Partiamo con il confessare una faccenda che, volenti o nolenti, cambia le carte in tavola come quello scemo del tuo socio che a scopone proprio non ci sa giocare e continua a lasciare giù sei e ori come se fossero gratis, ‘sto asino: ho visto questo film e ne ho redatto la recensione con una temperatura corporea che si aggirava attorno ai 38.1° gradi centigradi, al netto di un sostanziale importo in milligrammi di paracetamolo per abbassare la febbra, di un tempestivo ciclo di antibiotici per contrastare la tonsillite che ha provocato tutta la rottura di coglioni e di sciroppi e spray vari ed eventuali alla ricerca di un’ombra di codeina per le matte risate. L’ultima volta che ho avuto così tanto supporto chimico in corpo è successa un sacco di anni fa, quando studiavo a Padova quando sono stato operato e improvvisamente la morfina non sembrava più un’idea così brutta e “socialmente sconveniente, nonché disapprovata da Gesù”, vero mamma?
Sicuro, però, che la chimica e l’influenza cambiano le percezioni, dilatano e restringono i tempi a piacimento, schiccherano il fomento e titillano il nervoso. Per questo e per tanti altri motivi vorrei dire a Xavier Gens che anche se è francese gli voglio davvero bene, perché ha fatto 40 minuti di film che mi hanno scioccato ed esaltato come poche cose quest’anno (e anche l’anno scorso) nel cinema di menare; poi, però, vorrei anche dirgli che quasi tutti i 55 minuti di film che precedono l’estasi mi hanno fatto sanguinare gli occhi e le orecchie rischiando di dare il colpo di grazia a delle mucose orali già di per sé in grossa difficoltà. Forse sono reazioni esagerate dalla chimica, magari la verità sta nel mezzo, sicuramente è colpa delle tonsille. Sigla!
Se la colpa è di certo del gargarozzo e dei difetti di costituzione del generoso Gens – anche il successivo Under Paris è scostante e palloso quando non ammazza male la gente – i meriti se li prendono in parte i pregi di costituzione del generoso Gens, che gode come un riccio appena nato a martoriare i corpi dei suoi personaggi, e soprattutto i talenti dell’action designer Jude Poyer. Ah già. Perché Mayhem! è in realtà il generico titolo internazionale di Farang, quel film di picchiarsi forte sul muso che attendevamo con la bava alla bocca sin da quando il Gran Khan di Val Verde Nanni Cobretti ci aveva regalato un’intervista da antologia al suddetto Poyer; che qui, armato di un budget ridotto e della piena fiducia accordatagli dal patatone volenteroso Gens con la sua sanguinolenta sceneggiatura a imbuto, ha tirato fuori una sequela di scene di combattimento che l’unica espressione che puoi fare quando ti arriva a velocità sostenuta sul grugno e mica te l’aspettavi così – violenta, secca, trucida, coreografata con conseguenze iperrealistiche – è precisamente questa.
Nanni lo anticipava nell’intervista: la trama di Mayhem! è semplice e archetipica, di quelle che potresti inviare per telegramma a un amico – così, per fare qualcosa di diverso – senza svenarti. Samir ha fatto la galera per cazzate giovanili riguardanti robe di droga, in carcere impara a menare i guantoni e a tenersi lontano dai guai, ma una volta ottenuta la libertà vigilata gli ex soci criminosi da cui vorrebbe emanciparsi eccepiscono con discreta ignoranza. Sono talmente permalosi, questi spacciatori, che da un vaffanculo di passaggio si passa subito a un tentato omicidio, dal quale Samir si difende come può. Siccome egli dovrebbe rigare assolutamente dritto per sperare di tornare libero per davvero senza condizionali, e dal momento che ammazzare qualcuno (seppur per autodifesa) non è la faccenda più retta del mondo dal punto di vista di un giudice che già ti odia, meglio scappare lontano.
Cinque anni dopo, stacco su una vita di idillio fluviale in della Thailandia. Prima dell’alba Samir va a pescare, poi prepara la colazione a Dara, figlia della sua ragazza (incinta) Mia, quindi accompagna la prima a scuola e la seconda al lavoro, in seguito va a fare l’autista delle navette che portano i turisti dall’aeroporto in albergo, e la sera fa frullare i gomiti sui ring di provincia del muay thai, dove non disdegna di perdere apposta pur di guadagnare qualche baht in più. C’è un obiettivo finale da raggiungere, infatti, per giustificare tutta questa fatica e anche un po’ di umiliazione. Una speranza che aleggia nell’aere, direi quasi un sogno da realizzare: comprare un terreno sulla spiaggia insieme all’amata, costruirci sopra un ristorante e vivere la bella vita. È passata poco più di mezz’ora di film ed è già assolutamente chiaro che andrà tutto malissimo. Non c’è speranza. Gens ci ha messo anche la scena smarmellata al tramonto sulla spiaggia con tutta la famigliola che gioca sul bagnasciuga. Andrà. Tutto. Malissimo. Il problema che ho a questo punto, è che non ho ancora ben chiaro come andrà tutto malissimo. Finora ho visto un breve stunt (bel volo, molto bravo, tanto male), un incontro di muay thai messo in scena un po’ alla cazzo di cane (anche tenendo conto che si tratta di un match truccato) e un cattivo che è la versione francese di Bert Kreischer
Il tutto immerso in una narrazione farraginosa che si intestardisce fin troppo – me lo dicono forte le tonsille e anche la storia del budget striminzito che costringe a inventarsi qualcosa per sopperire a un minutaggio di azione ridotto – e insiste nel caricare malamente l’aspetto emotivo della storia girando a vuoto intorno a banalità estenuanti, che sarebbero sicuramente più accettabili se non fossero costrette a sottostare a un livello di scrittura a tratti sconcertante.
