Avete presente quando faccio le battute sui Titolisti Italiani ™ e su come titolano i film ad mentulam canis? Lo faccio perché i titoli sono importanti, parafrasando il quasi omonimo di Nanni Cobretti. Saper titolare bene è un’arte che, spesso, in Italia ignoriamo. Siamo schiavi di una prosaicità dalle radici profonde, tipo che ogni film horror oggi deve avere, per qualche ragione, “del male” nel sottotitolo (The Nun – La vocazione del male, La casa – Il risveglio del male, L’angelo del male – Brightburn). Ma sto divagando.
Il punto è che il senso ultimo de La società della neve, il nuovo film di Juan Antonio Bayona, lo si evince già dal titolo. E non è che Bayona se lo sia inventato: stiamo parlando di una storia vera, il famoso “Miracolo delle Ande” già raccontato in Alive – Sopravvissuti e I sopravvissuti delle Ande, uno dei più celebri disastri aerei e delle più esaltanti storie di sopravvivenza di tutti i tempi. Furono gli stessi superstiti a coniare il termine “Società della neve”, quando si resero conto che, per sopravvivere, avrebbero dovuto dividersi i compiti e ricreare in questo modo una struttura sociale simile a quella della vita “normale”. Che poi è un po’ quello che ha permesso agli Homo Sapiens di dominare il pianeta, se ci pensiamo. Dunque chi stava studiando medicina – in particolare proprio uno dei due eroi del Volo 571, Roberto Canessa – fu eletto medico, chi aveva nella sua vita provato almeno una volta a smontare una radio diventò l’ingegnere di turno, chi di lavoro faceva il critico cinematografico… ah no, quello non serve a un cazzo.
Quindi, ecco, come dicevo Bayona quel titolo non l’ha scelto per nulla a caso: il suo film parla proprio di come per sopravvivere sia necessario fare squadra, e come questo non sia per nulla scontato e, anzi, proprio il non fare squadra ci spinga spesso verso la catastrofe. Che non sia affatto scontato lo si capisce praticamente subito: La società della neve si apre infatti con la squadra di rugby protagonista che non riesce a fare squadra manco sul campo. C’è lo stesso Canessa che, pur di non passare la palla al compagno Nando Parrado, l’altro eroe del gruppo con cui poi, alla fine, intraprenderà il viaggio della salvezza, perde il punto. È un po’ didascalico come inizio, ma mette bene le cose in chiaro, tematicamente, ed è uno show, don’t tell che fa tesoro degli strumenti del cinema.
Poi inizia il film vero e proprio, con l’incidente aereo ottimamente ricostruito e la conseguente odissea di 72 giorni nel mezzo delle Ande che ridusse l’equipaggio da 45 a 16 persone. Bayona sceglie una ricostruzione cronachistica degli eventi, con un’obbiettività ben lontana da Alive, e in generale dal modo tutto americano di plasmare degli eventi per farli combaciare con una struttura tematica e narrativa a tre atti. Non che La società della neve non ce l’abbia, sia chiaro, è solo che Bayona la nasconde meglio e, soprattutto, fa una cosa che non molti film corali fanno: è davvero corale. Come non sceglie a caso il titolo, infatti, Bayona non sceglie nemmeno a caso il punto di vista: le vicende sono narrate da Numa Turcatti (Enzo Vogrincic), uno dei tanti ragazzi che si trovavano su quel volo sfortunato. Bayona avrebbe potuto fondare facilmente tutto sull’arco di maturazione di Nando Parrado (Agustín Pardella) o Roberto Canessa (Matías Recalt), ma così il film avrebbe assunto il sapore di una cosa già vista, la solita storia del predestinato alla grandezza che abbiamo visto troppe volte.
E poi avrete sicuramente notato una cosa: ho messo i nomi tra parentesi manco fossimo su Ciak, ma l’ho fatto perché così si capisca che non stiamo parlando di attori famosi. Scegliendo volti poco noti, Bayona si assicura che nessuno risalti come vero protagonista sin dall’inizio. Anzi, il modo in cui la storia è gestita mi ha fatto venire in mente Alien: oggi lo sappiamo che Ripley era l’eroina del film, anche perché hanno poi fatto tre sequel, ma nel primo la sua statura emergeva lentamente, mentre si passava da una storia corale a una sfida a due.
Qui, i primi due atti sono completamente visti dagli occhi di Numa. Quando Numa sta male, e non può partecipare alle spedizioni, queste ci vengono raccontate in flashback. È Numa che vede per la prima volta Nando e Roberto fianco a fianco, da lontano, attraverso l’oblò dell’aereo, e solo in seguito, quando finalmente i due sono partiti per la missione finale, li vediamo in primissimo piano. C’è un passaggio del testimone visuale e narrativo raffinatissimo, che dimostra come Bayona sia in effetti uno veramente bravo – se per caso ce ne fossimo scordati dopo Jurassic World: Il regno distrutto. Per fortuna qui siamo di fronte al Bayona di The Impossible, che si conferma forse il migliore a raccontare i disastri e le loro conseguenze. E, ironicamente, c’è più Spielberg in questo film di quanto ce ne fosse in Jurassic World.
