Tutte le volte che devo esprimere un parere su un film indipendente di fantascienza realizzato da tre persone in croce e costato quanto mezza giornata del catering per celiaci sul set di Ant-Man e le ragadi di Thor, mi sento più o meno come quando gli amici neo-genitori fanno i Rafiki e ti mostrano foto della prole appena sfornata attendendosi, come da prassi plurisecolare, commenti entusiasti – e se ci rifletti anche un po’ inappropriati – sull’intossicante bellezza della creatura neonata. Purtroppo non tutti i bambini del mondo sono Deva Cassel, e la stragrande maggioranza dei film indipendenti di fantascienza poverelli non sono Primer. Ma come glielo dici a una mamma o a un/una regista che il frutto del loro faticosissimo e dolorosissimo parto è oggettivamente bruttarello?
Tu sei bruttarello!
Lo ben so, ma non stavamo parlando di questo.
Tua mamma fa i chinotti in tangenziale.
Capite? Poi la conversazione prende un tono spiacevole. Allora mi viene l’istinto di essere insincero e dire che non ho mai visto un neonato realizzato da tre persone in croce più pazzescamente attraente di quello che mi hai appena messo in faccia.
Ecco, la cosa bella di The Complex Forms è che si tratta di un film italiano super autarchico – fatto sul serio da una troupe di tre persone e costato come l’aperitivo di un veneto in quaresima – con cui puoi essere sincero non solo perché ormai ha due anni e ai nostri tempi a quell’età eravamo già alla naja, ma anche perché è uno sci-fi horror d’atmosfera davvero figo e realizzato con un’intelligenza che non si vede troppo spesso in giro. Sigla!
Avviso preventivo ai naviganti, ché so per certo di andare a toccare un argomento che titilla il fastidio di alcuni: The Complex Forms è un film doppiato. È recitato da attori non professionisti – tranne uno, il protagonista – che sono stati scelti per il fatto di avere una ragguardevole fazza da cinema e dopodiché sono stati doppiati in post produzione da gente che lo fa di mestiere, e infatti così a orecchio ce n’è almeno uno che ho sentito nei cartoni animati. Capisco che per qualcuno sia un dettaglio squalificante, che crea fin da subito un ostacolo (voci che evidentemente non appartengono a quei volti) e rallenta la sospensione d’incredulità. Io, invece, ho stranamente apprezzato il lavoro quasi perfetto dei doppiatori – di cui solitamente parlo con lo stesso affetto che nutro per i tassisti e per i gestori di stabilimenti balneari – e ho ammirato la scelta pragmatico-artistica di pescare interpreti a costo e chilometro zero, prediligendo la potenza di facce consunte dalla vita, archetipi estetici della provincia che ti assassina l’anima a colpi di bianchetti a colazione.
Una villa insensatamente bella e inquietante – e talmente di campagna che la vendono già con la bruma compresa – accoglie l’ultimo arrivato fra i suoi ospiti. Christian Del Ben, cuoco disoccupato divorziato indebitato senza famiglia, si unisce ad altri miserabili e/o disperati e/o derelitti come lui – tutti uomini, tendenzialmente di mezza età e oltre – che hanno accettato in cambio di soldi di prestare il proprio corpo a un’enigmatica e non meglio specificata pratica di possessione. Nessuno sa veramente quello che succede lì dentro. L’unica certezza è che quando si sente un tuono, il quid sta per avere luogo. D’altronde quella villa qui esiste da molto prima che nascessero questi ospiti o le persone che ora ci lavorano: anche se non c’è un’idea chiara di quello che si fa lì dentro, se dura da così tanto tempo significa che qualcosa in effetti succede e oltretutto funziona. Burocraticamente parlando, non fa una grinza.

Brumotti infame.
Per ingannare l’attesa della possessione e per distogliere l’attenzione dalla paura per l’incognito, le giornate passano tra corvée da campo estivo della parrocchia, visite mediche, pranzi di sbobba e pane casereccio, e l’ora d’aria in giardino insieme agli altri umarell con il cappotto. Gli ospiti sono senza telefono, isolati, divisi in turni e non si possono nemmeno dire a vicenda il proprio nome. Quando prorompe il primo tuono le luci sfarfallano, le sirene suonano e le vecchie carcasse umane vengono rinchiuse nelle loro stanze. Appaiono mostri grossi che sembrano allo stesso tempo alieni e familiarmente demoniaci; per contratto, se li si vuole descrivere bisogna evocare Lovecraft e menzionare un affascinante traviamento dell’arte sacra. Io ci rivedo certi incubi di Elden Ring che non ho ancora del tutto processato. In generale, dal momento che il loro movente non viene mai esplicitato, sono in purezza un terrore ignoto e primordiale. Questi mostri grossi vagano per i corridoi della villa alla ricerca del recipiente giusto da possedeere. Il prescelto viene visto entrare in una stanza, ma non viene visto uscire. Christian e i suoi due compagni di stanza, il vecchino vedovo amichevole e il burbero gigante dalle mani fatate, raccolgono i cocci delle loro vite in frantumi per cercare risposte onde evitare il terrificante colloquio privato con uno dei mostri da incubo.