Forse è il virus, ma un po’ l’ho percepito che, durante tutta questa costruzione tassativa e pedestre di personaggi e situazioni, allo Xavier stessero prudendo le mani. Penso sia consapevole anche lui che quella roba qui non è propriamente la sua tazza di cervogia. Poi, però, parte finalmente la violenza plastica sui corpi. E quando parte la violenza plastica sui corpi, a Gens – raro caso di persona con cui berrei volentieri un tachifludec caldo ascoltandolo mentre elenca la classifica dei suoi dieci omicidi creativi preferiti, convinto al 98% di non avere di fronte un serial killer – si illuminano immediatamente gli occhi. Gli vengono proprio le stelline, l’umor vitreo risplende come rugiada all’alba e le pupille si dilatano dopo un rilascio esagerato di dopamina. Inizia un altro film, in cui la shaky camera inutile alla Greengrass viene sostituita dal netto rigore coreografato che Gens ha imparato da Gareth Evans sui set di Gangs of London. Adesso ci si può divertire.
L’atto finale del viaggio dell’eroe tragico Samir, dopo due cicli di caduta e resurrezione, è la vendetta, tremenda vendetta per salvare la figliastra dalle grinfie di cattivoni fuori scala ma mica troppo bravi a tenere nascoste le loro attività illecite. Samir – che dopo essersi andato a nascondere in Thailandia ha assunto l’identità segreta di Sam, e noi qua a chiederci perché non abbia scelto la carriera di agente segreto – molla gli ormeggi e le remore, sceglie la via del sangue, attraversa l’obbligatorio corridoio in quota “film di menare ambientati in Asia”, si prende dei gran punti bonus per una mattanza in ascensore (se non ci siete stati prima, tornate ora all’intervista di Nanni) che non sta né in cielo né in Terra, e ha ancora l’inerzia per inanellare un’ultima morte truculenta e inaspettata, prima di planare verso l’unico finale consolatorio possibile, coerentemente con i toni della prima parte del film. Ma vale la pena sorbirsi cinquanta minuti di menate un tanto al chilo per contestualizzare mezz’oretta abbondante di menare a tratti davvero sorprendente – del tipo che ti fa dire OHMIODDIO MA QUESTA COSA SI PUÒ DAVVERO FARE? Soppesando la faccenda con i limiti della produzione, con i difetti di costituzione del generoso Gens, con il bias cognitivo dell’effetto recency e con la pistonata di farmaci che ho in corpo, direi assolutamente di sì. Sorbite, godete e poi ci troviamo tutti insieme a discutere altri utilizzi creativi delle fratture scomposte a radio e ulna.
Infinty Selection Prime Video Channel Serbelloni Mazzanti Vien dal Mare quote:
“L’attesa della violenza è essa stessa la violenza”
Toshiro Gifuni, i400calci.com
Toshì te prego, codeinati più spesso che quando scrivi così mandi in sollucchero.
Recensione molto bella.
Prima o poi (forse) guarderò anche il film, se mai mi riprendero’ da quella MERDA di Rebel Ridge.
Mi avete davvero ferito, ragazzi.
Tocca rivedere i parametri del nostro rapporto.
Dobbiamo parlare.
Ho bisogno di una pausa di riflessione.
Sono io, non voi, eh.
non posso che essere d’accordo.
but sometimes even monkeys
fall down from the trees.
Minchia pure io sono rimasto scottatto da quanto é brutto Rebel Ridge, mi sono fidato dei “calci”, e ne ho preso uno in culo bello forte
Visto quando ancora lo chiamavamo Farang. Mi è piaciuto perché c’è del woke in come le donne muoiano malissimo esattamente quanto i maschietti (la foto che hai messo e la tipa in ascensore). Di solito la donna la mettono “a la intermediate boss level” (Raid 2, The night come for us, Boss Level (appunto), ecc.), qui ce ne sono parecchie tra le fila degli scagnozzi e per loro nessuna somministrazione delicata del morbo della morte.
Ma soprattutto, da 1 a 10, quanto gode esattamente un riccio appena nato?
il film, al momento in cui scrivo, sta su Mediaset Infinity o come si chiama :)