Manca poco a S.Valentino! Sapete come funziona, no? Le feste sono quei giorni che servono a ricordarvi di fare cose che altrimenti il resto dell’anno non fareste. Noi ce le segnamo tutte sul calendario: essere buoni con gli altri il 25 dicembre, telefonare alla mamma l’8 maggio e poi questa storia del 14 febbraio che non abbiamo mai davvero capito come funziona, ma ci sforziamo ogni volta. A questo turno, proviamo a proporvi alcuni horror che secondo noi quando li abbiamo visti forse ci siamo arrivati vicini ma non siamo sicuri. Sappiateci dire.
Ah, San Valentino! Non lo sentite l’ammore spargere i suoi fragranti effluvi nell’aere? No? Nemmanco io, ché il mio cuore di non morto è incapace di commuoversi di fronte ai più basilari sentimenti umani. Ma c’è un film che riesce a smuovere qualcosa anche in questa gelida carcassa ambulante, ed è La moglie di Frankenstein. E come potrebbe essere altrimenti? È un film che sento inevitabilmente vicino e in cui mi identifico per ovvi motivi.
Faccio una premessa: quando sento i fans delle moderne saghe young adult lamentarsi se un film preso dalla loro serie di romanzi preferita non rispetta il testo fino all’ultimo punto e virgola, mi viene da ridere. Cinema e letteratura sono due cose molto diverse – tiro a indovinare qui, eh, non è che io abbia mai letto veramente un libro a parte quelli con le figure degli animali – e spesso “adattare” non è sinonimo di “usare il libro come sceneggiatura”. Il primo Frankenstein di James Whale, oltre a essere un colosso del cinema horror e del cinema tutto, è forse uno dei migliori esempi di questa teoria, che cioè tradire un testo a volte è necessario per rispettarne l’essenza. La trama del film era infatti basata più sulla versione teatrale di Peggy Webling che sul romanzo di Mary Shelley, ma riusciva a toccarne i temi profondi – l’uomo che gioca a fare Dio e ne soffre le indicibili conseguenze, la solitudine disperata del mostro – molto più di quel pasticciaccio di Kenneth Branagh che era più o meno fedele al romanzo. E siccome, nel fare ciò, Whale aveva anche creato un genuino successo, Universal pensò bene di dare il via libera a un sequel che, ovviamente, non aveva alcuna parentela letteraria. Così, aiutato da uno stuolo di sceneggiatori, Whale concepisce una storia basata su un’idea appena accennata da Mary Shelley nel romanzo: quella di una compagna del mostro. Nel libro, Frankenstein la distrugge prima di darle la vita, qui invece viene avvicinato da un losco figuro, tale dottor Pretorius, che lo invita a lavorare insieme per creare una femmina e allevare così una razza di uomini artificiali. ENTER THE METAFORONE: il mostro, Adamo di una nuova stirpe creata dall’uomo, diventa anche una specie di Cristo e nel gran finale si immola per i nostri peccati.
The Bride of Frankenstein già dal titolo segna un cambio di prospettiva importante: Frankenstein non è più il povero dottor Henry ma proprio la creatura, e così sarà da allora in avanti. Quando dici Frankenstein, ancora oggi non pensi allo scienziato ma al mostro, e per quanto sia letterariamente “sbagliato”, nulla si può contro la potenza di fuoco della cultura popolare. La moglie di Frankenstein è anche uno dei rari sequel che inizia esattamente da dove si era concluso il precedente: a parte un prologo con Mary Shelley (Elsa Lanchester, che interpreta anche la “moglie”), che racconta la storiella a suo marito e a Lord Byron e ha la stessa funzione della vocina all’inizio delle puntate delle serie TV moderne (“Previously on Frankenstein”), le vicende riprendono da subito dopo l’incendio al mulino dove il mostro veniva assediato nel primo film.
