Sono una persona semplice: se mi dite “eccoti un horror sui funghetti allucinogeni” io immediatamente mi entusiasmo e voglio vederlo – è così che quasi quindici anni fa mi fregarono e mi convinsero a vedere quella cialtronata di Shrooms.
Sono una persona addirittura semplicissima: se mi dite “eccoti un horror sui funghetti allucinogeni con il figlio di Spielberg e Lena Dunham” io impazzisco di curiosità e smuovo mari e monti pur di vederlo il prima possibile – è così che di recente mi sono fatto fregare da Honeydew dell’esordiente dal nome migliore del 2021, Devereux Milburn, un film di disagio e di fare la cover di Non aprite quella porta ma con i vecchietti inquietanti, una hipsterata clamorosa di uno che vorrebbe essere Lynch o Kaufman e che nella sua costante ricerca dello stile e della sperimentazione visiva si dimentica di tirare un piedi un film con almeno una parvenza di ritmo.
Sapete qual è la vera fregatura? Che non c’è nessun cazzo di funghetto allucinogeno, non del tipo divertente e ludico che piace a noi (a voi, io ho detto no alla droga quando me l’ha chiesto); cioè, i funghi ci sono, ma sono una versione immaginaria di roba tipo la segale cornuta, parassiti contaminanti dei raccolti che se assunti in quantità sufficienti ti bruciano il cervello non nel modo piacevole che si associa di solito ai funghetti. È un film sull’ergotismo, non sui trip colorati, una scelta che di fatto non posso che rispettare, ma che porta Honeydew su binari completamente diversi (da cosa?) e a tratti inaspettati.
Il problema è la scelta del signor Milburn di procedere su questi binari a passo di lumaca, fermandosi ogni tanto ad ammirare il paesaggio e perdendosi dietro la contemplazione del suo stesso talento visivo, e del suo stesso ombelico. È un po’ una sega, Honeydew, inteso come atto di autoerotismo e non come strumento di bricolage; che c’entra anche lei in qualche modo con il film, perché il Milburn non si e non ci fa mancare nulla nella sua costante ricerca del disagio, e anzi fatemi chiarire: non lo sto bocciando in toto, perché Honeydew, un film che ha tanto in comune con Ciprì e Maresco quanto ne ha con il mumblecore, ha delle cose da dire. Anch’io ce le ho, però, e devo dirle al suo regista, sceneggiatore, montatore, insomma Autore; e gliele dirò dopo la SIGLA!
Non ho citato Kaufman a caso o per farmi bello: il primo atto di Honeydew sembra – immagino involontariamente visto che il film è pronto dall’anno scorso – scimmiottare con discreta efficacia quello del magnifico i’m thinking of ending things. C’è una coppia in strisciante crisi che sta viaggiando in macchina verso una meta non meglio precisata, c’è tutto un lavoro di montaggio (in generale, in tutto il film: uno dei difetti di Honeydew è che è troppo montato) che ci parla di incomunicabilità e dell’abisso invisibile e insolcabile che separa Sam (il figlio di Spielberg, appunto) e Rylie (Malin Barr), e c’è pure il giochino vagamente psichedelico di infilare immagini e sequenze apparentemente scollegate (un funerale, un tizio incappucciato) in mezzo ai dialoghi tra i due.
Lo spiegone ci viene fornito diegeticamente da un video di YouTube che spiega cosa sia l’ergotismo e come abbia influito negativamente sui raccolti, e quindi in generale la vita, di una comunità del New England. Che è quella che Rylie ha deciso di studiare per la sua tesi di laurea, poiché la ragazza è una botanica ed esperta di funghi parassiti; il suo compagno è invece un cameriere che vorrebbe fare l’attore, un dettaglio che ci viene fornito per la quota caratterizzazione ma che non ha in realtà nessun impatto sulla storia. Per cui i due stanno dirigendosi verso non si sa dove, litigando e punzecchiandosi nel frattempo, e in questo tripudio di dialoghi a mezza voce, split screen completamente gratuiti, inquadrature a effetto e dissolvenze artistiche a un certo punto arriva il momento di campeggiare.
Sapete cosa succede a una coppia che si mette a campeggiare in mezzo ai campi dove cresce il grano su cui cresce il fungo che ti fa crescere la paranoia? Tutte le sfighe previste da una sceneggiatura simile: prima scoprono di aver piantato la tenda nei campi di un tizio che si presenta in piena notte per cacciarli, poi gli si rompe la macchina, infine vagando nei boschi in cerca di segnale per chiamare i soccorsi trovano una casetta dove vive una simpatica vecchietta insieme al suo non magrissimo e poco loquace figliuolo. E nel momento in cui Sam e Rylie varcano quella soglia – al termine di una scena che è perfetta per illustrare quello che dicevo sopra sul fatto che il film è sovramontato – Honeydew prende esattamente la direzione a cui state pensando.
