Dopo La notte su di noi, la gente con l’entusiasmo ben riposto nel cinema giusto si era sentita legittimata a incubare una di quelle speranze così ingenue che alla fine sono buone solo a confermare che la realtà è un posto difficile e in grado di essere assai malevolo. Il sogno era che Timo Tjahjanto avesse trovato la quadra del suo birignao sadico/action e si stesse per digievolvere in una specie di reincarnazione gore di John Woo nata da una ciste sotto l’ascella di Gareth Evans. Un’immagine ricca di romanticismo e, se siete appassionati di mascalagnia, volendo c’è anche della tensione sessuale. Timo, però, ha proseguito il suo rapporto a botte di paperdollari con Netflix sfornando una cacata fumante di rara insipienza (The Big 4), ennesima conferma che tentare la strada della commedia con tracotanza ha la stessa probabilità di successo che invadere via terra la Russia.
La lezione è duplice: la roba che ti frega, nella vita, sono le aspettative; e il mondo è un posto davvero complicato. Non puoi ridurre un regista a una semplice etichetta tipo “John Woo, però horror, però indonesiano”, ché poi ti fa The Big 4 e tu giustamente ti deprimi, molli tutto e ricominci con l’eroina e con le commedie romantiche. Bisogna accettare senza paura la complessità e ammettere che il destino di Timo, in realtà, è sempre stato quello di diventare John Woo (dopo una botta forte in testa), però horror, però indonesiano, però senza un’idea originale di sceneggiatura che sia una perché proprio non ce la si fa e comunque le risorse cognitive sono tutte concentrate su come inventarsi modi inediti e spettacolari per ammazzare la gente. Enter The Shadow Strays, un film che è grosso e cattivo ma che è comunque un passo indietro rispetto a La notte su di noi. Sigla!
The Shadow Strays è stato presentato alla Midnight Madness del Toronto Film Festival, lo stesso ghetto arredato con gusto in cui si sono esibiti The Raid e Kill, è spopolato (con una singola eccellente eccezione – no spoiler) di tutte quelle belle persone di menare indonesiane con cui siamo diventati piccipucci negli ultimi tempi – perché oltretutto Timo è anche talent scout e ci tiene a farci conoscere nuovi amici –, e ha due difetti macroscopici. Uno: dura centoquarantaquattro minuti, che a volersi esprimere in maniera tecnicamente corretta sarebbero centoquarantaquattro cazzo di minuti del cazzo, del tipo che se ne potrebbero tagliare facilmente dieci solo togliendo metà delle inquadrature di raccordo inutili. Due: racconta una storia derivativa, che è un po’ il feticcio del Timo sceneggiatore e ce lo si fa andare bene perché molte volte, nel cinema più memorabile, il come annienta il cosa; ma che qui rompe discretamente le balle perché stavolta lo sforzo di originalità è davvero risicato, al di sotto del minimo sindacale. Però. Eppure. Chissà.
Dice, la didascalia all’inizio del film, che in un mondo crudele e spietato in cui Giacarta è fondamentalmente Gotham City, esiste un’organizzazione clandestina priva di ogni moralità i cui assassini prezzolati, conosciuti collettivamente come le Ombre, uccidono chiunque per il compenso adeguato. Gli invisibili vertici delle Ombre hanno investito buon tempo e danaro sonante per addestrare e formare nome in codice 13 e farla diventare la migliore assassina diciassettenne possibile. E questa qui non solo esita dopo aver ucciso per sbaglio un’innocente durante una missione, ma si mette pure a dire ad alta voce che non si sente solamente un numero. Ingrata. Ella esagera oltremodo e afferma pure di avere un nome, che però non riesce a ricordare perché è così che funziona il lavaggio del cervello. Non c’è spazio per l’umanità nel mondo dei killer professionisti, nemmeno se sei un’adolescente in pieno spleen con le mani cicciotte ma sbucciate a forza di rompere zigomi.
Dopo la missione Kill Bill dell’incipit – versione condensata della scena degli 88 folli con finale sulla neve + ninja + granata piena di chiodi – 13 torna a Giacarta e viene messa in time-out dall’organizzazione. Lei schiuma perché c’ha gli incubi sul trauma infantile che le hanno rimosso chimicamente e perché certe persone hanno proprio bisogno di lavorare sempre altrimenti sono costrette a pensare e pensare fa schifo. Addirittura, ella assiste a scene di umanità straziante e risponde a livello emotivo, interessandosi alla sorte del ragazzino tenero Monji che si prende cura della madre sbronza-fatta-disastrata, nonché ammazzata piuttosto in fretta dagli sgherri del brutto ceffo che l’aveva messa incinta. Lo sturm und drang di 13 comincia a essere più forte dei medicinali che dovrebbero sedare le sue emozioni, e invece di starsene buona ad aspettare ordini come da protocollo, va a caccia dei cattivi che stanno per fare cose brutte anche a Monji.
