Ogni tanto ricapita: un documentario di successo diventa un film di finzione. È la costante ricerca di nuovo materiale che ossessiona Hollywood, la stessa ragione per cui regolarmente ci troviamo di fronte all’ennesimo biopic di un celebre attore/cantante/politico/atleta: la storia vera attizza sempre. Last Breath rientra nella categoria di cui fanno parte anche The Walk e Benvenuti a Marwen di Robert Zemeckis, ma anche il prossimo The Smashing Machine con The Rock; il ragionamento è: “Sono belle storie, peccato che non tutti guardino i documentari. E allora noi lo rifacciamo per il grande pubblico”. Un ragionamento simile in USA lo fanno anche con i remake di film esteri: nessuno legge i sottotitoli, addobbiamogli la versione facile facile.

Il pubblico americano mentre legge i sottotitoli.
Che poi, “documentari” è un termine molto ampio: ci stanno dentro sia quelli sui leoni narrati da David Attenborough, sia, appunto, la roba prodotta per il cinema con un taglio molto narrativo, che si distingue dai “film” propriamente detti solo per il fatto che non ci sono attori professionisti coinvolti. Per il resto, i documentari grossi, quelli che vincono gli Oscar e vengono distribuiti nelle sale, usano le stesse armi del cinema di finzione, compresi colonna sonora e sound design certosino, la stessa struttura a tre atti (che nella vita, lo ricordiamo, non esiste) per costruire la tensione narrativa e, spesso, finiscono addirittura per ricostruire delle sequenze come un film “normale”.
L’originale Last Breath di Richard da Costa e Alex Parkinson io non l’ho visto, devo ammetterlo, ma leggendone in giro sono pronto a scommettere che ricada nella stessa categoria. Tanto è vero che, quando Focus Features ha urlato fortissimo “MONEY! Rifacciamolo!”, ha pensato bene di affidarsi allo stesso Parkinson per la regia, senza andare a cercarsi qualche oscuro mestierante, ma aprendo piuttosto al co-regista dell’originale una lucrativa carriera nel cinema di finzione, che un giorno, se gli dirà bene, lo porterà a dirigere un capitolo a caso di Pirati dei Caraibi.

“Falla come vuoi e sbrigati, che ho una call con la Disney tra dieci minuti.”
“Ma torniamo nel bosco”, come direbbe Elio: in questo caso “il bosco” è il fondale del Mare del Nord, ed “Elio” il gas inerte respirato dai sommozzatori coinvolti in una missione di routine di manutenzione a un gasdotto subbacquo, guidata dal veterano e Jimmy Bobo ad honorem Duncan Allcock (Woody Harrelson), ed eseguita dai colleghi Chris Lemons (Finn Cole) e David Yuasa (Simu “Shang-Chi” Liu). Qualcosa va storto in superficie, però, e un malfunzionamento trascina via la nave a cui sono ancorati, strappando il cavo di sicurezza e con esso la scorta d’aria di Chris, che viene sbalzato via con soli dieci minuti di ossigeno. Da lì partirà una corsa contro il tempo per salvare Chris, che dovrà essere orchestrata prima di tutto in superficie, dove il capitano interpretato da Cliff Curtis dovrà trovare un modo per far ripartire il sistema e tornare in posizione per permettere a Duncan e David di tentare il salvataggio. Una roba a incastri, strategie e tensione a strafottere! Riusciranno i nostri eroi a superare gli ostacoli determinati da maltempo, tecnologia in avaria ed errore umano e salvare una vita in pericolo? La risposta è un tonante “SÌ”.
Se avete famigliarità con le vicende – è una storia vera, non venitemi a urlare “SPOILER” nell’orecchio – saprete che Chris è sopravvissuto. Last Breath è una storia a lieto fine, lo sappiamo perché i coinvolti l’hanno già raccontata di persona nel documentario. È molto difficile costruire tensione su questo, ma non impossibile. Solo che Parkinson sembra gettare la spugna da subito, infarcendo il film di personaggi stereotipati – il veterano buono e saggio, il duro dal cuore tenero, il novellino innamorato, la mogliettina che lo aspetta ansiosa a casa –, generica musica uplifting che sembra presa da Pixabay senza neanche pagare gli artisti e che fotte sistematicamente ogni qualsivoglia tentativo di creare suspense, e una faciloneria con cui si risolvono i problemi che mi ha fatto pensare più volte al “Super easy, barely an inconvenience” di Pitch Meeting. Il ziztema non funziona, come facciamoh?!? Lo rewiro io, non vi preoccupateh!! GEGNO!!1!1!!