Però
lo fa
con calma
molta, moltissima calma
Consapevole di avere tra le mani una storia che si potrebbe risolvere in settantacinque tesissimi minuti ma per nulla intenzionato a farsi sfuggire l’occasione di mettere in mostra il suo talento, Devereux Milburn decide che “nel film ci sono i funghi allucinogeni” significa “ogni singola cazzo di scena è concepita, girata, montata e interpretata per ricordarti che stiamo parlando di funghi allucingeni”. Honeydew è una collana di sequenze oniriche spesso inspiegabili anche a posteriori, a volte spiegabili ma la cui spiegazione è una delusione, e una volta ogni dieci utili a portare avanti la storia o a darle un minimo di ritmo.
Non si risparmia nulla il Milburn, non bada a spese, urla “crepi l’avarizia!” e infila ogni singolo trucchetto che vi possa venire in mente pur di disorientare; senza alcun motivo veramente valido (il film spiega chiaramente fin dall’inizio che gli effetti del fungo si sentono dopo un po’ di tempo che lo si assume), Honeydew manda affanculo quasi subito l’unità di spazio, tempo e anche piano di esistenza, e mischia tutto, passato, presente, futuro, sogni, realtà, visioni, in un polpettone unico popolato di gente che geme, gente che sbava fissando il vuoto, gente che ha male da qualche parte e soprattutto gente che parla ma non ascolta, mai – immagino che ci possa essere dietro un discorso sull’incomunicabilità che si aggancia in qualche modo al rapporto tra i due protagonisti, ma il risultato è solo irritante perché Milburn spreca interi minuti a farci vedere gente che si parla senza parlarsi davvero invece di, per esempio, continuare a raccontare una storia.
Di buono c’è che Milburn azzecca una delle cose più importanti da azzeccare in un film così vuoto e rarefatto: l’atmosfera, e soprattutto il disagio di questa orrenda casetta di campagna dove della gente palesemente squinternata mangia in continuazione pezzi di carne di dubbia provenienza. Ha sicuramente aiutato il fatto che mentre stavo guardando il film da una casa qui vicina saliva un fortissimo odore di stufato e cavoli, ma anche senza l’Odorama Honeydew è un film che fa schifo ed è fiero di farlo, un horror da voltastomaco più che da salto sulla sedia insomma.
Se solo Milburn si fosse dato una regolata e avesse messo un freno ai suoi eccessi da arthouse, e alle sue ambizioni che sono sicuramente rispettabili ma che sembrano appiccicate con la colla sopra un film del genere, Honeydew sarebbe potuto essere una graziosa variazione sul tema della famiglia orribile che vive nei boschi, un po’ come è successo quattro mesi fa con Bloody Hell. Il problema è che in quest’ora e quarantasette minuti convivono due o tre film diversi, con aspirazioni altrettanto diverse e inconciliabili, e che si parlano troppo poco per integrarsi a dovere.
Ciò detto, a me i film ultralenti e pieni di disgusto e inquadrature artsy a effetto piacciono perché, come dicevo all’inizio, sono una persona semplice; e quindi Honeydew me lo sono relativamente goduto, anche se ogni tanto mi prudevano le mani e sicuramente avrei fatto a meno dei ridondanti dieci minuti finali che di fatto fungono da recap nel caso la gente si fosse distratta durante la visione. Voi però pensateci bene, soprattutto se date valore all’azione e al ritmo e al fatto che le cose nei film succedano, perché la possibilità che vi faccia infuriare è pari se non superiore a quella che vi stuzzichi le sinapsi.
LSD quote suggerita:
«Non mangiate quel funghetto»
(Stanlio Kubrick, i400calci.com)
PS e Lena Dunham? Be’, Lena Dunham si candida al premio Brava con una naturalezza invidiabile.
Sembra proprio quel tipo di film che piace a me, dove le cose succedono perchè si, dopo la visione passo settimane a ripensarci senza venirne a capo, e l’unica cosa che mi rimane è la sensazione di disagio.
Ah, solo a pensarci godo.
Non ho capito i tag riferiti a Popeye.
Ottimo! Così ora dovrai vedere il film per capirli e io ho fatto il mio mestiere.
Nonostante tutto, me l’hai venduto.
Ah…il vecchio caro Odorama rumeno.
Classico film che devi vedere nel mood giusto e nel posto giusto e magari con le persone giuste. Altrimenti è una merda (a livello arthouse siamo dalle parti de Le Streghe di Salem, ma senza autocompiacimento metal-boomer).
Nel senso: la stessa persona può ritenerlo un capolavoro o spazzatura a seconda del momento in cui lo vede.
Setting più classico possibile: Non aprite quella porta + Casa dei Mille Corpi + (recente) Bloody Hell. Al netto di gore, violenza, tensione, horror, umorismo ecc.
Essendo un coatto per me è una ciofeca ingiustificabile, con una storia che poteva benissimo essere un mediometraggio, dilatata con sequenze arty che gridano allo spettatore: “Se non ti piace sei un ignorante!”.
p.s. i tag popeye / olivia ecc.. ci stanno tutti! :-D
Ehm.. il Massachusetts è parte del New England
ahahaha hai ragione, che topica. Dopo la partita correggo, grazie.