Meat Loaf racconta che quando fu ingaggiato per il doppio ruolo di Eddie e del Professor Scott nella prima versione teatrale americana del Rocky Horror Show non aveva ricevuto il copione per intero e conosceva la trama solo a grandi linee.
Non sapeva nulla.
Racconta che provò le sue canzoni e qualche altra cosetta sparsa con il resto del cast per un paio di settimane.
Poi arrivò Tim Curry.
Non aveva idea di che aspetto avesse il suo personaggio.
Quando Tim fece il suo ingresso sulle note di Sweet Transvestite, Meat Loaf ebbe una reazione pacata: si alzò, si girò, uscì dal teatro senza voltarsi e tornò a casa con l’idea di rimanerci. Era un attore ambizioso e non aveva la minima intenzione di far parte di un “drag show”.
Sempre stando alle sue parole lo dovettero convincere forte per tornare, cominciando col passargli il copione per intero. Alla scena in cui lui, nel finale, nei panni del Professor Scott, solleva la coperta che gli copre le gambe sulla sedia a rotelle e alza la gambona svelando inaspettatamente calza a rete e tacchi a spillo, ebbe la rivelazione definitiva: “è una commedia!!!”.
Meat Loaf, pace all’anima sua, non ha mai capito un cazzo del Rocky Horror Show.
Ci ha recitato per anni, come parte sia del cast teatrale originale che della versione cinematografica. E con il pezzo che canta nel film ci apriva i suoi concerti.
Ma non ci ha mai capito gioiosamente un cazzo.
L’intervista in cui racconta questo aneddoto è stata fatta da Eli Roth, per il suo podcast, appena tre mesi prima che Meat Loaf ci lasciasse (per il pianeta Transylvania?): alla domanda sul perché pensa che il Rocky Horror Show abbia avuto successo per oltre 40 anni, lui risponde incerto “Perché, uhm, è strano!”.
Questa storia ci insegna… diciamo tutta una serie di cose.
Quella su cui mi preme calcare però è che il Rocky Horror Show fu una cosa unica, che creò una tipologia di successo mai vista prima.
Ma la sua caratteristica principale, probabilmente, è che riusciva sia a trasmettere un messaggio potente e aggressivo che a risultare in qualche modo irresistibile anche per chi non dovesse/volesse coglierlo.
The Rocky Horror Show, come il titolo sottilmente suggerisce, ha a che fare con l’horror.
L’idea di base è abbastanza semplice: e se la classica coppietta da film horror anni ’50, portatrice di sani valori tradizionali americani, si imbattesse in una strana minaccia dall’oltrespazio che però, stavolta, fa scoprire loro di avere torto?
È il genere horror stesso che permette questo tipo di stravolgimenti: l’horror non ha vere regole, ha solo luoghi comuni.
Richard O’Brien, creatore dell’opera, stava comunque tentando un’acrobazia multipla: un horror, un rock musical, una festa goliardica, una storia di liberazione mentale/sessuale. E poi anche una commedia, via. E da un certo angolo persino un “true” crime.
The Rocky Horror Show è trasversale, su più livelli, ma lo è più o meno per coincidenza. Richard O’Brien non stava inseguendo nessuno: come tutti i migliori, stava tirando dritto per la sua strada per vedere chi gli sarebbe andato dietro. Gli è soltanto capitato di fare tutto bene. E che pure le cose “sbagliate” aggiungessero un loro fascino.
Trama: Brad e Janet sono freschi fidanzatini, bucano una gomma in una notte di temporale, bussano fradici a un tetro castello e apre loro il maggiordomo losco di un padrone di casa che sfugge a ogni definizione. Un alieno, uno scienziato pazzo. Ma soprattutto un travestito bisessuale ossessionato con la ricerca del partner perfetto, che ha appena scoperto come costruirsi letteralmente un boy toy personale in puro stile frankensteiniano e che pertanto potrebbe in qualsiasi momento deragliare la trama verso un porno puro. Se già a teatro il Rocky Horror era una proposta azzardata, quando sull’onda dell’imprevisto successone lo si è portato al cinema è diventato qualcosa di totalmente folle e mai visto prima.