“HEHEHE ti spoilero tutto!”
E lo so, è una storia vera, le cose sono andate così e non aveva senso ricamarci sopra. Di più: sarebbe stato moralmente deprecabile. Per questo chiunque ama il cinema dovrebbe sostenere fortemente le storie di finzione pura, magari sì, ispirate a fatti realmente accaduti, ma vivaddio cambiamo questi nomi e inventiamoci delle cose, per dindirinbacco! A raccontare la storia vera, seppure straordinaria eh, di come Chris Lemons sia riuscito, a corto di ossigeno, luce e speranze, a scalare un grosso collettore in fondo al Mare del Nord e di come i suoi colleghi siano riusciti a ritrovarlo e a salvargli la vita nonostante nel frattempo Chris fosse rimasto a secco di ossigeno per una buona mezzora, si finisce invischiati nel problema di fondo delle storie vere: sono belle quando sono vere, se diventano finzione lo sono meno. Salvo rarissimi casi, nonostante il famoso proverbio, la realtà non supera mai davvero la finzione. Specialmente nel cinema di genere.
A metà del film, Chris ha già raggiunto il tetto del collettore, come gli era stato consigliato da David al distacco del cordone. Il resto del film è gente che fa manovre su un set addobbato a ponte di una nave, riprese “in esterni” di una nave ricostruita in CGI e sommozzatori che aspettano in uno spazio angusto di poter uscire. Quando lo fanno, tutto si risolve in pochi minuti e molta gente si abbraccia.

[UPLIFTING MUSIC PLAYING]
Ciò detto, Woody Harrelson è sempre un piacere da vedere e tiene tutti ancorati intorno al suo consumato carisma, nonostante abbia poco da fare. Lo stesso vale per Cliff Curtis, mentre Simu Liu in versione duro di poche parole funziona meglio che in Shang-Chi. Auguriamo comunque il meglio ad Alex Parkinson: sono certo che quando dirigerà The New Avengers 2* nella fase dodici del Marvel Universe, ci saprà dimostrare davvero di che pasta è fatto.
Piattaforma (oceanica) quote:
“Subbacqui sub standard”
George Rohmer, i400Calci.com
Nota di merito al recensore per non aver mai fatto battute sulla mano ferma del regista nonostante il cognome.
Completamente in disaccordo. Su tutto. Infatti lo avevo suggerito tempo addietro come bellissimo film.
Ho smesso di leggere quando ho visto il nome del personaggio interpretato da Harrelson.
Magari dopo continuo.
Se ti chiami TUTTOCATSO non puoi che essere un duro
Questo me lo guarderò essendo del settore (avendo già visto il documentario) giusto per completezza.
Segnalo nella stessa categoria Thirteen lives, dove il film è moooolto più cazzuto del documentario. E la cosa della tensione è gestita bene perché per metà film si organizzano tutti per cercare dei cadaveri, quindi non c’è nessuna fretta. Tutto monta ssolo nel terzo atto praticamente.
Comunque nella categoria “film di tensione anche se sai come va a finire perché è una storia vera”, Argo resta in cima alla classifica. Sempre.
Thirteen lives, altro film bellissimo. Dove la realtà SUPERA la fantascienza. Ma evidentemente il recensore non è un romantico.
SubBacqueo?
SuBBaCCQUO
Uno o più SuBBaQQui!
Su rieduchescional cennel
Se devo guardare un thriller che non thrillera allora mi guardo il documentario e vedo i veri protagonisti della storia raccontarla direttamente. Se non sfrutti i mezzi del cinema meglio fare un bel documentario che comunque può essere interessante (non molto per me poiché non sono interessato a queste vicende ma ci siamo capiti.). Sarebbe come fare un film sui buchi neri ed invece che mettere su interstellar mi fai il film sul sudore della fronte dei matematici che li studiano, piuttosto allora mi guardo un documentario/leggo un libro sui buchi neri.