I cattivi sono tre amici d’infanzia che trattano Giacarta come fosse il loro parco giochi sadico personale. C’è quello che è particolarmente più drogato degli altri e gestisce i locali notturni e la compravendita di esseri umani; c’è quello segaiolo con le occhiaie che fa il poliziotto corrotto e molto viscido; e c’è quello figlio di cotanto papà (politico corrottissimo in piena campagna elettorale) che spaccia la droga, ha bisogno di una maschera da luchador sadomaso per ciulare e/o usare violenza, mette incinta le madri single tossiche e poi le fa uccidere. 13 va in spedizione punitiva kamikaze, e la bellezza, la follia, la cura nella messa in scena delle coreografie d’azione e l’inventiva delle punchline gore sono inversamente proporzionali al cacchio secco che quel che stiamo vedendo ci smuove. Però. Eppure. Chissà.
Non starò qui a far finta di disprezzare i films in cui un’azione sontuosa surclassa la narrativa. Ma mi pagano fior fior di sesterzi per osservare che Tjahjanto non sembra in grado di scrivere una sceneggiatura compiuta, nemmeno se deve essere solo (si fa per dire) funzionale all’azione. Detto questo, rimane luminosissimo che The Shadow Strays abbia più idee (coreo)grafiche e gore di tutti i corrispettivi di genere usciti nel 2024 messi insieme, e che da un certo momento in avanti l’accumulo di horror action diventi plasticamente esaltante. Ogni scena e ogni combattimento hanno il proprio quid cinematografico – da quella contro gli sbirri marci con le maschere buffe addosso, che utilizza la grammatica dell’horror pur restando nel lessico dell’action, a quella esageratamente esagerata nel magazzino che ha un che di Hard Boiled.
E Tjahjanto si sforza persino di regalarci dettagli preziosi – non dobbiamo solamente fidarci della didascalia per sapere che le Ombre sono super: durante le botte, capita che 13 venga inquadrata dalla finta soggettiva di chi la sta attaccando o sta aprendo il fuoco su di lei, come per mostrare in prima persona allo spettatore quant’è difficile beccare questo giovane scoiattolo mannaro sgusciante, probabilmente addestrata sin da bambina a farsi sparare addosso. Il pensiero è molto apprezzato, ma nonostante la bravura della protagonista – Aurora Ribero, attrice (di origini italiane!) prestata alle botte e non picchiatrice in vena di attorismo – ogni tanto la catena scende e la credibilità del personaggio principale vacilla: non è 13 a essere fortissima nel contesto della sospensione d’incredulità, è la sceneggiatura a proteggerla facendo urlare forte la gente che sta per spararle addosso consentendole di schivare, o facendo loro prendere il numerino come dal macellaio prima di precipitarsi ad attaccarla. E questo, spiace ripeterlo, succede perché nessuno a insegnato al buonissimo Timo Tjahjanto come cazzo si scriva una sceneggiatura. Dopo due ore di films, a me piacerebbe forte poter apprezzare il lungo combattimento finale – che è più urlato di un dramma da tinello, ma che terrorizza come gli déi dei calci comandano – non solo perché è un prodigio tecnico, fisico, registico, fotografico, coreografico e di montaggio, ma anche perché sotto è stata costruita un minimo di sostanza. Dai Timo, faccela. Anche perché le idee simpatiche non ti mancano mica, brutto ciondolone che non sei altro.
Istruzioni sulla cabina del telefono quote:
“Digitare 665# per il centralino, Digitare 666# per attivare il protocollo di emergenza”
Toshiro Gifuni, i400calci.com
Timo Tihajanto deve avere un feticcio per le attrici di origine italiana, ce n’era una anche tra le protagoniste di “The Big 4” (Dina, la poliziotta).
Detto questo vero tutto, e cmq il film è da vedere, nonostante la durata. Ma il problema sta nel fatto che nessuno gli dà una sceneggiatura interessante oppure è lui che in delirio di onnipotenza pensa di poter fare tutto da solo?
Visto il finale che allude a possibile sequel posso dire che ne voglio almeno altri 3/4?
Voglio una saga. Il John Wick indonesiano.
Le Ombre come la Tavola
“È spopolato” mi sa che è un errore, forse si intendeva scrivere “è popolato”.
Il link di “The Raid” rimanda al già messo video degli Articolo 31, e mi sa che non era quella l’intenzione.
Comunque piacevole lettura, molto mirata.
no, proprio nel senso che non ci sono (attori indonesiani di menare famosi), tranne uno
Un problema di sceneggiatura su Netflix? Dov’é il problema? L’ ho schivato l’ altra sera per la durata e mi sono fiondato su Sheroes, che dura un’ ora in meno ma sembra un’ ora in piú e credo sia il patata-power film peggiore di sempre. Ripeto: sempre. Questo me lo sparo a rate, mi hai convinto con gli ammazzamenti.
Per quale motivo Timo abbia fatto questo e non li spinoff sulla ammazza seven seas rimane un mistero per me. Filmetto comunque, non ci sono scene che riguarderei volentieri.
Ehm, ma dove l’avete vista questa violenza ben coreografata?
Mi sono arreso al (tremendo) remake degli 88 minions, che sparano/fendono/colpiscono al rallentatore con le due ombrine che fanno pure fatica a schivare…
E anche la scena sulla neve: il manto candido non la salva lo stesso.
Se poi volete premiare l’originalità degli ammazzamenti, ci può anche stare, ma che siano un minimo credibili!
Nel caso fosse riferito all’attualità, peccato per il riferimento provinciale e poco attento al mito nostalgico della Russia invincibile.