Frankie (nome non casuale), interpretato in entrambe le versioni da un Tim Curry ineguagliabile, è il villain carismatico “alla Point Break“: compie atti inequivocabilmente criminali e merita di essere sconfitto, ma solo dopo aver cambiato per sempre la vita dei protagonisti. E Brad e Janet (e il Professor Scott) per certi versi ne escono persino più sconfitti di lui, completamente annichiliti dall’esperienza e dalla scoperta di una verità interiore che non sembrano in grado di reggere. Sono vittime da sfottere (specie Brad) più che vittime con cui empatizzare. Un po’ come in The Wicker Man, ma più sprovveduti che prepotenti. Ecco, The Wicker Man è forse l’oggetto che più si avvicina in assoluto al Rocky Horror Show per più di un verso, con tutto il resto dello scibile umano a netta distanza, non fosse che le due opere sono contemporanee e che The Wicker Man fu un sonoro flop rivalutato soltanto svariati anni dopo.
La pazza storia della versione cinematografica, quella che ne consacrò definitivamente il mito, la si conosce.
Brevemente: il film floppa male ed è recensito peggio, ma improvvisamente trova il suo target nelle proiezioni di mezzanotte. Nasce un fenomeno che prima di quel momento non si era mai visto: la gente inizia ad andarci ripetutamente, a presentarsi vestita come i personaggi del film, a recitare le scene in contemporanea davanti al film stesso e poi a rispondere a voce alta a quanto succede a schermo, fino a diventare una cerimonia codificata in cui tutti sanno cosa urlare e quando. Quanto dura il fenomeno? Ho appena ricontrollato, e a Londra lo fanno ancora puntualmente una volta al mese. E pure in Italia resiste a tutt’oggi il leggendario cinema Mexico di Milano, che iniziò a metterlo fisso in cartellone nel 1980 (imparo ora che il primo cast amatoriale era capitanato da Claudio Bisio nei panni di Brad). Si è dovuto aspettare un altro fenomeno singolare irripetibile come The Room per avvicinarsi a questi livelli di religiosità e coinvolgimento.
Il film cambia poco rispetto allo spettacolo originale. Toglie il doppio ruolo a Meat Loaf, lasciandogli interpretare Eddie ma affidando il Professor Scott a Jonathan Adams, che in origine era il narratore, mentre il ruolo del narratore viene dato a Charles Gray – già Blofeld in Agente 007 – Una cascata di diamanti. Vengono cambiati sia Rocky che Brad e Janet, e quest’ultima diventa un ruolo memorabile per la giovane Susan Sarandon. Il resto, incluso Jim Sharman in regia, è invariato.
La versione filmica permette di moltiplicare le citazioni horror, a partire dal castello di Frank che è Oakley Court, storica location di diversi film della Hammer.
Ma a parte quello, all’inizio viene soprattutto notata la plasticosità di certe scenografie e un impianto generalmente grezzo che, se oggi vengono riconosciuti come parte integrante dell’appeal camp di un prodotto unico, di primo impatto davano una forte impressione di dilettantismo.
Le cose importanti rimangono tutte: una storia sovversiva sfrontata e strafottente, un’atmosfera di festa e ribellione contagiosa, canzonette glam irresistibili, citazionismo che omaggia il potere escapista del cinema, svariate immagini ancora oggi potentissime. Il messaggio “Non sognatelo, siatelo” non è il solito banale discoro motivazionale che si sente ormai in tutti i film della Disney: è praticamente una sfida, un’accusa di rigidismo e, sotto sotto, persino invidia.
Di questo c’era bisogno nel ’75, e ce n’è stato bisogno per parecchi anni a seguire.
Oggi per fortuna Frank non è più l’unico personaggio memorabile gender fluid del grande schermo: il suo modello – specie nelle sfumature più necessarie alla trama horror che al resto – può essere rimesso sanamente in discussione, se non proprio accantonato per qualcosa di più utile al panorama moderno. Oggi, se si va a vedere una rappresentazione del Rocky Horror Show, è più facile imbattersi in qualcosa di smorzato e alleggerito. che invita a non essere preso troppo sul serio, per giocare sull’effetto nostalgia, piacere anche a chi è in cerca di una semplice occasionale carnevalata goliardica o a chi vuole semplicemente godersi le canzonette. “È una commedia”. “È strano”. Funziona.
