La Città murata di Kowloon, a Hong Kong, è stato un luogo affascinante e un glitch nella matrice probabilmente irripetibile; una città nella città con dentro 35mila cristiani non cristiani che abitavano uno sopra l’altro in un’area che in metri quadrati è pari a metà dello stabilimento delle cucine Lube a Treia, in provincia di Macerata. È un posto che è nato con i minuti contati e ha vissuto per decenni sperando che nessuno se ne accorgesse. Per questo è un eccellente simbolo crepuscolare e romantico a forma di matrioska. A me, infatti, viene in mente un altro posto unico al mondo e circondato da una realtà aliena, che si sapeva benissimo prima o poi l’avrebbe assorbito appianandone i tratti distintivi. Nel 1984, la Dichiarazione congiunta del governo del Regno Unito di Gran Bretagna e Irlanda del Nord e il governo della Repubblica Popolare Cinese sulla questione di Hong Kong (nome ufficiale molto orecchiabile) mette il timbro alla decisione di demolire la Città murata, sulle cui macerie oggi sorge un parco. Nel 1997, invece, l’handover alla Cina del nonsenso burocratico che conteneva quell’altro nonsenso burocratico segna l’inizio della fine per la Hong Kong che ci piaceva un sacco perché aveva quel je ne sais quoi che gli agenti immobiliari campioni di sci chiamano “carattere”. Sigla!
Perché alla fine la Hong Kong che ci piaceva un sacco era un po’ la Città murata di Kowloon del cinema internazionale, ovvero un posto matto in culo con regole tutte sue inapplicabili altrove, dove i teatri di posa marciavano 24 ore su 24 per le riprese contemporanee di sette film diversi: tutti con lo stesso cast tecnico e artistico, rimescolato pescando il ruolo da un cappello, e tutti prodotti da gente losca che spegneva il sigaro in faccia al sindacalista per convincerlo a non rompere il cazzo. Soi Cheang è nato e cresciuto professionalmente sull’onda lunga di quel periodo leggendario qui. Ha fatto la gavetta con l’horror, è salito con gusto sul carro dei vincitori di Johnnie To (Dog Bite Dog, Accident, Motorway), ha conosciuto Tony Jaa (SPL 2 e Paradox) ed è il più giovane (insieme a Pang Ho-cheung) tra i vecchi arnesi che si ricordano ancora di com’era il cinema di Hong Kong prima che venisse inglobato dal mercato cinese.
Soi Cheang, dunque, non è mai stato uno da film di denunzia coraggiosissimi e impegnatissimi – né tantomeno potrebbe farli ora che deve passare il vaglio dell’autorità censoria di Pechino. Quando invece si parla di film d’azione e di thriller in cui amicizie virili e fraterne, traboccanti lealtà e rispetto reciproco, si battono disperatamente a colpi di arti marziali e/o pistolettate e/o arma bianca contro l’ineluttabile crudeltà di questo mondo, Soi Cheang è sempre stato saldamente in zona Coppa Korać. In Twilight of the Warriors può fare esattamente le stesse cose di sempre, in più contrabbandando agli spettatori cinesi continentali una storia di resistenza destinata a fallire – straccioni scappati di casa che si vogliono bene vs. forze soverchianti e impietose mosse da vil denaro e potere – che assomiglia davvero davvero tanto a quella di Hong Kong. Solo che qui la Cina è rappresentata da un matto psicopatico invincibile con i capelli cotonati, che quando fa qualcosa di trucido ride come una ragazzina. E io, per certi versi, adoro.
Lo stile e il lessico cinematografico di Twilight of the Warriors sono gli stessi dei blockbuster storici cinesi – con l’aggiunta dei suplex di Donnie Yen –, quei filmoni pieni di retorica che prendono un pezzo di passato più o meno lontano e lo esagerano con un racconto epico e mitologico in cui tutti sono maestri di arti marziali e un cattivo può trasformare il proprio corpo in armatura utilizzando la forza dello spirito. È lo stesso concetto (con più cavi) degli Ip Man di Wilson Yip (che non a caso qui è produttore), solo che stavolta siamo nel 1984. Quarant’anni possono sembrare pochini per cominciare già a costruire leggende, ma dal punto di vista di Cheang la Hong Kong degli anni 80 assomiglia nello spirito a quella odierna come la Troia di Omero riflette quella di Wolfgang Petersen. A quei tempi la Città murata di Kowloon era ancora in piedi ed era protetta da un boss giusto, interpretato da Louis Koo, che a un certo punto decide di prendersi qualche rischio di troppo pur di accogliere il rifugiato Chan Lok-kwun. Egli, porello, ha avuto brutti screzi con la vita e anche con un sadico boss di Hong Kong, Sammo Hung con il marsupio gigante. Essendo un clandestino, poi, non ha tanta scelta se non rimanere nascosto nella Città murata e darsi da fare per guadagnare i soldi necessari a comprarsi un documento.
Lok-kwun scopre che in quel posto qui fuori da ogni grazia catastale, in realtà si sta da dio. Sono tutti poverissimi e vivono ammucchiati, ma si vogliono bene, si fanno compagnia e si sostengono a vicenda. Sono una comunità unita, dove ognuno (per necessità) partecipa al benessere dell’altro e ci prende gusto fino a scoprire che, guarda un po’, potrebbe essere la cosa più sensata da fare. Certo che ci sono anche le magagne rese fin troppo romantiche. C’è il lavoro minorile spensierato, ci sono le signorine costrette ai facili costumi e le loro figliolette maîtresse bambine, ci sono le dosi di droga e ci sono i tossici che picchiano le donne. La Città murata non è un luogo neanche lontanamente perfetto. La città murata puzza, è raggrumata e scassata, sbeccata e spaiata. È un luogo dove MANCANO LE ISTITUZIONI, direbbe qualcuno ancora in grado i provare quel sentimento da privilegiato che è l’indignazione. Chi non può permettersela, invece, tende a incazzarsi.
