Come quelli che scrivono i messaggi importanti sui social iniziandoli con “Tette!” per attirare l’attenzione, eccomi a scrivere una recensione di Hunt inserendo nella prima frase le parole “Squid Game” a uso indicizzazione, like a pro. Lo ripeto: Squid Game! Google siamo qui!
Non lo sto facendo a caso, però. Cioè non prendetemi come uno di quelli che ha scoperto la Corea del Sud con Squid Game e ora deve inserirla in ogni frase per far vedere che ce ne capisce un tot. Qui il collegamento è assolutamente diretto: il regista e co-protagonista di Hunt è Lee Jung-jae, protagonista della serie Netflix. Questo è il suo primo film da regista, e possiamo tranquillamente supporre che, non fosse stato per il successo interplanetario di Squid Game, non avrebbe ottenuto questa chance. Ma per fortuna è andata così.
Quando un attore esordisce alla regia, è sempre un terno al lotto: da un lato parliamo di gente che è stata su molti set, ha visto lavorare molti registi e forse una o due dritte le ha anche colte. Dall’altro gli attori possono essere incredibilmente autoreferenziali ed egocentrici, e prediligere la recitazione alla regia, ovvero la parola all’immagine, anche passando dall’altra parte della macchina da presa. E questo per un film può essere deleterio, perché ti ritrovi davanti a quei pipponi in cui tutti recitano intenzi e non c’è un’idea di cinema a pagarla oro. Ma per fortuna non è andata così.
Con Hunt, Lee Jung-jae dimostra una maturità inaspettata già al suo primo film, e non era scontato. Non c’è niente di originalissimo, eh, anzi: Hunt si pone a metà strada tra il cinema di spionaggio britannico/americano, la roba slow burn tipo La talpa e La spia – A Most Wanted Man, tra continui ribaltoni e colpi di scena, grigiume da guerra fredda, paranoia e sospetto, e il classico action poliziesco di Hong Kong, che predilige melodramma e sparatorie a tutto spiano. In particolare mi riferisco a Infernal Affairs, che Hunt cita abbastanza apertamente nel suo essere la storia di due agenti rivali dalla personalità abbastanza simile ma dalle ideologie opposte, in cerca di una fantomatica talpa che sta fornendo informazioni riservate alla Corea del Nord per attentare alla vita del presidente sudcoreano*. Loro – uno interpretato da Lee, l’altro da Jung Woo-sung – sono il fulcro del film. Uno è il capo dell’ufficio interni del servizio segreto, l’altro dell’ufficio esteri (in pratica l’FBI e la CIA, credo), l’uno sospetta dell’altro, l’uno indaga sull’altro ed è disposto a tutto pur di dimostrare che il rivale è la talpa.
Hunt è ambientato nella Corea del Sud dei primi anni ’80 e ingloba nel suo svolgimento tre eventi storici particolarmente importanti (inforca gli occhiali): la rivolta di Gwangju (1980), la defezione del pilota nordcoreano Lee Woong-pyung (1983) e l’attentato dinamitardo di Rangoon, in Birmania (1983). Lee e lo sceneggiatore Jo Seung-Hee li prendono e li rimescolano per raccontare una storia di finzione che funga un po’ da sintesi dell’atmosfera che si respirava all’epoca in Corea del Sud, stretta nella morsa di una dittatura militare e sempre a un passo da una devastante guerra con il Nord. La trovata, come detto, è quella di raccontare tutto questo attraverso la storia molto personale di due individui complessi, che si fanno un po’ metafora della rivalità fratricida tra le due Coree. Non ci sono buoni o cattivi in Hunt: chiaro, il colpo di scena che arriva a un certo punto dipinge uno dei due protagonisti sotto una luce leggermente migliore, ma non parliamo di eroi e villain. A Lee interessa più che altro vedere fino a quali estremi possa spingersi un individuo che abbraccia un’ideologia come se fosse l’unica possibile verità, e cosa accada quando quell’ideologia ti tradisce, rivelando la sua bassezza.
Lungi dall’essere il pippone di cui dicevamo prima, però, Hunt si mantiene ben saldo nel cinema di genere e Lee dimostra la sua bravura dove meno te lo aspetteresti: non nei duelli di sguardi tra attori, ma nel caos controllatissimo delle scene d’azione. Ci sono due o tre sparatorie nel film che sono davvero ben coreografate e studiate, raccontano molto dei personaggi, come dovrebbe sempre essere, e fanno da contraltare alle parti di tediosa indagine tenendo alto il ritmo del film. E che soprattutto sono una bella sberla di violenza. Oltretutto mi aspettavo di capirci la metà, dato che di solito non sono molto brillante quando si parla di spionaggio (leggi: non ci capisco mai un cazzo), figurarsi quando tutti parlano coreano e bisogna leggere i sottotitoli. E invece, toh, Lee Jung-jae riesce anche a mantenere una lucidità e una chiarezza espositiva encomiabile dall’inizio alla fine.
Il finale è forse il punto in cui tutto finisce un po’ per scricchiolare, per colpa di una ricerca dello spettacolo a tutti i costi che costa al film un po’ di quel crudo realismo che era il suo punto di forza principale. Uno spettacolo che, per carità, ha basi storiche, ma Lee finisce per calcare un po’ troppo la mano cercando lo scontro finale epico tra i due rivali. Per fortuna, l’epilogo beffardo, che ricorda più The Departed che Infernal Affairs, riporta tutto nei giusti binari e ci lascia con la sensazione di aver trovato un nuovo regista a cui volere bene. Ora non resta che sperare che Lee si muova a girare The Acolyte, la prossima serie di Star Wars, per poi tornare a fare le cose importanti. Noi aspetteremo fiduciosi.
*Il MacGuffin del film è proprio questa operazione, denominata “Peter Hunt” dal fatto che il nome cristiano del presidente è “Peter”. Mi piace pensare che sia un omaggio al regista di Al servizio segreto di sua maestà, nonché montatore di tanti film della saga di Bond.
DVD quote:
“L’incrocio tra La talpa e Infernal Affairs che non pensavi di volere”
George Rohmer, i400Calci.com
Ora, io lo so che non c’entra niente, ma una ventina di anni fa incappai in un poliziesco d’azione tutto sparatorie ambientato, credo, a New York, su Italia 1 o Rete 4…
Ne trasmisero un’ora circa, spot pubblicitari esclusi, prima di rendersi conto che una roba del genere NON poteva assolutamente andare in onda nel pomeriggio (ma neanche a notte fonda, secondo me ): era una continua sparatoria con decinaia di morti ammazzati e a ogni colpo a segno, la elecamera indugiava nel dettaglio su frattaglie, cervella sparse, biancheggiare d’ossa spezzate e molto altro, al ritmo di 3/4 inquadrature al minutosecondo.
Premesso che non ho mia fatto uso di droghe e non mi è mai stato diagnosticato alcun disturbo mentale, qualcun altro se ne ricorda?
Tipo “The Berlin file”, ma con le pistole invece che le botte?
Domanda tecnica. Qualcuno ha capito se c’è modo di usare i link del sito da smart TV?
Son curioso anch’io perché non li facciamo in nessun modo speciale…
Non usare le smart tv che sono il tecno male.