Si potrebbero dire miliardi di altre cose e non finirla più, per cui mi fermo e vi dò due opzioni:
- approfondite ascoltandomi mentre ne parlo con Aldo Fresia (autore di The Rocky Horror Picture Show: Erotic Nightmares) e Matteo Scandolin in una puntata del compianto podcast Ricciotto
- soprattutto, se siete nei paraggi, correte a godervelo su grande schermo sabato 9 marzo all’Extra Sci-Fi Festival di Verona.
Poster-quote:
“Enter at your own risk”
Nanni Cobretti, i400calci.com
P.S.: nel 1999 Meat Loaf accetta senza batter ciglio il ruolo del maschio con le tette che piange come una fontana in Fight Club, azzeccando un altro personaggio indimenticabile in una “commedia strana”. Ti voglio bene Meat: ovunque tu sia ora, sto aspettando che scappi in moto.
Storia del teatro, del cinema, dell’emancipazione. Opera seminale, in ogni senso.
il prossimo che dice “seminale” lo infiliamo nel cippatore della legna
Chiaro e diegetico.
Il messaggio, potente e bellissimo, e’ che bisogna avere il coraggio di gettarsi oltre l’ostacolo e di gettare il sasso dentro a quel dannato stagno.
Fosse anche solo per la speranza che qualcuno lo faccia suo, il messaggio, e che un giorno continui al nostro posto.
E cosi’ che si dovrebbe vivere. Dovremmo capirlo un po’ piu’ spesso.
“L’idea di base è abbastanza semplice: e se la classica coppietta da film horror anni ’50, portatrice di sani valori tradizionali americani, si imbattesse in una strana minaccia dall’oltrespazio che però, stavolta, fa scoprire loro di avere torto?”.
A me questa cosa fa molto pensare a The VVitch. Ho sempre pensato che la chiave del finale sia la protagonista che alla fine decide di guardare cosa c’è “on the other side”.
Sarà che sotto sotto sono più puritano di quanto credo, o che non riesco a uscire dalle mie limitazioni, però in parte la vedo come il buon “Polpettone”: la venerazione ossessiva nei confronti di quest’opera mi ha sempre lasciato perplesso, pur avendolo visto più volte e avendo apprezzato molto l’interpretazione di Tim Curry (che poveretto non riuscirà mai a liberarsi dell’ombra di Frank, pur avendo fatto di tutto e di più). Stesso discorso per altri fenomeni come il Touhou Project (per farla breve, videogiochi bullet hell con creature della mitologia giapponese che ha generato una vera e propria industria di fan content) o anche cose più terra-terra come i fan che ogni anno si radunano presso la casa di Artemio de “Il ragazzo di campagna”. Non lo so, a me questi esempi di opere che trascendono il fandom per diventare dei culti più che dei cult fanno anche un po’ paura, una cosa che ho trovato evidenziata solo nel mediocre anime “BNA: Brand New Animal” che fa un parallelo esplicito tra religione, sette segrete e fandom vari. Poi ripeto, è un problema mio personale…
p.s. la tagline del poster “A different set of jaws” era geniale.
p.p.s. se Claudio Bisio fa il Rocky Horror, Richard O’Brien in “Spice World” sembra Bisio, guardare per credere!
p.p.p.s adesso però dovrete parlare anche di quella merda di Shock Treatment…
Sei fortunato, parlo anche di Shock Treatment nell’episodio di Ricciotto che ho linkato alla fine.
Una cosa però va detta: quella del Rocky Horror Show è una delle rarissime fanbase che sembrano non avere nessun effetto collaterale comunemente associato a situazioni simili. Non mi risulta abbiano mai cagato il cazzo a nessuno, nemmeno quando la Fox ha organizzato un live remake semi-inguardabile per una serata evento, e in generale mi sembra che vogliano soltanto divertirsi alla sera della proiezione e buona lì. Al massimo, trombare subito dopo.
Non pensavo di trovarlo recensito su questi spazi, ma dovevo aspettarmelo, è il Rocky Horror Picture Show. Un pastrocchio assurdo che a farselo raccontare non ci crederesti mai e poi mai possa funzionare, e invece non solo qualcuno ha avuto il coraggio di portarlo in scena, ma in breve diventa un evento epocale, nel vero senso della parola. Non puoi capire gli anni 70 senza il Rocky Horror Picture Show, e viceversa (e nella mia testolina compare Dr.Z dei Venture Bros che racconta come finì a letto con Blue Morpho: “It was the 1970s! So ask you to chill and cut me some slack”). Sono comunque dell’idea che una buona fetta di merito vada a Tim Curry, ci ha creduto tantissimo e si vede, in mezzo a buoni attori che fanno il loro la sua interpretazione è clamorosa. Al punto di rimanerne anche intrappolato, ma a differenza di altri casi simili, mi sembra che non ci siano rimpianti o risentimenti da parte sua. Un augurio per la sua salute, gli si vuole bene.