The Complex Forms è rombo basso e profondo lungo 74 minuti di sinestesia in bianco e nero ed è di quelli che ti fanno vibrare le ossa. Scaturisce da Fabio D’Orta, regista esordiente che ha trovato le inspiegabili energie per produrre, scrivere, dirigere, fotografare, montare, scenografare e visualeffettare un micro gioiellino di fantascienza evocativa; che prima costruisce una tensione notevole solo con l’attesa, il mistero e l’assenza, per poi prorompere nell’orrore di un’oscurità oscena che anche se entra nel quadro e diventa esplicita, rimane comunque imperscrutabile e ineffabile. In casi come questi, il rischio di farsi le menate a due mani è altissimo. Basta un secondo che ti parte la vena Tarkovskij e in un attimo si diventa pretestuosi e fuori luogo. Ma D’Orta è bravo a ricordarsi che la fantascienza è bella bella anche perché esistono gli Scott e i Cronenberg. Perché è interessante scoprire piano piano che i mostri grossi sono la nostra stessa impotenza di fronte al mistero del creato, ma è anche bello vederli spiaccicare una macchina o prendere possesso di un vecchino senza preavviso. Dopo una lunga e meritata passerella in tanti bei festival, di genere e non, in giro per il mondo – Torino, Slamdance, Fantasporto, Trieste Science+Fiction – The Complex Forms conclude la sua sfilata il 22 marzo all’Extra Sci-Fi Festival di Verona. Se siete in zona, vale la pena fare un salto.

Oplà.
Pianura Padana state of mind quote:
“Due discoteche centosei demoni giganti”
Toshiro Gifuni, i400calci.com
Ho visto il trailer, sembra una gran figata.
Ma possibile che scopriamo questo film due anni dopo la sua uscita? Chi ce lo ha nascosto? Cos’altro non ci dicono?
Considera che più del 40% dei film prodotti in Italia non viene distribuito.
Vedi te.
Su questo tema ci sarebbero alcune considerazioni da fare. Fermo restando che a mio avviso la percentuale è più alta di film non distribuiti ma, al netto di questo, teniamo
buono il 40% e consideriamo che l’altro 50% viene distribuito in 3 sale, per 2 giorni, per far finta che sia distribuito. Tutto questo è il solito (e noto) magna-magna di cui siamo fieri
e felici, tanto il contribuente paga per fondi stanziati dal governo che riempiono le tasche degli amici del Palazzo.
Il punto è che se fai così devi tenere a bada i film che di finanziamenti non ne chiedono, costano come una cena in Svizzera e che magari funzionano bene.
Uno degli aspetti interessanti di The Brutalist, che sta facendo discutere anche per questo, costato 1/5 di un film come Parthenope o degli ultimi film di “grandi” nomi del cinema italico e guarda un po’? Strano
https://www.key4biz.it/su-quarta-repubblica-condotto-da-nicola-porro-su-rete4-al-via-unindagine-sui-finanziamenti-pubblici-a-cinema-e-audiovisivo-la-bolla-sta-per-scoppiare/509053/
bell’articolo, pieno di spunti.
Ne sceglierò due tra i più inutili:
1) ai genitori fotomuniti basta rispondere “…ugh, son proprio tutti orribili a quell’età, eh?! Meno male che poi migliorano…”. Questo aiuta a stabilire immediatamente certi equilibri, boundaries chiari e screma i più invasati/privi di senso dell’umorismo
2) il mio problema col doppiaggio (che recentemente mi tormenta quando guardo gameplay di videogiochi su canali italiani) non è tanto il “la voce non corrisponde col la faccia”, quanto a) son davvero sempre gli stessi sette stronzi che b) invece di fare il “voice actor” si studiano *una* vocetta del cazzo, scelgono due o tre voci dal “Grande Libro delle Affettazioni Vocali del Doppiatore (ora tutte e dodici!)” e via andare, va bene per tutto (ippopotamo blu dei pannolini? nessun problema! semi-dio lucertola chtuhliano? ce l’ho! dramma da tinello / cinepanettone con scorregge ascellari / high-concept croato? ma si accomodi!)
il vero lovecraftian horror è un universo in cui tutti parlano con la stessa voce e gli stessi due (cazzo di) vocal quirks.
(scusate, ora vado a prendere le pilloline)
Ho conosciuto professionisti del doppiaggio, e ti confermo che “scelgono due o tre voci dal Grande Libro delle Affettazioni Vocali del Doppiatore (ora tutte e dodici!) e via andare” è effettivamente il metodo che usano tutti, salvo le grandi produzioni.