Siccome siamo su i400Calci, è giusto dire qualcosa sulle scene “d’azione”. Perché, sì, La società della neve è soprattutto un drammone (di quasi due ore e mezza) che racconta questa presa di coscienza collettiva e la forza che il singolo può trarre dalla comunità, ma le scene catastrofiche e di tensione non mancano. Il disastro aereo è raccontato in maniera succinta e rigorosa e, pur concedendo un filo troppo alla CGI, funziona come brutale wake up call per tutti i coinvolti. La “sfida centrale”, se vogliamo tornare alla struttura a tre atti, è invece la valanga che, a un certo punto, colpì il relitto quando ormai i sopravvissuti erano riusciti a crearsi un decente sistema per tirare avanti alla meno peggio. Ne segue una scena angosciantissima e claustrofobica, in cui Bayona fa un ottimo uso dell’angusto spazio della fusoliera. E poi naturalmente ci sono le escursioni dei protagonisti, scene in cui invece Bayona mette a confronto il molto piccolo, gli esseri umani, col molto grande.
La società della neve non è privo di difetti, sia chiaro. La voce narrante di Numa a tratti è parecchio didascalica e, in alcuni passaggi, Bayona si lascia andare a un comodo “Lo dimo”. Ad esempio quando si tratta di raccontare quanto la cosa più terribile che toccò fare ai superstiti, ovvero il ben noto cannibalismo, fosse diventata in breve tempo normalissima. Bayona lo fa dire a Numa, ma dimentica di mostrarci questa progressione: passiamo da “Ci tocca mangiare i cadaveri” a un tizio che raccoglie un pezzettino di carne da una cassa toracica completamente spolpata. Ci sta che Bayona non abbia voluto concedere troppi dettagli gore, che avrebbero aggiunto una nota sensazionalistica fuori luogo a una storia di quieta sopravvivenza: a lui, in fondo, interessa solo usare il cannibalismo come allegoria del trarre forza dagli altri – abbastanza letteralmente, al punto che tutti arrivano a dare il loro consenso a essere mangiati, il sacrificio totale del singolo per il bene comune. Ma in qualche modo avrebbe dovuto rendere l’idea di quanto quella decisione, così fondamentale, sia stata allo stesso tempo disturbante, devastante a livello psicologico, soprattutto per un gruppo di ragazzi fortemente cattolici, che dovettero arrivare a giustificarla tirando in ballo il sacramento della comunione. Il film invece quell’idea non la rende affatto: la decisione viene presa, se ne discute un attimo (a parole), e poi via a mangiare carne cruda di esseri umani. Non si sente mai il ribrezzo che chiunque di noi proverebbe, ed è un problema, perché è su questo che si basa l’arco narrativo di Numa stesso.
Alla fine, nell’economia generale del film, questo non è che un dettaglio: Bayona si concentra su altro, su come, anche nelle condizioni più impensabili, gli esseri umani tendano a ricreare una quotidianità e una normalità. Dopo il salvataggio, la regia indugia sui dettagli del relitto, trasformato, in un paio di mesi, in una vera e propria casa. Bayona ci parla così di come l’arma evolutiva principale dell’Uomo sia proprio la sua capacità di trasformare il suo ambiente, di modellarlo alle sue esigenze. È così che Bayona si fa perdonare qualche strafalcione e ci regala una catarsi finale da sudore agli occhi, quando infine quei cadaveri magrissimi tornano in vita e si riuniscono ai loro cari. L’ultima inquadratura, la squadra riunita in uno spazio chiuso, è all’estremo opposto della prima, l’immensità vuota delle Ande. Questo è il cinema.
Netflix quote:
“Le montagne della normalità”
George Rohmer, i400Calci.com
bellissimo pezzo, ed interesse innescato.
@George potevi spingerti oltre “Ciak” – fino agli abissi delle riviste che prendi alla cassa del supermarket – mettendo tra parentesi l’età dell’attore (“nella foto, Ciccio Pesce (45) e Carla Stafava (36)”)
@George non lo so… forse mi è piaciuta più la tua recensione del film… l’ho visto qualche giorno fa, non ricordavo “l’originale” anche se ne ho sentito parlare e credo anche di averlo visto, quindi non ho fatto paragoni, ma al di là di qualche scena veramente ben fatta (la valanga ad esempio o l’arrampicata alla ricerca della coda dell’aereo) l’ho trovato…. uno di quei film di cui poi dici “bella la fotografia!” ecco.
Considerando il fatto che il film di JW di Bayona è stato l’unico film con dei dinosauri che mi abbia fatto mai addormentare, direi che non è il regista per me.
“Le Montagne Del Male”
ahahahahahahahahahaahah
Le Ande Del Male
L’Aereo Del Male
Il Ghiacciaio del Male
Ho mollato al taglio della prima bistecca, le reazioni dei personaggi in relazione al contesto, a quanto accaduto e alle scelte cui sono obbligati sono del tutto senza senso, in pratica sembrano dei robot
“Passami un altro pezzo di co-pilota!”
“senti ‘sto geometra, è greco”
È che i fate troppo carichi sti cadaveri
Non certo grazie all’aereo, siamo… sopravvissuti!!!
Si vede che i titolisti hanno dimenticato l’infallibile sistema Sticazzi/Mecojoni, illustrata da Enzo G. Castellari, di cui agevolo filmato:
https://www.youtube.com/watch?v=m7hDHQKlBzo
non sapevo niente di questo film e giusto stamattina entrando al bar vedo un servizio sugli effetti speciali del film, torno a casa con il caffe per “iniziare a lavorare” e scopro la recensione sui 400! :D