Lok-kwun, fatalità, si incazza insieme ad altri tre giovani virgulti della zona e insieme fanno un po’ di giustizia privata a colpi di spranga. Una faccenda che nel cinema di Hong Kong significa una sola cosa: ora sono fratelli di sangue e debbono suggellare il patto giocando a mahjong fumandosi centomila stizze. Lok-kwun ha trovato la famiglia che non aveva mai avuto ed è super contento, solo che poi escono fuori incredibili incastri tra il suo albero genealogico e le passate lotte di potere che si sono consumate per il controllo della Città murata – per la quale, nel frattempo, è stato approvato un progetto di demolizione che attira gli avvoltoi più di quanto non farebbe un cadavere in decomposizione. Sia la Città murata sia Lok-kwun, però, sono ancora vivi e vegeti nonostante abbiano una metaforica taglia sulla testa. Infuria una lotta senza quartiere per salvare entrambi dalle grinfie appiccicose di strutto di Sammo Hung e dal naso sporco di bianco del suo braccio destro catafratto, che vogliono sostituire Louis Koo come boss delle triadi di zona per aiutare politici e imprenditori a disfarsi della gente poverella, buttare giù tutto e fatturare a botte di cemento con la sabbia, lavoratori in nero bangladesi e mazzette per oliare il processo.
Twilight of the Warriors non è il film perfetto ed epocale che sarebbe potuto essere – leggi: che io avrei voluto fosse mentre piangevo nel buio della mia cameretta ascoltando un audiolibro di Giona A. Nazzaro. Fatica a tenere insieme il telaio wuxia, che serve a incastrare lo spettatore cinese, con la polpa che ricalca i classici archetipi dell’action hongkonghese. Il cuore del film sta nel rapporto di amicizia virile tra Lok-kwun e i suoi tre bro, un giuramento silenzioso di fratellanza talmente prezioso da giustificare il sacrificio per difendere il posto che chiamano casa. Un omaggio molto bello a quel cinema là di Hong Kong, realizzato però con il braccino corto di un regista impegnato a fare altre venti cose contemporaneamente per stare dietro a un intreccio narrativo esageratamente appesantito da deviazioni, dettagli superflui, flashback spiegoni e coincidenze maccosa. A Cheang manca il tempo materiale per riuscire a creare la giusta aura di carisma attorno a questi quattro moschettieri della nuova generazione, che per difendere la propria identità si scagliano contro un nemico che sembra onnipotente. Twilight of the Warriors crea più confusione di quanta non riesca a gestirne. Però fomenta su buoni livelli grazie a una serie di scene d’azione fatte come Hong Kong comanda, allo swag tracotante di Sammo Hung e Louis Koo, e a un mostro finale che ci manda a casa con addosso un po’ di sana locura.
Ufficio della censura quote:
“Non è come sembra”
Toshiro Gifuni, i400calci.com
Divertente per carità ma come scritto se sì dovesse scendere un po’ più nel profondo di questioni ce ne sarebbero diverse.
Peccato di Pou-Soi Cheang non abbiate mai coperto Limbo ,il suo migliore presente su prime video , e Mad Fate.
Limbo più che da 400 sarebbe da 4k calci : D
Direi da vedere, dove si trova? Due cose per Toshiro:
1) Con la citazione della Coppa Korac hai vinto.
2) Qual’è l’unico altro posto che ti viene in mente paragonabile? A me era venuto in mente questo:
https://en.wikipedia.org/wiki/Centro_Financiero_Confinanzas
Non sarà il filmone che ci si aspettava ma un menare in salsa Hong Kong ci sta sempre.
Peccato che le vicende politiche recenti abbiano limitato l’estro di Hong Kong e Shanghai nel cinema.
sembra che il sequel e il sequel del sequel siano già in produzione
Ma pure prequel, pre-sequel, legacy sequel, remake sequel Americano .
Comunque il film è tratto da un fumetto (kowloon city of darkness) che non è nemmeno brevissimo, per questo poi presenta delle lungaggini. Forse con una serie tv sarebbe stato più riuscito
Ho vissuto un anno e mezzo a Singapore e lì la paura di “fare la fine di Hong Kong” si taglia con l’accetta nell’aria.
Dormano tranquilli alla Cina interessa Taiwan
per chi volesse immergersi nella Hong Kong magistralmente descritta da Toshiro c’è sempre il classico “The Stunt Woman” (1996), con Michelle Yeoh e Sammo
Organizziamo un tour de i400 calci ad Hong Kong per scoprire ciò che resta del loro cinema direttamente in situ? Magari ci scappa qualche ceffone da sammo o fa Jackie Chan!
Possiamo chiamare la comitiva ” from Valverde with love”.
Ho trovato il film in quella Kowloon virtuale che è internet. Se sai cercare trovi tutto in ottima qualità. Lo dico agli inetti che chiedono sempre “dove lo trovo?” Visto dopo aver guardato un paio di documentari sulla Kowloon vera. Che dire: ottima fotografia. Ottimo montaggio e Regia. Sembra di stare lì, in quel mostro. Un paio di ratti avrebbero anche fatto sentire il puzzo marcio di questa città illegale che produceva tutto a basso costo e senza regole igieniche per i ricchi di città. Per assurdo ho preferito le parti drammatiche a quelle puramente d’azione, comunque montate molto bene, forse un pò troppo freneticamente. Ma avercene…