C’è una curiosa continuità concettuale tra lo scorso film di cui ho scritto su queste pagine, una storia di supereroi innestata su uno scheletro da folk horror, e questo Starve Acre, che è invece un folk horror innestato su uno scheletro da folk horror e popolato da gente uscita da un folk horror che fa le robe che ti aspetti dalla gente uscita da un folk horror. La continuità concettuale è, ovviamente, il folk horror, un’espressione che da qui alla fine del pezzo proverò a non usare più per non farvela venire a noia e non rischiare di causare la distruzione del pianeta.
È che non è facile: Starve Acre è proprio quella roba lì, è Lezione di Genere 101, una storia di tradizioni locali che prendono vita (o ce l’hanno in realtà sempre avuta) e terrorizzano una famiglia in un contesto agreste. Sentite qui: quello di Daniel Kokotajlo è un film che parla di
- radici reali e metaforiche
- tradizioni locali e familiari (l’ho già scritto)
- terrificanti storie della buonanotte
- potenziali sacrifici umani
- nomi di fiori e piante
- il male che si trasmette alla generazione successiva
- altre cose che potete tirare a indovinare e probabilmente azzeccherete
Tutto questo cosa significa alla fine? Che Starve Acre è di una purezza, fors’anco addirittura di un nitore accecante. Vuole fare quella roba lì e la fa senza sgarrare di un millimetro. Si colloca più nel filone “drammi da tinello a tinte soprannaturali” che in quello dell’horror puro, ma te lo fa capire con estrema onestà fin dall’inizio: “Ciao, mi chiamo Starve Acre“ dice, con pesante accento britannico “e sono un character study”. Per cui risulterà anche respingente per chi va in cerca di un po’ di carnazza in una storia legata alle tradizioni popolari, e d’altra parte potrebbe curiosamente attirare chi l’horror lo bazzica poco ma ha apprezzato roba recente e un po’ di confine tipo Speak No Evil.
Insomma un bel pacchetto, con però quell’aria un po’ artefatta di chi ha girato un film avendo talmente in testa i propri riferimenti da non avere spazio per un po’ di coraggio, personalità, interpretazione, variazioni sul tema. Questo lo rende, per mutuare un’espressione dall’albionico idioma, vasto come un oceano e profondo come una pozzanghera: un film che, con tono solenne e ieratico, enuncia banalità delle quali altri luminari hanno già discusso in passato peraltro con risultati ben superiori. Impossibile da bocciare, ma ancora più duro da amare. O FORSE NO? SIGLA!
C’è un dettaglio che non ho ancora citato su Starve Acre e dal quale a dire la verità stavo cercando di tenermi alla larga, e cioè che oltre al summenzionato Matt Smith l’altra metà della coppia protagonista è Morfydd Clark, che sono sicuro sia una bravissima attrice ma che ahimè non riesco a non associare a quella fetecchia senza pietà di Rings of Power. Per cui ammetto che vedere Clark rifare lo stesso personaggio monoespressione di quella serie, ma in un contesto nel quale ha senso, mi ha stranito per sostanzialmente tutto il film – che dura pure quei dieci minuti di troppo, ma siamo nel 2024 e ormai non è più una sorpresa.
Smith e Clark sono appunto una coppia monoespressione, hanno un figlioletto monoespressione anch’egli e hanno appena abbandonato la città (Leeds, comunque, non New York) per trasferirsi nella casa di campagna della famiglia di lui, dove passano le loro oziose giornate insieme al simpatico vicino Gordon e al resto della pittoresca popolazione di questo villaggetto senza nome. Questo, almeno, finché il loro bambino non diventa orribile, Starve Acre prende una piccola deviazione verso Hereditary, e i due genitori impazziscono.
Tornando al discorso di apertura, prendiamo per esempio la trasformazione del bambino in orribile versione di sé stesso. Ci sono film tipo The Omen che dedicano un intero atto a mostrarci questa lenta mutazione. Starve Acre prende il bimbo, gli fa fare una singola cosa orribile, dopodiché prosegue per la sua strada, dritto e deciso verso il prossimo snodo di trama. A livello di informazioni trasmesse, i due film fanno la stessa roba; a livello di efficacia, Starve Acre trasforma quello che dovrebbe essere un climax, un momento shockante, in una sequenza come un’altra, perché nella sua fretta di proseguire il racconto non si è preso il tempo necessario a farci, non dico affezionare, ma almeno interessare a questo cinno.
