Il fioretto per il 2025 è sempre quello: sforzarsi con tutti noi stessi di non diventare vecchidimmerda. Quello stato mentale in cui si passano gli anni più acciaccati delle nostre vite non solo a cagare il cazzo che si stava meglio quando si stava peggio, ma anche ad impegnarsi attivamente per evitare che nulla di quello a cui siamo abituati – e che ci dona conforto – cambi e si evolva.
Però.
Però la realtà è più complessa di così. È un posto dove succedono i cortocircuiti e i paradossi. Ne consegue che, se da quindici anni a questa parte la strategia sistematica dell’egemonia nell’industria dell’intrattenimento è quella di mungere soldi sicuri dalle generose ed emotive mammelle dei nostalgici – vellicandoli con prequel-sequel-midquel-reboot-remake-spin-off-threequel-retquel-crossover-sidequel-revival –, io vorrei quantomeno arrogarmi il diritto di fare un po’ il vecchiodimmerda dicendo che si stava meglio quando si stava peggio. Quando il processo di auto-cannibalismo del sistema non era ancora ai livelli fuori controllo degli ultimi anni, durante i quali i grandi investimenti nel cinema commerciale si sono divisi tra rigurgiti di proprietà intellettuali già (più o meno) affermate e film di Dwayne Johnson. Io, vecchiodimmerda controintuitivo, vorrei tornare a un tempo in cui il cinema grosso, rumoroso, spettacolare, commercialmente ambizioso e di genere era anche un po’ più originale. Invece siamo nel 2024. E quando un vecchio amico come Choi Dong-hoon – che al cinema spacca cose sin dai tempi di Tazza: The High Rollers – ci prova durissimo non con uno, ma con due films che sono grossi, rumorosi, spettacolari, commercialmente ambiziosi, di genere e anche originali, la prima cosa che ti viene da pensare è: ma questo è scemo. Sigla!
Choi Dong-hoon non è scemo. E neanche matto, almeno non del tutto. Al massimo, dopo aver finito di vedere il primo Alienoid nel 2022, gli si poteva dire che è stato un po’ stronzo perché a partire da una premessa golosa aveva realizzato un pasticciaccio macchinoso anche se confezionato con tutti i crismi di uno sforzo produttivo notevole. La premessa golosa è un po’ una mossa alla Scientology: c’abbiamo gli alieni nel cervello. Solo che invece di tante fregnacce sugli psichiatri, i vulcani e gli aerei di linea intergalattici, qui la faccenda è divertente: da millenni, una razza aliena potentissima e iper-tecnologica imprigiona i propri peggiori criminali nel cranio degli abitanti della Terra (“Li intrappoliamo nel luogo più inaccessibile dell’universo: il cervello umano”. Anche le specie super evolute hanno i loro adolescenti che scrivono le sentenze sull’astuccio con l’uniposca).
Una volta incarcerato, in teoria l’alieno pregiudicato resta lì dormiente e impotente, mentre l’umano se la vive ignaro e sereno come se niente fosse. Tutta la galassia è paese, però, e le evasioni capitano anche nelle prigioni più fantascientifiche. A volte succede che un galeotto riesce a evadere e a prendere il controllo dell’ospite; poi però – causa atmosfera terrestre tossica – non può comunque uscire da quel corpo qui se non per cinque minuti di numero, figurarsi se può scappare e tornarsene nello spazio. In caso di evasione, sulla Terra (e nel 2022) sono di stanza due robot avveniristici e viaggiatori nel tempo, Guard e Thunder, che fungono da polizia penitenziaria ubiqua e purgatrice di fuggitivi.

Guarda là c’è un fuggitivo. Presto, chiama le guardie robot
Il primo Alienoid fa venire il nervoso. In due ore e mezza fa tante cose – parcellizzate in un prologo con flashback, diversi blocchi da linee temporali differenti (2022 e 1391) che si girano intorno finché non riescono a trovare l’incastro, e un epilogo aperto – ma le mette insieme in maniera confusa, ridondante, prolissa e tirata troppo per le lunghe. Qui la vera protagonista del film è la undicenne Yi-an, che è nata nel 1380 ma è cresciuta nel futuro poiché adottata da neonata (con la scusa di studiarle il cervello) dal robottino curioso Thunder, dopo che l’intervento per catturare un alieno evaso aveva lasciato orfana la bimba. Succede che, proprio mentre Yi-an comincia a porsi questioni da pre-adolescente – tipo com’è che funziona questa cosa qui degli extraterrestri –, gli alieni malvagi mettano in atto un piano dritto e semplice: far evadere il più forte e cattivo di loro, il Grande Regolatore, e fargli sostituire l’atmosfera terrestre con quella tutta rossa e (immagino) puzzolente che a loro serve per sopravvivere. La posta in palio è l’estinzione dell’umanità.