Segnatissimo, e gran recensione.
En passant, avendoli recuperati da pochissimo, e per restare in Triveneto, consiglio di recuperare i due horror degli anni zero di Lorenzo “Oltre il guado” Bianchini: l’argentian-raimiano “Lidris cuadrade di tre” del 2001* e l’avatian-zederiano “Custodes bestiae” del 2004. Li ho recuperati giusto per curiosità, pensando di trovarmi davanti alla solita roba all’italiana fatta più di buone intenzioni che di risultati, invece pur essendo in effetti due prodotti assolutamente amatoriali sono due veri film dignitosissimi e affascinanti. Oltre alla natura no-budget, metto in guardia anche sul fatto che sono film recitati in presa diretta e in friulano stretto. Se nel secondo, che ha comunque molti dialoghi in italiano, ho colto quasi tutto, nel primo non se capis ‘n’ostia de nient, ma non è certo un film di dialoghi ed è tranquillamente usufruibile.
*questo, sia pure con protagonisti tre studenti delle superiori e quindi più giovani di me, mi ha riportato come pochi all’aria di un’Italia 90s prima dell’avvento del digitale, con quelle stanze da giovani che trasudavano mesta attesa, gli scaffali nudi alle pareti incasinati di cd e cd-rom, le onnispresnti luci al neon a donare al tutto quell’appropriata atmosfera sullo squallidino andante.
capitolo doppiatori: e poi c’è Pino Insegno che ha sempre la stessa identica voce (con magari qualche occasionale piccolo manierismo in più)
A forza di tagliere i tempi per il doppiaggio, ci troviamo con doppiaggi fatti in tre secondi e senza sapere bene cosa stai doppiando. Ecco quindi che si appoggiano ad alcuni manieresmi, ma il problema è la gestione dei tempi delle Major. Teoricamente il doppiatore studia per non farsi riconoscere facilmente e calarsi nel voltò e nella parte
immagino possa essere una delle cause, ma
1) il risultato non cambia: (per me) è ormai un’esperienza a metà tra l’orrido ed il cringe
2) nessuno li costringe a prendere lavori a condizioni non dignitose (anche per la propria reputazione), specie in un mondo così insulare [eufemismo dell’anno] e monopolistico come quello del doppiaggio italiano
3) quando serve più tempo (magari per “congestione di contratti”) il tempo si trova, a scapito di tutto, vedi l’uscita di Prometheus *quattro mesi e mezzo* in ritardo rispetto al resto del mondo
4) ripeto, nessuno costringe nessuno ad affidare *tutti i doppiaggi del mondo* allo stesso gruppo di 8/10 persone
5) quando sono esposto ad un doppiaggio italiano, 98 volte su 100 smetto di seguire e la mente vola a questo https://youtu.be/TX70d42xCzU
mi chiedo quali competenze avrai per giudicare l’intero mondo del doppiaggio italiano come 7 stronzi…sai anche tutto di tempi e contratti a quanto pare…potresti proporti per risolvere questo dramma.
Comunque non sono sempre li stessi doppiatori, dipende anche dal periodo quali film escono. Poiché un doppiatore per anni si lega ad uno o più attori e se questi hanno un periodo intenso è facile sentirli più spesso . Per quanto riguarda le tempistiche, beh è lavoro come p.iva in qualche modo devono tirare avanti e non possono sempre rifiutarsi, le Major se ne fregano. Basta pensare che nei videogame mandano solo una traccia audio quindi non è doppiaggio visto che viene meno la recitazione sopra qualcosa da vedere. Però resta che non sono certamente i soliti 7/8 a doppiare tutto.
Quando si dice Emilia paranoica.
Anche il basso Veneto palladiano dice molto la sua, in questi casi
Wow- WOW – Wow. ❤❤❤
Mi sono appena reso conto che la sigla iniziale è una canzone creata con l’AI. Era una scelta intenzionale?
È un trend degli sbarbatelli su tiktok, si cerca di stare al passo con i tempi.
Grandi atmosfere, ottima idea.
Narrazione ondivaga, finale del cazzo come pochi.
Che peccato
Suvvia, Vandal.
Quanta severità!
In luogo di scrivere commenti immediatamente dopo la visione, datti qualche minuto per firlettere.
Era davvero così male la conclusione?
Credi davvero esistesse la possibilità di un finale differente da quello proposto?
Con quel budget?
Con quegli attori?
Non è che in tutta onestà, al netto di qualche sconclusionaggine narrativa (motivata anche dall’aver finito i soldi) ti hanno proposto l’unico finale possibile, comunque dignitoso?
In effetti non hai torto.
W il cinema indipendente italiano!