Venni a conoscenza del Rocky Horror Show guardando sulla RAI “i Promessi Sposi” di Solenghi Marchesini Lopez.
Alla parodia del Time Warp con l’Innominato vedo i miei ridere come pazzi.
Chiedo delucidazioni. Mio papà mi guarda con quegli occhi che dicono “la tua vita sta cambiando per sempre figliolo”.
Penso sia l’unico musical che abbia visto in vita mia, il secondo se ci mettiamo di mezzo i Blues Brothers
Sarà un commento da boomer, ma che tristezza vedere il fervore culturale, l’anarchia, il coraggio del mondo anglosassone a quei tempi (un altro esempio è il Saturday Night Live), quando davvero potevano essere un esempio da seguire, e la mondezza che ci propinano a forza oggi, a partire dalla Cancel Culture o la Woke
TRHPS è più di un musical, è un inno senza tempo alla libertà, alla ricerca e comprensione di sè stessi, alla ribellione contro le catene del pregiudizio, del conformismo, cantando e ballando gioiosamente insieme, non esistono freak ma esser umani che voglio amare ed essere amati.
Non ho mai visto uno spettacolo teatrale live ma rimsi folgorato dal film tanto tempo dopo che era un cult stabilito, quando conoscevo più la citazione in Fame e il suo poster nello stuio di Dylan DOg con le labbra più celebri dopo quelle dei Rolling Stones.
E non credo sia invecchiato male, anzi, la messa in scena povera, la musica glam, gli intermezzi da commedia, gli effetti sonori, tutto grida “seventies!”, un decennio così incredibile e universale (a mio avviso molto più decisivo, su vari livelli, degli anni sessante) che ancora oggi tentiamo di riprodurne la portata rivoluzionaria nei film, nella musica, nelle narrazioni.
PS Anche Barry Bostwick non credo abbia mai capito tanto di TRHPS, infastidito spesso nelle interviste di come ci si ricordasse di lui ancora per il ruolo di Brad, ma come per Meat Loaf, sembra che gli americani facciano fatica ad accettare che qualcosa di successo, estremo successo, possa avere una sua sofisticazione e una formula magica, fatto al momento giusto con le persone giuste, e di non americano. Mah! (Susan Sarandon invece ne aprla ancora con i cuoricini sugli occhi decenni deopo).
PS2 Mai visto Shock Treatment e non credo di aver fatto male…
Io devo essere sincero, capisco l’importanza sociale e culturale, il messaggio d’emancipazione ed inclusione e tutto. Però l’ho sempre trovato un film brutto, ma veramente brutto.
Siamo in due
E penso che il messaggio che lancia sia giustissimo, non è certo quello il problema
Ma sono io che non sopporto i musical
https://www.youtube.com/watch?v=tbqHMBwJA9k&ab_channel=Vendettainfinita
e non dico altro
Ti ringrazio di cuore: non conoscevo, hai fatto benissimo a metterlo 🙏🏻🙏🏻👏🏻👏🏻👏🏻
I cari vecchi tempi della Gialappa’s. Una fucina di comici e caratteristi incredibile. Anche lì liberi di esprimersi, improvvisare, inventare cross-over memorabili.
Non credo esistano più contenitori di questo tipo, almeno non in televisione alla portata di tutti.
“Brad e Janet sono freschi sposini”
Ti tiro le orecchie fortissimo. Si sono appena fidanzati! (e infatti sono entrambi vergini).
Hai ovviamente ragionissima, il cervello è andato in pilota automatico nonostante tutta l’apposita canzonetta di fidanzamento. Correggo.
Averlo visto casualmente a 10 anni mi fece scoppiare il cervello, a suon di atmosfere paurose e sci-fi, contenuti sessualmente adulti e canzoni della Madonna.
Hail hail, RHPS.