Per contrasto, poi, tutto quello che succede dopo l’Incidente lo fa a un ritmo glaciale: è il genere di film nel quale i dialoghi durano il triplo del necessario perché questa gente vive di pause. Ma pure il genere di film che tra una scenetta domestica e l’altra ti infila trenta secondi di inquadrature a effetto della brughiera inglese. E anche lì: sono belle, sono affascinati, ma sono anche un po’ casuali, non riescono in nessuno modo a restituire l’idea che stiamo guardando lo stesso posto da prospettive diverse; sembra uno di quei video di YouTube tipo “Relaxing Moor Landscapes 4K For Meditation And Study”, un collage di generici paesaggi che evocano l’idea di orrore popolare nel quale uno stacco di montaggio ci porta magari centinaia di chilometri più a nord.
Se sto ciurlando nel manico è perché Starve Acre fa lo stesso. Parla tra le altre cose del deterioramento di un rapporto di coppia, e lo fa portando avanti in parallelo le ossessioni di marito e moglie: il primo l’avete visto, scava in cerca di radici, perché è un archeologo e per altri motivi che scoprirete guardando il film; la seconda passa dalla catatonia a un’improbabile, e questa volta sì discretamente horror, rinascita del suo istinto materno. Vorrei spiegarvela meglio ma vi rovinerei l’unica vera imprevedibile sorpresa di Starve Acre.
Che però, altrettanto sorprendentemente, è anche secondo me quello che gli fa fare il salto definitivo verso il sì. Certo, fino a quel momento si trascina, gira spesso a vuoto, porta avanti una serie di riflessioni di una banalità sconcertante e tutte già viste e sentite altrove e meglio. Ma proprio quando sembra essere solo un altro film da 6 politico, Starve Acre si inventa* un’impennata surreale che fa germogliare tutti i semini gettati fin lì quasi con noncuranza e regala un finale finalmente degno, inaspettato ma con il senno di poi perfettamente logico.
Poi oh, non l’ho scritto esplicitamente ma credo sia chiaro da quanto detto fin qui: Starve Acre è anche un film fighettissimo, magari non artistoide ma comunque ripulito e studiatissimo in ogni singola inquadratura. Per fortuna, però, Kokotajlo sembra capire che quando fai un certo genere la materia organica è importante: la terra, il sangue, le ossa. E quindi, pur in un contesto di un certo urticante formalismo, Starve Acre ha anche il suo bello spazio per fare schifo e puzzare – per sapere di qualcosa, foss’anche solo un po’ di suolo marcio.
Mi rendo conto che la conclusione di questo pezzo sia più positiva di quanto avessi in progetto di scrivere: ripensandoci a mente fredda, è in effetti un film che può irritare, ma che è salvato e anche elevato da quell’accelerata creativa sul finale. Che di nuovo, non è nulla di mai visto prima, ma quantomeno si stacca dal semplice omaggio per diventare un’idea. Non cambierà il genere, ma potrebbe comunque svoltarvi una serata.
Quote
«Folk horror»
(Stanlio Kubrick, i400calci.com)
*il film è tratto da un romanzo del 2019 per cui non s’inventa un cazzo, ma ci siamo capiti.
Per me è stata una grossa delusione. Come dici tu, ha un ritmo glaciale e non si inventa niente, ma è proprio una cosa banalotta e già vista da sei politico. Clark è *bravissima* (Saint Maud anyone?) ma qui ha poco da fare.
Chissà se risponderai mai alla mia domanda su KINGDOM terza stagione.
A me è piaciuto molto ma si, concordo che è esattamente quella cosa lì ed eventualmente piace per quello.
Qui a Londra è stato un successone. Si è scomodato per presentarlo Stewart Lee, che è in fase interesse per le tradizioni folk inglesi.
Concordo con te: generico e lento ma allo stesso tempo inizia a fare sempre più brutto finché non gli vuoi bene e lo apprezzi.
Ho capito che lo guardero’ per i primi 2/3 a velocita’ x1.3, cioe’ la massima oltre la quale qualsiasi cosa diventa una comica di Benny Hill. Poi lo mettero’ a velocita’ normale per gustarmi il finale perche’ di Stanlio io mi fido.
Tutto giusto, tutto bello ma finché Cristina Resa non dà la sua conferma non mi fido che sia un Folk horror!