
Delicatissimo.
Buongiorno, mi chiamo Stanlio Kubrick e ho 40 anni. Questo fatto increscioso mi porta anche, come conseguenza, a conoscere molte donne della mia stessa età e dintorni, e siccome alcune le conosco da parecchio tempo ho imparato una serie di cose. Una di queste per esempio è che nessuna si sognerebbe mai di andare a rispondere alla porta in sottoveste sexy e invitare lo sconosciuto che si è presentato sulla sua soglia grazie a un po’ di sano stalking a prendere un bicchiere di vino. Un’altra cosa che ho imparato, per dire, è che nessuna delle mie amiche quarantenni risponderebbe mai con un “sì!” pieno di entusiasmo a un invito a passare un weekend in montagna in piena solitudine in una capanna in mezzo ai boschi con un tizio che ha appena conosciuto e che non vale ancora la pena presentare neanche alle amiche.
Tutto questo per dire che A Wounded Fawn inizia un po’ come quei film-spiegone che vanno tanto di moda ultimamente, quelli fatti da maschi che ti spiegano quante cose brutte i maschi facciano alle femmine e per farlo imbastisce situazioni talmente assurde che sarebbe bastato chiedere consulenza a una femmina, che avrebbe risposto “nessuna donna al mondo farebbe mai questa roba”. Le due donne del film di Travis Stevens fanno esattamente le due scelte che ho descritto sopra: la prima finisce ammazzata nella sequenza di apertura, come da tradizione, mentre la seconda… ah, è qui che A Wounded Fawn prende una piega interessante, e che retroattivamente giustifica anche l’inizio zoppicante.

Sottilmente allusivo.
Travis Stevens è un bell’uomo, brizzolato, sembra un po’ Mads Mikkelsen, guardate. Ha alla spalle una lunga carriera da produttore che l’ha portato a svariare da Big Ass Spider! al documentario sul Dune di Jodorowski, e da qualche anno ha deciso di cominciare anche a fare i films in prima persona. Ne ha fatti due, per ora (prima di AWF, dico, che è il suo terzo), e sono entrambi films che in un modo o nell’altro parlano di questioni di genere. A Wounded Fawn invece non parla esattamente di questioni di genere, non è neanche, credo, quello che si potrebbe definire “film femminista” nonostante parli di violenza sulle donne. Non lo è perché non ha alcuna intenzione di problematizzare alcunché: è un film su un serial killer – che manda serial killer vibes da lontano un miglio, peraltro, sempre per il discorso di cui sopra sulle donne quarantenni – e sulla sua ultima vittima, nel quale non c’è mai granché da equivocare o interpretare; non è Barbarian, Fresh, Run Sweetheart Run solo per citarne tre molto recenti che parlano in superficie delle stesse cose. A Wounded Fawn è più che altro un Mandy meno interessato ai meme e a Nicolas Cage tutto pazzo e più alla pura botta di droga, oppure quel genere di film che una volta faceva Rob Zombie e che oggi non ha più la voglia o la forza di fare. Un film di panza e quindi di sostanza, sgangheratissimo anche quando prova a essere fighetto, con pochissima vera tensione e ancor meno didascalie (che però quando arrivano sono scritte grosse così). Una bella botta, come questa SIGLA!
Meredith è quella che certi rotocalchi definirebbero una splendida quarantenne, ma è anche single dopo essere appena uscita da una storia terribile con un uomo violento e che abusava di lei. Proprio per questo motivo è curioso vederla raccontare alle amiche, nella prima scena in cui la incontriamo, i suoi progetti per il weekend: recarsi insieme a un tizio appena conosciuto in una casa nel bosco et cetera, l’ho già scritto sopra. Cosa potrà andare storto? Apparentemente nulla, almeno a giudicare da come inizia il weekend: ad accompagnare Meredith c’è infatti nientemeno che un affascinantissimo Gianluca Zambrotta.

«Ehi baby ti ho mai raccontato di quella volta contro la Germania?»
Zambro è ovviamente lo stesso maschio omicida della sequenza di apertura, il che mette già A Wounded Fawn su binari molto chiari: non stiamo assistendo a una commedia degli equivoci alla fine della quale potremmo scoprire che il maschio di turno è davvero un serial killer, oppure al contrario che nel sottoscala vive un mostro. No, stiamo assistendo a un massacro annunciato, a un sacrificio con una certa aura di ritualità: già la morte della povera Kate ci ha dimostrato che Gianlucone nostro non ammazza perché gli va, ma perché ispirato da un coso antropomorfo a forma di gufo rosso che compare nei momenti peggiori per suggerirgli di squartare la sua prossima vittima con un tirapugni arrugginito.