Passato, presente, futuro e product placement nella stessa inquadratura
Il primo Alienoid non finisce: la situazione nel 2022 sembra talmente compromessa che i robot e Yi-an decidono di tornare nel passato (nel 1380) dove il pragmatico Guard, fondamentalmente l’unica arma dei buoni, finisce smembrato da Grande Regolatore & co., che si sono aggregati al viaggio temporale rimanendo anch’essi intrappolati nel medioevo coreano.
Esatto.
Non puoi vedere Alienoid: Return to the Future senza aver visto Alienoid, e forse ho aspettato fino ad ora per confessarlo perché sono un po’ stronzo come Choi Dong-hoon. In realtà il vero problema – non sapevo bene come dirlo – è che invece il secondo Alienoid è, a sorpresa, una discreta figata. Solo che è una discreta figata che non sussiste né avrebbe la stessa portata senza quella palla al piede del primo.
Però.

Però quando spariscono le undicenni succede anche questo
Però la realtà è più complessa di così. È un posto dove succedono i cortocircuiti, i paradossi e i déjà vu. Ne consegue – al netto di quelle premesse là sull’originalità – che vi inviterei timidamente a investire queste quattro ore e mezza nei due Alienoid. Che sono tanto tempo, ostrega di tutti i sacramenti. Ma proprio tanto. Nel senso che come rapporto tempo investito/qualità, Alienoids dovrebbe avvicinarsi a mezza trilogia de Il Signore degli Anelli (in versione non estesa). Ma forse ne vale la pena. Innanzitutto, perché gli alieni e il medioevo coreano insieme funzionano alla perfezione. Il 1380 di Alienoids è popolato da dosa (monaci taoisti), stregoni e artisti marziali in grado di utilizzare la magia del folklore, che viene trattata con la stessa naturalezza narrativa delle onnipotenti tecnologie degli alieni (che viaggiano nel tempo grazie al Pugnale Divino, per dire). Non solo il parallelismo è evidente e in parte culturale – il soprannaturale fa parte dell’ordine delle cose, così come innovazioni scientifiche ora ineffabili ne faranno parte in futuro – ma nel secondo film si collega al nostro presente quando diventa chiaro che il superpotere di Yi-an sono le armi da fuoco che è riuscita a trasportare nel passato. Tecnologia e magia – com’è già successo in quella serie bella, ma bella bella, intitolata Arcane – trovano un punto di contatto per dare alla storia e all’azione una marcia in più.

Loro sono due gatti. Evviva i gatti
I toni di Return to the Future, poi, sono epici e su grande scala, com’è giusto che sia: il destino dell’atmosfera terrestre e della sopravvivenza dell’umanità sono in mano da una parte a eroi improvvisati bloccati nel 1391, e dall’altra a gente ignara che nel presente si arrabatta seguendo la profezia tramandata da un antenato senza sapere bene cosa farsene. Il filo del dubbio che la situazione riesca davvero ad aggiustarsi rimane teso fino alla fine. Allo stesso tempo, però, quello stato di ignoranza e/o impreparazione è la fonte di tutta la (discreta) commedia, che alleggerisce il dramma puntando sui registri del ridicolo e dell’assurdo, e che in Return to the Future trova la quadra ideale per non sbracare e soffocare azione e pathos.

Anche questo è pathos
E infine c’è soprattutto una cosa giusta che, pur con risultati alterni, Choi ha avuto premura di fare nel suo donchisciottesco tentativo di creare qualcosa di originale in un mondo di proprietà intellettuali da spolpare. Il meccanismo narrativo che sceglie di usare, infatti, è quello giusto per la gente che il cinema grosso, rumoroso, spettacolare, commercialmente ambizioso e di genere vorrebbe ancora approcciarlo con stupore e curiosità. Choi racconta una storia ricca di parti in movimento entrando senza preamboli nel cuore dell’azione e accumulando elementi su elementi, mentre la cinetica delle scene che si susseguono ricostruisce sempre più approfonditamente le cause del conflitto che muove la vicenda e ne traccia le conseguenze. È l’azione che non solo fa avanzare correttamente la storia, ma la costruisce, la decostruisce e la rimette insieme. Che più o meno è la definizione più corretta di cinema allo stato puro che mi venga in mente ora come ora.
Albo dei contro-paradossi quote:
“Bel titolo internazionale originale Return to the Future. Prova a googlarlo”
Tohiro Gifuni, i400calci.com
Figo!
E a me era piaciuto anche il primo figurati! Tra le robe migliori che ho visto all ultimo FEFF.
Ho iniziato l’articolo senza saperne mezza su alienoid e ne esco con la voglia di spendere un quantitativo iniquo di ore per guardarmeli entrambi… maledetto Toshiro!
Beh, che il superpotere di Yi-an siano le armi da fuoco ( al netto del suo titolo di “Ragazza che lancia Saette”) è già abbondantemente spiegato dalla sua primissima apparizione nel primo film, a dirla tutta. Vale a dire nel momento in cui estrae un’automatica e fa secco in volo un marzialista cattivo che stava per esibirsi in un salto-di-venti-metri-con-lancio-di-freccia. E anche in tutto il resto della pellicola, va detto…