento russo). Ma anche chissenefrega: mi è entrato sottopelle e mi ha messo un’inquietudine che raramente ritrovo negli horror contemporanei, per cui eccovi la SIGLA!
Anna e Aleks, che come dicevo ha un improbabile accento russo, hanno un hobby particolare. Lei è una cantante folk, lui il suo fidanzato, ma entrambi si divertono, nelle notti senza luna ma con tanta birra, ad andare nei pub più sperduti dell’Irlanda ad ascoltare vecchie canzoni tradizionali – e a registrarle per poi rivenderle al miglior offerente. Sono serio: All You Need is Death si immagina l’esistenza di un circuito sotterraneo di amanti della musica folk e di collezionisti di vecchie ballate, che si ritrovano di notte in parcheggi male illuminati per scambiarsi nastri in cambio di soldi. C’è proprio un’intera società segreta dedita a questa caccia alla bella canzone di una volta, capitanata da una tizia che non ce la racconta giusta che si chiama Agnes.
Una sera, Anna e Aleks vanno ad ascoltare il fratello di Brendan Gleeson che si esibisce in un pub sopra l’insegna del quale campeggia il cartello GUINNESS AS USUAL. Poi vanno a casa di un anziano che canta loro un’altra canzone andata quasi perduta nelle nebbie del tempo, e che soprattutto regala loro un’informazione affascinante: c’è una signora molto vecchia e sempre molto sbronza che, si dice, custodisce un’antica ballata cantata in una lingua che predata l’invenzione della scrittura, e che non è mai stata trascritta o tradotta. L’occasione è ghiotta per i nostri due cacciatori di roba folkeggiante, anche perché la cantante in questione è la straordinaria Olwen Fouéré.
A casa della signora Rita, Anna e Aleks scoprono che lo storico pezzone non è una canzone normale: per esempio, nessun maschio l’ha mai potuta ascoltare. Viene tramandata di madre in figlia da innumerevoli generazioni, con la promessa appunto di non trascriverla mai, di non trasformarla mai in qualcosa di ascoltabile da chiunque abbia un mangiacassette (da questo dettaglio dovreste capire che All You Need is Death non è ambientato nel 2024: a un certo punto un personaggio va addirittura in una biblioteca pubblica a prendere un libro di carta). Puzza molto di maledizione, insomma, e non serve aver visto tutti gli horror del mondo per immaginare che Anna diventerà la nuova custode del sonetto, e che la perfida Agnes si metterà in mezzo rompendo la promessa fatta a Rita e trascrivendo il pezzo.
Dove però uno dei tanti horror del mondo si sarebbe giocato questo presupposto nel modo più lineare possibile (tipo: Anna torna a casa, comincia a vedere cose, viene perseguitata da un demone, et cetera), All You Need is Death prende da subito direzioni inaspettate, e continua a vagare nei meandri delle sue stesse visioni fino a una risoluzione che è tanto allucinata quanto comprensibile ripensando a quanto il film ha detto fino a quel momento. C’è chi ha tirato in ballo Lynch (David) nel descriverlo e sì, la grammatica spesso è quella, ma in un contesto completamente diverso e assolutamente non americano; non c’è nulla di oltreoceanico in All You Need is Death, che anzi a tratti è talmente irlandese da risultare quasi respingente.
Il vero Lynch di cui bisogna parlare è semmai Ian, leader dei Lankum che qui è autore della colonna sonora, un mix di pezzi folk, droni, chitarroni lenti e metallari e synth d’atmosfera che da sola fa il 70% del film. Non molla mai, ed è usata tanto per sottolineare i dialoghi quanto per riempire i silenzi; ma raramente è sbattuta in primo piano, e restandosene sullo sfondo contribuisce con discrezione ad accrescere l’inquietudine. Non so quale sia il vostro rapporto con la musica folk, che immagino sia decisivo per l’apprezzamento completo o meno di All You Need is Death; io non ci capisco nulla, ma mi fa quell’effetto lì di toccare delle corde, per cui al netto di tutto, di certe scene troppo buie (non saprei dire se per questioni di budget o di scelta artistica), di certi momenti in cui proprio non capisci che direzione stia prendendo il film, delle succitate scelte un po’ bizzarre, io sono rimasto paralizzato per un’ora e mezza – vorrei dire tremante ma ci sono 35 gradi all’ombra.
Direte “sì ma finora non abbiamo capito di cosa parla questo film, QUAL È LA TRAMA?”. Il punto è che se mi mettessi a raccontarvi cosa succede finirei per dirvi tutto, perché All You Need is Death è un film con pochissima roba in senso narrativo e che fa densità a botte di suggestioni e pensieri obliqui. Vi farà pensare alla musica, al potere delle parole cantate, al passato, alle leggende, a come la tradizione possa sfumare nella modernità e a quale sia il legame tra quest’ultimo concetto e l’alcolismo; persino all’amore, non quello romantico però, per cui tranquillizzatevi. Oppure vi farà esclamare “non ho capito nulla, che merda, perché ho sprecato il mio tempo?”, eh: non voglio illudervi o giurarvi sugli spiriti dei miei antenati che sicuramente vi piacerà. Spero di aver scritto abbastanza parole da avervi fatto capire se per lo meno ci sia la possibilità che possa piacervi: in quel caso procuratevelo in qualche modo, magari registrandolo di nascosto durante una serata al pub.
Quote che non si può trascrivere
[non si può trascrivere]
Folk Horror + Lankum + Olwen Fouere = vendutissimo. Lo devo recuperare subito. Grande Stanlio che hai scritto uno dei pezzi più belli dei 400calci da un sacco di tempo a questa parte. (Anche se la combo antropologia + folk horror + femmine mi fa pensare che sarebbe stato adatto a Renee Zuulwegger, non scrive più per voi?)
È bellissimo che te ne ricordi ma per noi ha letteralmente soltanto condotto un’intervista
Uno di quei (qui non) rari i casi in cui mi guarderei il film anche solo per gustarmi meglio la recensione
È una di quelle canzoni che vorresti registrare ma che ,una volta finita , non registrerai per paura che possa portare realmente rogna.E nomini dio nella salsa che preferisci.
1) La sigla che Stanlio non ha avuto il coraggio di embeddare
https://www.youtube.com/watch?v=9kpmanRcNOA
2) Mi aggancio al titolo per dire che:
a) Da quando ascoltai Craccracriccrecr “è andato tutto a capinere” è rimasto un mio personale modo di dire.
b) L’altra sera io c’ero al Sequoie a Bologna, il complessino è forse ormai un po’ bollito ma urlare “Forza panino!” sotto il palco ci ha sempre il suo bel perché.
Pensa, io li ho visti mercoledì scorso (per la centesima volta forse) e ho pensato che cazzarola, più invecchiano e più migliorano. È un peccato che non scrivano più nuova roba.
Ognuno le vuole amar
Che figo che sembra.
Team #filmstranieinquietanti
A metà recensione ho pensato che ci sarebbe stata bene la musica dei Lankum come colonna sonora…
Venduto!