Il gufo rosso…

… il tirapugni arrugginito…

… e la classica sega nel lavandino post-omicidio.
A Wounded Fawn è un film visivamente potentissimo e pieno di immagini che ti si stampano in testa, anche quando sono sbilenche e sgraziate. “Serial killer porta vittima nel suo covo, poi la uccide” non è una gran trama ma è esattamente quella di A Wounded Fawn, che non ha vere ambizioni narrative ma un unico grande scopo, che è quello di stupire, stordire e, nella mezz’ora finale, straripare. Come nei migliori horror, per esempio, c’è anche una statuetta di mezzo: rappresenta, sempre per il solito discorso di mascherare il più possibile il metaforone così da non farlo spiccare come un pugno nell’occhio di una mosca bianca sul muro, le tre Erinni, cioè la vendetta personificata della mitologia greca. Le Erinni vendicavano un po’ di tutto mentre qui sono specializzate in donne a cui sono stati fatti dei torti tipo ucciderle: è un’interpretazione un po’ restrittiva ma d’altra parte dal Frightfest il capo mi dice che a domanda sull’argomento tipo “come ti sei documentato sulle Erinni?” Stevens abbia risposto “ho letto Wikipedia”, e tutto sommato è un’interpretazione funzionale al film, quindi ce la facciamo andare bene.
Sto graziosamente girando intorno al fulcro della vicenda ma a meno che non vi chiamiate Fabrizio (tranquillo Fabri a te la spiego dopo) dovreste avere capito che (gasp) in A Wounded Fawn succede che il serial killer fa la sua cosa che però va storta, e di conseguenza viene punito, o vendicato. Che ci sia qualcosa di sovrannaturale dietro il film lo fa intuire fin da subito, popolando la capanna nel bosco dove si svolge la vicenda di apparizioni, rumori, porte che sbattono e inserti psichedelici con colori fluo e botte di suono improvvise; che cosa questo sovrannaturale possa essere viene altrettanto suggerito da, be’, da tutto quello che succede fin lì, dal femminicidio alla statuetta greca. Insomma, per dirla con le parole di uno dei più grandi artisti viventi,
E Stevens la ribalta proprio bene. È impossibile non avere dei dubbi su A Wounded Fawn almeno per i primi, boh, cinquanta minuti, durante i quali ci si chiede “dove vorrà andare a parare? Come riempirà il resto del minutaggio?”. La soluzione di Stevens è quella di riempirlo di droga, di “mitologia” “greca” e di Hyeronimus Bosch.
C’è anche un discreto scarto di tono tra quello che si vede nelle prime sequenze e quello che A Wounded Fawn finisce per diventare. Quella che sembra una hipsterata con pretese autoriali, sfocia pian piano in un’apparente parodia (c’è un momento in particolare nel quale è impossibile chiedersi “ma fa sul serio?”, c’entra un cane) e fiorisce poi, quando più conta, in una settantata psichedelica e stortissima con sangue a litri e alcuni degli artifici di scena più adorabilmente retrò che possiate immaginare – ancora una volta senza spoiler ma è un film nel quale si usano delle lenzuola svolazzanti con grande effetto, e non importa che siano ridicolmente posticce a causa del budget risicato, hanno il merito di sembrare posticce per una precisa scelta estetica, e probabilmente lo sono. Vale per quasi tutto quello che succede nei trenta minuti finali. Vorrei regalarvi qualche succosa anticipazione ma non vorrei rovinarvi la sorpresa, per cui eccovi uno Zambrotta un po’ sorpreso da quello che sta vedendo:

«MACCOSA! Ti stavo raccontando dello scherzo che ha fatto Pirlo quella volta, troppo simpatico Andrea…»
Però qualcosa ci tengo a regalarvelo, perché davvero A Wounded Fawn è un film che fa dell’impatto visivo (e sonoro, ma quello è più complicato da farvi sentire) il 74,93% della sua forza, e parte di questa forza è nel suo essere potenzialmente respingente, settantiano sì ma anche raimiano senza vergogna alcuna, volutamente assurdo ed esagerato.

Le maschere pazze sono tendenzialmente rappezzatissime. Questa almeno è tutta lucida, ma rimane un piatto di plastica usa-e-getta sagomato e colorato. Personalmente la trovo fantastica.

Insinuazioni sempre più leggiadre.
Provo a riassumere tutto in questo concetto: A Wounded Fawn è il genere di horror drogatissimo che a un certo punto usa non ironicamente un coro greco per far passare il suo unico, semplice messaggio. Nel farlo riesce nel miracolo di aggirare la sindrome da monocolo in corno e risultare invece una caciaronata che solo un americano finito in un wikivortex e uscitone convinto di essere un esperto poteva immaginare. È un film che sarebbe bello godersi in una sala cinematografica ma ahimè è uscito su Shudder ed è quindi destinato esclusivamente allo streaming; quantomeno se potete guardatelo con un buon impianto, o un paio di cuffie coccolose, qualsiasi cosa vi impedisca di farvi troppe domande e vi faccia godere della pura botta. È un film più scemo di quello che crede, A Wounded Fawn, pur non essendo per niente stupido, e per questo gli ho voluto tanto bene.
Non al cinema quote
«Un film scemo ma non stupido»
(Stanlio Kubrick, i400calci.com)
Sono confuso, ma anche un po’ arrapato. Non ho capito se lo devo guardare o se è offensivo nei confronti di uomini e donne insieme.
Scemo si ma fesso no
Ho avuto la fortuna di vederlo in sala, al ToHorror, e di essere uscita dalla proiezione galvanizzata e saltellante. Un film di drogarsi male, sì, ma un gran bel film (d’altronde i gufi, da Deliria a Koike, portano sempre un gran bene!).
Recensione molto bella. Ogni volta che ci mettete dentro Fabrizio le recensioni spiccano il volo!
Solo una cosa: delle Erinni pescate da Wikipedia ho capito, ma invece il criaturo che ispira il serial-killer viene poi approfondito o è una roba buttata lì e poi abbandonata?
Approfondito nel senso di spiegato no, diciamo che si intuisce qualcosa da come va il film e da quello che gli succede ma è tutto abbastanza aperto – anche se non direi abbandonato, non è che a un certo punto se ne dimenticano, solo che te lo “spiegano” a botte di droga e non di parole.
Visto e piaciucchiato abbastanza.
La bera sfida che vorrei da parte vostra è una recensione su SKINAMARINK , andrebbe visto a buio pesto e ,se possibile, con cuffie o buon impianto audio.
Spero sinceramente che lo caghiate.
Bella rece. Cos’è la sindrome da monocolo in corno ?
Sto letteralmente odiando questa cosa che una buona parte dei film interessanti da vedere al cinema, finisce solo in visione sulla rete. Questo e “Barbarian” meritavano la sala.