Whale e compagnia erano ben consapevoli dello status di icona già assunto dal “franchise” ed erano assolutamente determinati a sfruttare i “trademark” del “brand”. Lo dico in termini da guru del marketing di oggi per farvi capire quanto la mentalità non sia poi così cambiata negli ultimi ottant’anni (sì, La moglie di Frankenstein ha ottant’anni precisi). Un esempio per tutti: la battuta “It’s alive!”, tanto centrale nel primo film, viene pronunciata nel seguito da diversi personaggi, anche se il senso è sempre stravolto dal diverso contesto. Prima la grida Minnie, domestica di Frankenstein, per avvertire il villaggio che il mostro è, effettivamente, “ancora vivo”. Poi la ridice lo stesso Frankenstein quando la sua nuova creatura prende vita, solo che stavolta la declina al femminile: “She’s alive!”. Giocando con essa, Whale gioca allo stesso tempo con la consapevolezza del pubblico utilizzando un’auto-ironia tongue-in-cheek modernissima. La moglie di Frankenstein è un film sorprendente anche per come riesce a fondere orrore e commedia molto prima dei primi esperimenti “ufficiali” come Un lupo mannaro americano a Londra. Gianni e Pinotto non li contiamo, perché quella è parodia: qui invece c’è l’abilità indiscussa di un autore di cambiare registro, passando dai siparietti comici con protagonista Minnie (la grande Una O’Connor), alla presentazione delle grottesche creature in miniatura di Pretorius e ai terrificanti exploit omicidi del mostro.
Ma arriviamo all’argomento che ci sta più a cuore, nella settimana di San Valentino: L’AMMORE! Nel film, è un sentimento più suggerito che mostrato, più teorico che fisico. Il mostro di Frankenstein è davvero il prototipo di Hulk, una creatura nobile d’animo che cerca la pace e diventa violenta solo quando viene aggredita. Il che, visto il suo ripugnante aspetto di gigante deforme con la testa quadrata e piena di cicatrici di Boris Karloff, succede tipo ogni volta che incontra qualcuno. La moglie di Frankenstein resta comunque il perfetto film di San Valentino perché verte principalmente sul bisogno innato di ogni essere umano di trovare una compagna, o almeno un amico, per scacciare la solitudine. Il mostro ci spera fino alla fine, quando Pretorius e Frankenstein si rimettono al lavoro. Lo vedi tutto eccitato in ansiosa anticipazione durante l’esperimento, e quando tutto va sonoramente a mignotte capisce che non c’è posto nel mondo per un reietto come lui, che i viventi sono decisamente sopravvalutati e che da soli non si va da nessuna parte. Meglio morire, piuttosto che deambulare per una vita intera in mezzo a boschi in bianco e nero senza qualcuno da amare. Perciò amatevi, cari lettori e care lettrici, in questi fausti giorni di gaudio, e pensate a tutti i poveri zombi là fuori da soli, al freddo, a vagare in cerca di cibo e un po’ di conforto nelle gelide foreste delle Alpi bavaresi, mentre ve ne starete al calduccio del vostro salotto a riguardarvi La moglie di Frankenstein. Bastardi.
DVD-quote:
“I vivi sono sopravvalutati”
George Rohmer, i400Calci.com
CAPOLAVORO. La scena degli omuncoli di Pretorius e’ indimenticabile, e adoro la parte struggente del cieco. Grande George!
CAPOLAVORO. Filmissimo, ha ancora oggi un gran ritmo, delle scene notevolissime (la chiacchierata amichevole tra Pretorius e la creatura nella cripta, tra le tante), il colpazzo di scena dell’attrice per Mary e pare la moglie – che io quando l’ho visto la prima volta non ne sapevo nulla e l’ho trovato effettivamente grandioso.
Gran gran film.
Gli preferisco il primo sebbene questo sia più inventivo come le già citate “bambole del prof.!
Mi ha colpito l’ inizio visto che tradisce la fine del primo! Lì infatti finisce con il dottor Frankenstein si risvegliava il giorno dopo i fatti. Qui invece comincia poco dopo questi quando il doc viene portato a casa tradendo così il finale del predecessore!
Quasi 60 prima de “La casa 2” e “L’ armata delle tenebre”! XD
Chissà perchè questa scelta bislacca! Boh!
Ora non ho tempo purtroppo di leggere, ma mi accodo anch’io in caps-lock: CAPOLAVORO.
@fra x. Beh ma si risveglia comunque, cambia solo lievemente la modalità.
che bello, con queste recensioni rendete piacevole anche san valentino
Aaaaah… ma quindi San Valentino sarebbe una cosa tipo così…!
Un capolavoro assoluto della storia del cinema!!